T9 – Le parole sufficienti- di Paolo Gera

tempesta colline senesi

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Convegno “IN TEMPI BUI-La poesia e il linguaggio dell’impegno in Italia dalle leggi razziste ai porti chiusi”, Modena, 4 maggio 2019/ seconda parte

Nella prima parte di restituzione degli atti del convegno tenutosi a Modena, lo scorso 4 maggio, cartesensibili ha presentato la mia presentazione e il successivo intervento di Antonella Jacoli.
Questa seconda parte di T9 è dedicata alla voce e agli interventi dei primi poeti che si sono succeduti, con le loro riflessioni e una selezione dei testi proposti.

Fabrizio Bregoli:

Una delle tesi pincipali che riguardano il mondo contemporaneo è l’individuazione del fondamento delle nostre difficoltà economiche e sociali nella crisi finanziaria del 2008.
Bregoli risale a questo momento di rottura per sottolineare che si è trattata di una crisi che ha riguardato essenzialmente la parola. Si è perso da allora fiducia nel significato delle parole, nel contatto che le parole devono trasmettere. Se si può parlare di una missione per la poesia, invece, questa risiede proprio nell’idea che le parole possano incidere e possano cambiare la realtà. Per Bregoli, d’accordo su quanto da me sostenuto nella presentazione del convegno, non si dà poesia che non sia politica, nel valore etimologico del termine, ovvero poesia della polis, della comunità: occorre tentare di muoversi verso l’altro e tramite i versi costruire una comunità ideale. Sulla crisi epistemologica del linguaggio Fabrizio Bregoli ha letto una poesia tratta dal libro “Il senso della neve”(2016). La domanda è se ancora la parola possa farsi cronaca di esperienze e attingere ad un giacimento di verità:

 

Quel ramo

Scruto dalla finestra
come dal più preciso dei cannocchiali
la finestra, identica, della casa di fronte,
i lampioni inclinati, l’asfalto lucido di pioggia,
lo scomposto accostarsi delle zolle
che si perdono nelle fessure della terra,
la calce fresca, la sabbia, i mattoni ammucchiati
e un ramo nel coacervo dei rami, quel ramo.
E sai che non è ramo quel ramo se non lo nomino
come non è parola la parola che pronuncio
ma è la distonia di ogni altra parola
se non la credi vera.
Per questo non so come affacciarmi sui giorni
stretti in questi nostri tempi di tumulti
nel dirupo dei tempi, tempi gravidi
di labbra di ghiaccio secco
di lingue tappezzate di chiodi
di trachee carbonizzate nella roccia.
La scacchiera è sgombra, si richiude sul legno
ma sospetto delle tende, dei vetri appannati,
delle pupille dilatate, della luce volubile.
Altri erano gli spazi su cui sporgersi
con le unghie linde, la saliva impaziente sui denti,
le pietre, gli steli da raccogliere.
Abbasso lenta la tapparella, sugli occhi,
e, con un battito di ciglia superstite, su questa carta
muovo le ultime armate inesistenti.

 

Bregoli ha sottolineato come la sua poesia ricerchi costantemente un confronto con la Storia: stiamo vivendo in tempi che stanno ripetendo circostanze che non sono diverse dalle sequenze del passato e la crisi del 2008 non è poi così dissimile da quella del ’29. Il rischio è che possa esserci, come allora, uno slittamento verso soluzioni politiche autoritarie. Ma la poesia di fronte alla rappresentazione della realtà di trova di fronte a una difficoltà di tipo costituzionale: siccome la poesia ha uno scopo artistico di abbellimento, di allettamento nei confronti del lettore, il rischio è che la realtà possa essere falsificata. Quanto si scrive per reale solidarietà e quanto comunque per una ricerca di bello formale, in cui possa trasfigurarsi ad esempio lo sguardo solidale rivolto ad un clochard? Nel suo testo “Fosse poesia”, dalla raccolta “Zero al quoto” (2018), il testo vive dunque di una ricchezza di contraddizioni, che lo trasforma alla fine in un vero ossimoro:

 

Fosse poesia

Fosse poesia potrei indugiare
su qualche vezzo cromatico, un radere
di luce tra capelli e volto, indulgere
a un virtuosismo lirico, un pacato
trasgredire metrico, i trucchi buoni
che lusingano in una lana di fiato
stemperano la voce che s’aggruma.

Ma questa scena è minima, assoluta
non si concede appello, assoluzione.
Lui siede agli scalini, tra i piccioni
le gambe lacerate dalle piaghe
intruso tra quei cenci, qui recluso
in un rettangolo di cicche, di sputi
lo sguardo arrovesciato su detriti
di storie, ciò che ne resta tra le unghie
sudice, un bicchiere, stente monete.
Chiede nuda evidenza del suo esserci.

E non serve una poesia, un altro alibi.

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 mike olbinski- supercella in texas

Immagine correlata

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Pina Piccolo ha sviluppato il suo intervento intorno ad alcuni concetti-base che caratterizzano la poesia, la sua vita e quella della società, nel tentativo di valutarne la forza regressiva e progressiva, con lo scopo di individuare le linee di un possibile cambiamento.

Il primo concetto da cui ha preso avvio è quello dello spostamento. Ha detto di situarsi come figliastra del rimosso migratorio italiano. Calabrese, come molti altri che dal sud hanno voluto o dovuto emigrare, anche Pina Piccolo si è trasferita, per curiosità intellettuale e apertura verso il mondo, in Emilia e in California. Pina Piccolo è figlia di uno spostamento. Ma anche la poesia, a ben vedere, è parola che si sposta, che slitta, non pura comunicazione, ma inciampo, parola che si apre un varco verso un’altra possibilità, un’immaginazione, un mistero. Questa vocazione allo spostamento ha bisogno nei tempi bui che stiamo vivendo, di bussole che possano indicare nuove direzioni. Proprio nella poesia “A coloro che verranno”, dai cui versi ha preso titolazione il convegno, Brecht scrive:” Quali tempi sono questi, quando/discorrere d’alberi è quasi un delitto”. La poetessa americana Adrienne Rich(1929-20012), autrice di “Cartografie del silenzio”, in un suo componimento riprende il discorso di Brecht e scrive a sua volta:” In tempi come questi per farsi sentire da tutti è necessario parlare di alberi”. Così Pina Piccolo ha voluto ricollegare questa idea alla protesta attualissima dei movimenti ecologisti guidati dalla ragazza Greta Thunberg. Nuovi orizzonti. La poesia ha bisogno di guadagnare nuovi campi e nuovi semi da piantare, ma per fare questo deve togliersi di dosso tutto il gravame del passato. La poesia non garantisce nulla, se è possibile che il nome di uno dei più grandi poeti del Novecento, Ezra Pound, sia ora associata ad un’associazione neofascista. Occorre, nei tempi bui che stiamo vivendo, avere a disposizione delle bussole etiche. Adrienne Rich, ad esempio, per non tradire le proprie convinzioni morali e ideologiche si è rifiutata a suo tempo di ritirare un importante premio dalle mani di Bill Clinton. A Bertolt Brecht, in maniera ovviamente dialettica, si è anche riferita la stessa Pina Piccolo e i versi de il “Il cambio della ruota”

 

Mi siedo al margine della strada.
Il guidatore cambia la ruota.
Non sono contento di dove vengo.
Non sono contento di dove vado.
Perché guardo il cambio della ruota
con impazienza?

sono diventati in una sua poesia: “ Invece di sederci come lui sul ciglio della strada/Funamboli ciechi ci addentriamo su un burrone/Portandoci sulle spalle la carcassa della Storia”. Questa visione benjaminiana del passato spinge Pina Piccolo a citare il Karl Marx utopico e in un certo senso poetico del “18 brumaio di Luigi Bonaparte”:

“Gli uomini fanno la propria storia, ma non la fanno in modo arbitrario, in circostanze scelte da loro stessi, bensì nelle circostanze che essi trovano immediatamente davanti a sé, determinate dai fatti e dalla tradizione. La tradizione di tutte le generazioni scomparse pesa come un incubo sul cervello dei viventi e proprio quando sembra ch’essi lavorino a trasformare se stessi e le cose, a creare ciò che non è mai esistito, proprio in tali epoche di crisi rivoluzionaria essi evocano con angoscia gli spiriti del passato per prenderli al loro servizio; ne prendono a prestito i nomi, le parole d’ordine per la battaglia, i costumi, per rappresentare sotto questo vecchio e venerabile travestimento e con queste frasi prese a prestito la nuova scena della storia”.

Sono considerazioni che sembrano aderire perfettamente anche ai tempi che stiamo vivendo, anche se l’attuale evoluzione è secondo Pina Piccola decisamente più complessa e articolata rispetta a un punto di crisi come il 1939 e dunque richiede nuovi strumenti e nuovi tipi di associazione per combattere appunto “i fantasmi del passato”. In particolare la prospettiva che auspica Pina Piccolo è quella di paradigmi protestatari che non siano più trattenuti in compartimenti stagni, ma che possano arrivare a un processo identitario che tenga conto della complessità delle rivendicazioni. Un esempio eclatante che Pina Piccolo cita è quello della poetessa americana Audre Lorde (1934-1992), nera di Harlem, ma di origine caraibica, femminista, lesbica, ma poi sposata e madre di due figli, in lotta per lunghi anni contro il cancro. La poesia letta è “Chi ha detto che era facile” (1973) ed esprime una visione critica riguardo all’ipocrisia di una liberazione più proclamata che agita e che non riesce a sciogliere tutti i nodi profondi delle differenze.

Ha così tante radici l’albero della rabbia
che a volte i rami si spezzano
prima di dare i frutti.

Sedute a Nedicks
Le donne si radunano prima della marcia
discutendo dei vari problemi causati dalle ragazze
che assumono per sentirsi libere.
Un barista quasi bianco ignora
un fratello che aspetta servendo prima loro
e le donne non notano e neanche rifiutano
i piaceri più sottili della propria schiavitù.
Ma io che sono incatenata al mio specchio
tanto quanto al mio letto
vedo le cause nel colore
tanto quanto nel sesso

e siedo qui chiedendomi
quale me sopravvivrà
a tutte queste liberazioni.

 

Pina Piccolo, in maniera coerente con il suo percorso, assolutamente anti-intellettualistico, ma basato sulla ricchezza delle esperienze vissute, ha voluto raccontare la genesi di una sua poesia. Si trova ad Amalfi, la città dove le bussole dovrebbero essere state inventate, anche se la notizia rientra nel repertorio delle fake news. Prova una forte depressione per l’esito delle ultime elezioni e per la scaturigine di provvedimenti che ne deriveranno: all’improvviso, per la festa del santo patrono, vede formarsi un corteo festoso che avanza a ritmo di tarantella e tra i partecipanti, che danzano ridendo, molti sono africani. Pensa a uno dei primi documenti della lingua italiana, redatto da un notaio che registrava possessi, vede sotto i suoi occhi l’irrefrenabile scatenamento di un movimento senza confini:

 

Sao ko kelle terre, per kelle fini ke ki contene…
non saranno a lungo ai diavoli affidate
a scacciarli processioni di santi neri
che accorrono al richiamo
di rimbombi
scatenando ridde e tarantelle
 
le lingue delle sirene
si scioglieranno in profezia
e il clandestino Enea
smetterà di vagare
 
sulle onde del mare
salvifica cesta apparirà
zeppa di infanti
 
al sole inneggeranno
le loro parole
gli elmi bucati e arrugginiti
coleranno a picco

e nelle foreste
gioiranno gli orangutan
a noi cugini
dagli alberi dondoleranno
esultando alla dichiarata
illegalità di confini
e l’obsolescenza di notai e aguzzini

 

E  recentissima la notizia che Joy Harjio ha ricevuto l’incarico di Poet Laureate nazionale degli USA. E’ molto significativo, sia per le cose che scrive, sia per il fatto che è nativa americana.
La connotazione di Poet laureate negli USA è molto diversa da “i poeti laureati di montaliana memoria– mi ha precisato Pina Piccolo-  perché hanno un impegno civile che devono svolgere durante i due anni che sono in carica, devono promuovere la poesia  come genere letterario, etc.
Sempre Pina ha letto  la sua poesia “Una mappa per il prossimo mondo”  a Modena e a conclusione aggiungiamo proprio quella poesia.

Una mappa per il prossimo mondo, di Joy Harjo

Traduzione di Pina Piccolo- 3 maggio 2016

Negli ultimi giorni del quarto mondo desideravo tracciare una mappa
per chi avesse voluto salire e scappare dal buco nel cielo.

Unici miei strumenti i desideri degli umani che emergevano
dai campi dell’eccidio, dalle camere da letto e dalle cucine.

Poiché è girovaga l’anima e molteplici sono le mani e i piedi

bisogna costruirla di sabbia e non si può leggere con una luce ordinaria. Deve farsi carico del fuoco da portare al prossimo villaggio tribale, per rinnovare lo spirito.

Nella legenda ci sono le istruzioni sulla lingua della terra, come fu
che dimenticammo di riconoscere il dono, come non ci fossimo dentro e non le appartenessimo.

Prendi nota della proliferazione di supermercati e centri commerciali, altari al denaro. Sono loro a descrivere meglio la deviazione dalla grazia.

Che non ti sfuggano gli errori della nostra dimenticanza; la nebbia ci rapisce i figli mentre sonnecchiamo.

Dalla depressione sbocciano fiori di rabbia. Dall’ira nucleare nascono mostri.

Alberi di cenere ci salutano con la mano e appare e scompare la mappa.

Non conosciamo più i nomi degli uccelli che qui dimorano, non sappiamo apostrofarli chiamandoli per nome.

Un tempo in questa promessa lussureggiante sapevamo tutto.

Ciò che dico è verità ed è stampato come avvertenza sulla mappa. Siamo perseguitati dalla nostra dimenticanza, si aggira sulla terra dietro di noi, lasciando una scia di pannolini usa e getta, siringhe e sangue sprecato.

Dovrai accontentarti di una mappa imperfetta, piccola.

Il punto d’ingresso è il mare del sangue di tua madre, la piccola morte di tuo padre mentre anela conoscere se stesso dentro l’altra.

Non c’è via d’uscita.

Leggila attraverso le pareti dell’intestino– una spirale sulla via della conoscenza.

Viaggerai attraverso la membrana della morte, sentirai l’odore di cervo arrostito che emana dall’accampamento dei nostri parenti mentre preparano la zuppa di mais, nella Via Lattea.

Non ci hanno mai lasciato, siamo stati noi ad abbandonarli per seguire la scienza.

E mentre entrando nel quinto mondo ti prepari a esalare il prossimo respiro non vi sarà una X a indicarci la destinazione, nessuna guida con parole trasportabili.

Dovrai navigare seguendo la voce di tua madre, rinnovare la canzone da lei cantata.

Dai pianeti, il baluginio di un fresco coraggio.

E illumina la mappa stampata con il sangue della storia, una mappa che dovrai conoscere tramite le tue intenzioni, dalla lingua di altri soli.

Quando emergi annotati le orme degli uccisori di mostri, il punto in cui sono entrati nelle città di luci artificiali e hanno ucciso ciò che stava uccidendo noi.

Vedrai scogliere rosse. Sono il cuore, contengono la scala.

Un cervo bianco ti accoglierà quando l’ultimo umano si sarà arrampicato lasciandosi dietro le rovine.

Ricordati il buco della vergogna che marchia l’abbandono delle nostre terre tribali.

Non siamo mai stati perfetti.

Eppure, perfetto è il viaggio che facciamo insieme su questa terra, che un tempo era una stella e compì gli stessi errori di noi umani.

Potremmo farli di nuovo, disse lei.

Fondamentale per trovare la strada è questo: non c’è inizio o fine.

La tua mappa devi disegnartela tu.

 

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Ricordo inoltre che Cartesensibili  ha presentato Joy Harjio anche in altre  occasioni:
https://cartesensibili.wordpress.com/2014/02/01/joy-harjo-poesie-incantatorie-per-una-salvezza-che-ci-riguarda/

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Paolo Gera

4 Comments

  1. Non conoscevo Joy Harjo: che fierezza in questi suoi versi, quanta libertà si respira dalle sue parole! Ti ringrazio per questo resoconto di un evento al quale fai venire il rimpianto di non avere partecipato, perché gli assaggi che ne dai da soli portano la mente e il cuore verso orizzonti ampi e aperti.

  2. Grazie Paolo e Fernanda, anch’io l’ho ribloggata. Vi sono grata per far rivivere in questo blog alcuni momenti di ricerca, un tentativo di riassumere il senso di quello che stiamo facendo come poeti. Siamo in un momento in cui smettere di interrogarci è molto pericoloso ed è importante che vi siano spazi come questo per poterci confrontare.

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