BOTTA E RISPOSTA – Dispaccio in versi: contro l’omologazione, tra Fabio Franzin e Fernanda Ferraresso

 cristina finotti- terre di nebbia

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Stessa lengua?

Prova a farte un viàio pa’ l’Italia,
dae Alpi fin al streto de Messina,
fin ae ìsoe. Còssa dise! va ‘vanti
e gira pa’ l’Europa, se no’ basta…

Dapartùt ‘a stessa ròba, ‘e stesse
cadhéne de bóteghe, ‘e stesse
braghe, e fruta, ociài o carèghe,
‘i stessi cóeori. ‘A stessa crisi.

Àeo pròpio da èsser anca ‘a stessa
lengua a dir in poesia chi che sen,
quea soea? ‘na lengua conpagna
dei paneti fiapi del mècDonald’s,

dee felpe in pàil dea Decathlon
o dee lampade a cono de l’Ikea?
‘E mé paròe le ‘é storte, macàdhe,
vèce e diverse, lo so, ma le ‘é sièlte

e scrite co’ passión, e nianca una
vièn scartàdha. No‘ò da venderle,
dàrghee da magnàr a tuti, far schèi.
A mì, in fondo, ‘e me va ben cussì.

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Stessa lingua?

Prova a farti un viaggio per l’Italia, / dalle Alpi sino allo stretto di Messina, / sino alle isole. Cosa dico! Prosegui / e gira per l’Europa, se non bastasse… // Dappertutto trovi le stesse cose, le stesse / catene commerciali, gli stessi / pantaloni, e frutta, occhiali o sedie, / gli stessi colori. La stessa crisi. // Deve proprio essere pure la stessa / lingua a dire in poesia chi siamo, / quella soltanto? Una lingua uguale / ai panini flosci del mcDonald’s, // delle felpe in pile della Decathlon / o delle lampade a cono dell’Ikea? / Le mie parole sono storte, ammaccate, / vecchie e diverse, lo so, ma sono scelte // e scritte con passione, e neanche una / viene scartata. Non devo venderle, / darle da mangiare a tutti, far soldi. / A me, in fondo, vanno bene così.
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Fabio Franzin

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  cristina finotti- scritture della nebbia
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invése a mì   vèdito
me piaze scartarle e paroe
e vardarghe drento tra e sfese

e gà oci che me varda come speci
e riflete tuto queo che te ghé  torno e drento
no e gà vose no gnanca na scianta de giarin che se move
ma e fa passi che non xe da omo
pensa che te rivi parfin dove che ghe xe dio
a dire cosa ch’el voe o no’l voe cosa che se magna e cosa che no te ghé da fare

go visto però
che basta na o
co’ na h picinina tacà
e subito se voea pì ‘n là
de dove che se iera

el prima resta drento
ma ‘l dopo ghe fa da porta
e ti te poi vardarte de qua
e de eà sensa che manca calcossa

te te vedi tut’ intiero
sensa perderte come sora e vetrine
de coin o de staltra che i ciama rinasente ma cussì no ea xe par gnente
e tanta ma tanta zènte resta fora, coi oci par fora
che ghe sciopa a vardare i pressi, sempre i stessi
e quanto presto che i gà ciamà sconti e saldi de nadae e semo gnanca a novembre

chi sa se pasqua se fa subito drio dea befana
cussì se risparmia
l’iva su ea lana
e staltra tassa
l’irpef che i xe drio parlarghe tanto in parlamento ma no vegnarà fora che un buzo
n’altro tra i tanti che ghemo
tuti ‘n corpo che i se gà verto pa’ e bae che i spara e i baetoni dee manifestasion
dove ea poisia ne core drio par darne dosso co’ e spranghe
noi gà gnancora capio che semo poareti compagni
noialtri e iori  poareti da na vita
no siori

e quei che comanda no i se vede in strada
né da na parte né da staltra
i resta al coverto i ori
i resta persi come ea sabia ‘ntel deserto
e de mezo noialtri coi strissóni in man
e i sfreghi in tel conto
rosso rosso cofà ‘l sangue che ne core par drito e par riverso
l’unico universo che ‘ncòra ghemo gratis.

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a me invece vedi /piace scartarle le parole/ e guardarci dentro tra le fessure // hanno occhi che mi guardano come specchi /e riflettono tutto quello che hai intorno e dentro / non hanno voce no nemmeno un poco di ghiaino che si muove / ma fanno dei passi che non sono umani / pensa che arrivi perfino dove c’è dio / a dire quello che vuole e non vuole quello che si mangia e quello che tu non devi fare // ho visto però che basta una o / con una h piccolina attaccata / e subito si vola più in là / di dove si era // il prima resta dentro/ ma il dopo gli fa da porta / e tu puoi guardarti di qua / e di là senza che manchi qualcosa // ti vedi tutto intero/ senza perderti come sopra le vetrine / di coin o di quell’altra / che chiamano rinascente ma così non è per niente / e tanta ma tanta gente resta fuori, con gli occhi di fuori / che gli scoppiano per guardare i prezzi, sempre gli stessi / e quanto hanno fatto presto a chiamarli sconti e saldi di natale e non siamo ancora a novembre // chi sa se pasqua si farà subito dopo la befana / così si risparmia/ l’iva sulla lana/ e l’altra tassa / l’irpef di cui stanno parlando tanto in parlamento ma non ne verrà fuori che un buco / un altro tra i tanti che abbiamo / tutti in corpo che si sono aperti a causa delle palle che sparano e dei pallettoni delle manifestazioni / dove la polizia ci corre dietro per darci addosso con le spranghe/ non hanno ancora capito che siamo compagni in povertà/ noi e loro poveretti da una vita / non signori // e quelli che comandano non si vedono per strada / né da una parte né dall’altra / restano al coperto l o r o ( gli ori) / restano persi come la sabbia nel deserto / e di mezzo noi con gli striscioni in mano / e gli sfregi nel conto / rosso rosso come il sangue che ci corre per dritto e rovescio (e riversa) / l’unico universo che ancora abbiamo gratis
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Fernanda Ferraresso
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 cristina finotti- terre di nebbia
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Ringrazio Fabio Franzin al quale ho cercato di rispondere come si fa con un fratello che è andato via, da qualche parte e di cui si sente la voce, e la mancanza fattasi viva in una lettera arrivata per dispaccio.  E proprio perché fratello ho riprovato ad usare la mia lingua natale, la lingua dei miei nonni e dei miei genitori, lingua che è il dialetto veneto, che mi hanno rubato quando ero molto piccola, all’inizio della scuola, obbligandomi a parlare e scrivere solo in italiano, tutto il contrario di qualche tempo fa, in cui davano finanziamenti per parlare dialetto a scuola, e questo in un tempo in cui la globalizzazione impone le lingue anglofone, quelle con cui i tecnici- politici s’infiocchettano il pa(r)lato e ci spremono con spread e (di)sprezzo attraverso altre definizioni che a noi lasciano le tasche vuote, il cuore amaro e non sono che esche in cui si attacca miseria a quella mai perduta in altri territori del pianeta e, in fondo, nemmeno qui, visto che si preferiscono cose di pochissimo conto, mercantili e facilmente perdibili o deperibili al posto di un corpo interiore che sia la propria terra per una vita intera e la propria lingua sostanziale. Sono consapevole di scrivere da scolaretta, da analfabeta della mia lingua d’origine, è interrata in me o forse è nascosta dalla nebbia che si impianta tra le case e la gente, che mi porto in corpo, profonde in me tanto quanto questo vapore, come grani di sabbia d’aria,umidità che ti punge gli occhi, ti entra nei polmoni e la senti sopra e dentro la testa, come un luogo in cui tutto resta  sospeso, in un’attesa che sa di miracolo o di spreco, perchè sono in fondo la stessa sostanza. Quello che comunque ho cercato di portare dentro le parole è l’affetto, o meglio ciò di cui sono affetta anch’io come lui, profondamente,  quell’umanità che rende vicina ogni persona, l’amore per la vita,  non per il mercato di entrambi.
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fernanda ferraresso

19 Comments

  1. non ho commentato il mio testo,ho semplicemente spiegato a causa di cosa sia nato e poiché non scrivo in lingua dialettale, che ora sto studiando,mi sono scusata con Fabio,che invece è maestro. Rispondere in italiano significava sentire ancora una volta il dolore che ho provato per anni tornando alla mia casa natale, nella campagna di mia nonna, in cui tutti conoscevano bene il dialetto e mi guardavano come un animale strano perché io, invece, diversamente da loro, rispondevo in italiano. Dunque niente a che vedere con il testo.Grazie comunque del commento.

  2. Grazie ad entrambi, grazie perché portate la poesia fin dentro il corpo sofferente di tutti gli esclusi e gli offesi da un mondo che DOBBIAMO cambiare.

  3. “La lingua vuol dire tutto. Tu puoi privare un uomo della sua casa, egli sarà ancora libero; puoi togliergli il cibo, il lavoro, la moglie, egli sarà ancora libero; ma se gli strappi la lingua non sarà più libero.”

    (Turoldo da “Da tempo la terra trema”)

    Ecco il mio contributo in versi.

    CU LA ME LENGA (friulano)

    Cu la me lenga, un puc spissada,
    roseada cà e là tal manic, i vai
    avant, sot chistu clar di luna,
    e provi a disfidà sterps e stròpis
    ch’a vòlin fami pòura, fami
    il sgambèt, dimi di mètimi intòr
    peraulis slusignòsis, coloràdis,
    intant ch’a mi cres sot i piè
    un aga sporcia di fangu…
    Cu la me lenga plena di vinciars,
    arcassis, poi, vits, i passi pai trois
    strès di chista nustra etàt…

    Con la mia lingua. Con la mia lingua, un po’ appuntita, / rosicchiata qua e là sul manico, / avanzo, sotto questo chiaro di luna, / e provo a sfidare sterpi e siepi / che vogliono spaventarmi, farmi / lo sgambetto, dirmi d’indossare / parole luccicanti, colorate, / mentre mi cresce sotto i piedi / un’acqua sporca di fango… / Con la mia lingua densa di salici, / acacie, pioppi, viti, passo per i viottoli / stretti di questa nostra epoca…

    GIACOMO VIT

  4. Non era la lingua il nocciolo essenziale e vitale, ma l’impoverimento e la perdita generati dalla omologazione. Tutte le stesse cose in ogni parte del mondo e tutti schiavi ugualmente di quelle cose, che poi sono anche idee, inculcate nelle abitudini perchè inchiodate a forza di ripetizioni nella testa, nella pancia, nel corpo tutto,comprese quelle religiose. Quanto a commento non ho affatto commentato il testo, né quello di Franzin né il mio. Leggere con attenzione, però, aiuta a comprendere il perché delle cose, oggi che in molti passano con superficialità, credendo di sapere e capire tutto, su ogni cosa incontrino. fernanda f.

  5. quando pubblico un post sono solita spiegare che cosa faccio e cosa ci fa lì quello che è scritto.Questo riguardava uno scambio privato che si è fatto pubblico e il pubblico di certo non sa cosa c’è dietro. Ecco, l’ho messo a parte di questo, nessun commento ripeto, al testo,né il primo né il secondo e poi basta leggere con attenzione. Non sono solita costruire stampelle né polemizzare inutilmente. f.f.

      1. se realmente lo fosse da tempo non sosterrebbe che mettiamo il lettore in condizioni di passività.In ogni caso ogni lettore è il benvenuto. A presto, la responsabile.

  6. la lingua – il linguaggio – e quindi il nostro sentire, la propria cultura, l’odore unico della propria terra, serve a distinguerci ma anche a porgerci per condividere. Restare nelle proprie unicità arricchendoci anche dell’altro.

    Con il dialetto ho un rapporto di odioamore: lo parlo solo in famiglia. E’ un dialetto quasi antico, stretto, chiuso in se stesso, che mi appartiene profondamente ma che non riesco a scambiare come fanno qui Fabio e Fernanda.
    Fabio lo percorre da tempo nella sua mirabile poesia.
    Fernanda lo accoglie e lo offre attraverso il suo percorso.
    Non hanno senso limiti ( schemi) al modo di porgersi.

    ciao a tutti.

    1. Grazie Iole, mia lucerna nella pioggia. Per me è stato davvero doloroso,all’età di sei anni, perdere praticamente tutto:famiglia,casa, compagni, giochi, luoghi e dialetto, per iniziare da zero e con una lingua senza un corrispettivo d’affetto.A scuola solo italiano, a casa lo stesso, con i compagni, che ora erano tutti cittadini, solo italiano. Un vuoto senza acqua, senza fiato, solo un peso senza sonorità se non un tonfo. Per questo non ho mai usato questa lingua nello scritto,apre tagli che pensavo fermi e invece ancora sono brulicanti di insetti. Ciao,f

  7. E’ vero, il dialetto diventa una sfida (poetica)nel porgerlo agli altri. Vorrei ricordare, a braccio, alcuni dei tanti che ci sono riusciti: Franco Loi, Tolmino Baldassarri, Ernesto Calzavara, Amedeo Giacomini, Ignazio Buttitta, Novella Cantarutti, Elio Bartolini, Ida Vallerugo, Albino Pierro….. Questi poeti dialettali non hanno avuto un corrispettivo in lingua italiana (F.Brevini)

  8. Ringrazio Fernanda, e di cuore, per aver postato questo nostro “dialogo” a distanza all’interno di una lingua minore. E mi scuso per il ritardo con cui qui lo faccio. Se posso intervenire sull’intervento di Vit (caro amico che stimo) e sulla risposta piccata di Fernanda, credo che sia a causa di un fraintendimento. Conosco Giacomo, e so la sua educazione e il suo rispetto. Forse gli è scappato un pensiero personale che non voleva essere assolutamente offensivo, o forse non ha compreso davvero le ragioni profonde della “risposta” poetica di Fernanda. Io l’ho sentita, da subito, come un atto di avvicinamento e, di sua, riappropriazione di una lingua forse trascurata. In ciò vi ho visto solo un atto d’amore.
    Con affetto. FF

  9. chi lavora con le parole sa riconoscerne il peso e il senso, sia che siano in lingua madre, e per me questa è il dialetto, sia che siano in lingua ufficiale, e questa è la lingua del paese-nazione in cui si vive.
    Scrivo abbastanza spesso la mia lettura relativa ai testi degli altri, questo intervento non era un semplice post ma un dare la mano all’altro, attraverso la parola, e il farlo significava prendere tutto ciò che ho in corpo per metterlo lì, sulle mani e le braccia con cui abbracciavo non qualcuno a cui posso essere indifferente, ma un fratello, e per di più dolente, quanto e come me, per una perdita di umanità che segna il nostro conto in rosso nelle relazioni. Non si tratta solo di lingua o linguaggio ma di sostanza profonda che si dichiara contro un mercato, in cui entra purtroppo anche la parola scritta e parlata. Ho usato il dialetto perché doveva essere un gesto diverso, doveva essere un segno di ritrovamento, pur con le difficoltà che per me comporta. Ringrazio Fabio per avermene dato l’occasione e per aver compreso quanto ho fatto, non scritto. Ricambio l’affetto di cui sono orgogliosa e felice.fernanda ferraresso.

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