LA VASCA DEI PESCI ROSSI- Anna Maria Farabbi: Perché la poesia non emoziona in classe? Risponde Sergio Pasquandrea

giulia orecchia

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Sono molti i poeti più o meno noti che insegnano. Pochi quelli che fanno circolare la poesia viva, in carne ed ossa, malgrado tutte le difficoltà di organizzazione, gestione ed economia. Del resto, in questi tempi terribili in cui l’arca della scuola frana, si spacca, si estingue, con tutta la classe degli insegnanti dentro, come vivificare il cuore e le tempie dei ragazzi attraverso la poesia, è uno dei mille problemi. Non l’unico, purtroppo. Conosco moltissimi poeti e poete che insegnano dalla scuola elementare all’università.
Vorrei coinvolgerli per una loro testimonianza, cercando di trovare il filo di questa orribile matassa: perché la poesia non emoziona in classe? Perché si ammazza fin dai banchi delle scuole medie (non elementari)? Che cosa si potrebbe fare e che cosa si sta facendo?Ho chiesto a Sergio Pasquandrea per cominciare, scegliendo la sua serietà e la sua qualità e la sua ironia. Mi ha risposto così
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<< Si potrebbe parlare a lungo delle qualità necessarie a fare un buon insegnante. E ne hanno parlato a lungo, in effetti, in tanti e di certo anche migliori di me. Quindi, senza presumere di risolvere la questione, dirò soltanto che una qualità, senza dubbio, ci vuole: un certo grado di sana, positiva gigioneria.
Un buon professore può anche non essere per forza un grande studioso, un pensatore originale, un profondo filosofo. Può anche non dire niente di nuovo, anzi non è affatto obbligato a dire qualcosa di veramente “nuovo”. Però, quel che dice deve arrivare. Se in classe dici qualcosa di folgorante, ma quel qualcosa non raggiunge nessuno, nemmeno uno dei tanti cervelli presenti, beh, allora hai sbagliato. Hai sbagliato mestiere, azzarderei.
E uso di proposito la parola “cervelli”, perché tante volte, quando un professore guarda una classe, vede una pila di compiti da correggere, una scacchiera di caselle da riempire di numeri, un gregge di pecore,  un mucchio di pubescenti gonfi di ormoni, un noioso rumore di fondo da eliminare, una fonte di emicranie, un nemico da abbattere. Tutto, ma non dei cervelli.
Quest’anno avevo tre classi seconde di un Liceo delle Scienze Sociali. I programmi ministeriali mi informano che devo parlare del “testo poetico”. L’antologia (anthos legein, “scegliere fiori”: ma non è che i fiori staranno meglio sui prati, che non sui libri?) mi fornisce una lista di argomenti. Campi semantici, metrica, strofe, figure retoriche (“l’hai fatta la sineddoche?”, mi chiedeva la collega del triennio, con il tono di chi chiede “l’hai fatta l’antitetanica?”), figure di suono, stile, registro; e poi scelte di testi, selezioni tematiche, classici, antichi, moderni, tutti introdotti, chiosati, commentati e biografati.
Bello, bellissimo, ma il mio problema è un altro: come evitare che quei fiori inaridiscano? Come far capire che quelle parole non sono un altro noioso compito da svolgere, non sono l’ennesima procedura da seguire meccanicamente per ottenere alla fine l’ennesimo voto sul registro, ma bensì carne, sangue, nervi, felicità, dolore, sudore, insomma vita, compressa sulla pagina?
Allora ho avuto un’idea: perché non far parlare chi la poesia la fa: i poeti? Perché non mostrare che dietro le parole ci sono persone, esseri umani in carne ed ossa, del tutto uguali a loro, se non per il fatto che, ogni tanto, fanno questa strana cosa: spremono la loro vita fino a tirarne fuori delle parole, e dalle parole versi, e dai versi poesia?
E dunque, fra gennaio e maggio, ho gioiosamente sacrificato un mucchietto di ore di lezione per invitare in classe dei poeti. Sono venuti Anna Maria Farabbi, che ha raccontato le ragioni dello scrivere; Walter Cremonte, che ha presentato il suo ultimo, bellissimo, tremendo libro, “Respingimenti”; Giampiero Mirabassi, che ha trattato di dialetti, di terra, di risate e di nostalgia; Paolo Ottaviani, che ha parlato di versi e di ritmi.
Mentre i poeti parlavano, io stavo in un angolo della classe, senza interferire. I ragazzi (ci credereste?) stavano in silenzio e ascoltavano.
Io li guardavo e pensavo a quanto erano belli. Tutti. Chiara, Anna, Christian, Eleonora, Colomba, Francesca, Leonardo, Myriam, Sofia, Emanuela, persino Jacopo che ride sempre di tutto, e Michela che ha quel po’ po’ di caratterino, e Pamela che quest’anno non ce l’ha proprio fatta a essere promossa, e Ilaria che invece ce l’ha fatta per un soffio, e Giulia con la sua faccina diafana da elfo, e Teresa che è tanto intelligente e tanto chiacchierina, e Martina che non apre un libro neanche sotto minaccia di tortura, e Lucia che tante volte ho beccato a copiare, e Arianna che quando la interrogo diventa tutta rossa e devo dannarmi l’anima per tirarle fuori una parola.
Ascoltavano, qualcuno più attento, qualcuno meno, ma ascoltavano. Ed erano belli, tutti.
Qualcuno aveva gli occhi un po’ lucidi, e alla fine mi è venuto a dire che si è commosso. Qualcuno si è annoiato, ma pazienza. Nessuno di loro, credo, uscirà per andare a comprarsi un libro di poesia, e in fondo va bene così. A qualcuno, però, sarà rimasto dentro un semino, che prima o poi, forse, germoglierà. Time will tell.
Però, dicevo, a un professore serve un po’ di sana gigioneria. Le poesie non bisogna leggerle, bisogna recitarle, cantarle, suonarle, magari anche ballarle se è necessario. Bisogna far capire che le parole, per prendere vita, hanno bisogno d’aiuto, di lavoro, di fatica (lavoro, fatica: non sarebbe ora di ridonare a queste parole il loro senso antico, nobile?).
In una delle ultime lezioni dell’anno, ho letto in classe una poesia, anonima. L’abbiamo commentata, analizzata; ho chiesto a tutti di esprimere onestamente il proprio parere; ad alcuni è piaciuta, ad altri no. Però io mi tenevo in serbo il colpo di scena. Alla fine dell’ora, qualcuno mi ha finalmente chiesto chi fosse l’autore.
Io, che ero già sulla porta, mi sono girato, ho fatto una pausa strategica, li ho guardati e, con un mezzo sorriso: “Beh… Mia, no? Perché, non l’avevate capito?”.
Sono uscito, e li ho lasciati soli con il loro stupore.>>

Sergio Pasquandrea

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giulia orecchia

13 Comments

  1. Concordo appieno con quanto affermato da Sergio Pasquandrea. Effettivamente, il professore deve essere molto “bravo”; bravo a riconoscere che coloro che ha di fronte sono “persone in grado di capire e pensare”, magari dopo qualche sollecitazione e un po’ più di pazienza. Ma in fondo, in quante occasioni (seminari, workshop, ecc.) gli adulti sembrano aver seguito le relazioni e poi ti rendi conto che o non hanno ascoltato affatto o non hanno capito nulla? Ritengo, inoltre, che questa qualità sia necessaria per l’insegnamento di tutte le materie, in particolar modo della letteratura, quando ci si occupa di poesia, ma non solo. Penso alle Scienze, per esempio (sono una biologa marina, pertanto “la lingua batte dove il dente duole”!), all’ecologia, all’emergenza ambientale che è poi emergenza degli ecosistemi, dei quali fanno parte “anche” gli “esseri viventi”. Secondo me (che scrivo anche poesie), il punto è che per coinvolgere, bisogna essere coinvolti; chiarisco: non si è in grado di far amare quello che non si ama. E non occorre essere insegnanti-poeti (come il nostro Sergio) per “fare amare la poesia”; il “bravo insegnante” può prendere atto di non avere questa capacità e “ricorrere all’aiuto” dei poeti, che poi altro non sono che persone che mangiano, bevono, dormono, soffrono come tutte le altre ma hanno la capacità di mettere su carta il loro sentire e di renderlo universale. Un augurio come madre di figli che frequentano la scuola: ben vengano gli insegnanti come Sergio Pasquandrea! Un augurio come autrice di poesie: ben vengano i poeti come Sergio Pasquandrea!
    Ester Cecere

  2. Grazie per questa testimonianza che condivido appieno e che è così importante. Dici bene Sergio: un professore (soprattutto di letteratura, ma non solo) dev’essere un gigione. Io aggiungo, un attore, un guitto, un incantatore, un narratore di storie. Insomma, deve avere il dono della comunicazione e della parola, perché è con quella che entra nella mente e nel cuore dei suoi ragazzi ed è di quella che fa intendere l’enorme valore. I programmi ministeriali non sono il Vangelo e chi li redige nulla sa, ci scommetto, della potenza della parola poetica. Con i miei ragazzi di poesia ne leggiamo parecchia (a voce alta e insegno loro come recitarla) e la impariamo a memoria e ci ragioniamo. Se mi vedono commossa nel leggere e spiegare, si commuovono pure loro. Se entriamo nelle vite dei poeti, si accendono dibattiti sulle loro vicende, sulle loro sofferenze. Una classe ha voluto spontaneamente rappare “I limoni” di Montale, con altri abbiamo allestito una piccola recita di haiku giapponesi. Quest’anno in una classe hanno voluto leggere più canti dell’Inferno di quanto avessi programmati e una o due ragazze si sono commosse fino alle lacrime su Francesca e Paolo. Hanno capito che la poesia è ben altro che roba stampata sui libri e così ci siamo avventurati in un piccolo laboratorio di scrittura poetica, da cui sono venute fuori cose molto interessanti.
    Insomma, io penso che se vuoi far giungere alla mente e al cuore di qualcuno la bellezza, prima la devi vedere tu, sentire tu e poi puoi farlo. E’ vero, se non si sa far questo, è meglio cambiare mestiere.
    I Celti avevano un dio della Parola, Oghmé, che veniva rappresentato con delle catene d’oro che partivano dalla sua lingua e si avvolgevano attorno a chi lo ascoltava.

  3. P.S. Ovviamente anche io sono poeta e scrittrice e anche io ho fatto quello che ha fatto Sergio. I ragazzi sono molto impressionati quando, dopo aver letto e commentato qualcosa che è loro piaciuto e li ha coinvolti, scoprono di avere davanti l’autore che non è ancora morto!

  4. non tutta la poesia vive ed è viva, spesso oggi ci sono testi con cui non incarterebbero nemmeno i baci…anzi:i baci sono meglio, quelli fisici in cui la lingua è corpo del bacio. Poesia è un modo dentro il mondo ed è mondo mai mondato perché dentro c’è buono cattivo e profano, ciò che compone la materia viva, spesso vermicolante,marcescente,incombente,nauseante,non solo lumi di stella come spesso io stessa ricordo perché comunque siamo “masse” stellari. E non c’è androne o andito in cui nascondersi, c’è pioggia che scroscia e diluvi universali ma cè, almeno così penso, anche la consapevolezza tragica, che la parola è blasfemia, davanti al maestoso di cui siamo composti, all’impossibile tratto che sempre ci tiene discosti dal raggiungere qualcosa che non sia fatto, solo fatto e …resta distanza, piena, e mai compiuta, come una luna che ci illumina senza mai darci da vedere l’altra faccia. Io insegno geometria e rpogettazione architettonica e nelle parole vedo queste costruzioni e vedo punti, tracce mappe in cui eccentrico è l’asse che ci attraversa e mancando il baricentro il movimento non è mai identico, come spesso vorremmo noi, come in tutto facciamo calcolo che sia. Forse è questo che la poesia mi mostra, ogni volta, in ogni sillaba costruisca e appronti, configurando sempre ciascuno di noi. f

  5. mah…
    nella scuola secondaria inf., innanzitutto: insegnanti di lettere ignoranti della poesia; si sa che è una laurea che si ottiene imparando più o meno a memoria un esiguo numero di libri, (magari sulla critica dell’idea di “esoterismo” nell’opera di PIncopallo)…
    dopodichè in classe, ignorando l’argomento, si segue in modo pedissequo il testo scolastico, e si delega poi a ragazzi di dodici anni la lettura ad alta voce del testo poetico
    e voi lamentate che la poesia è ignorata?

  6. Desidero ringraziare attraverso CARTE SENSBILI Sergio Pasquandrea per l’opportunità offertami di parlare di poesia ai suoi splendidi allievi. Sì, erano tutti belli e attentissimi! Voglio ringraziarli ancora, uno ad uno. Qualcuno forse ha pianto con me mentre leggevo questi versi scritti di getto, sull’onda del dolore e dello strazio, il giorno prima. Qualcuno da adulto ricorderà. Qualcuno forse ha già imparato che poesia e vita sono stretti da legami indissolubili e inestricabili. Qualcuno dimenticherà tutto. Ma per tutti la poesia continuerà a correre nel vento…

    Per Melissa Bassi, 19 maggio 2012

    Hanno avuto paura
    di un sorriso innocente

    hanno avuto paura
    della tua allegria

    hanno avuto paura
    del tuo onesto candore

    hanno avuto paura
    dei tuoi sedici anni

    hanno avuto paura
    dei tuoi sogni futuri

    hanno avuto paura
    dei tuoi passi leggeri

    hanno avuto paura
    della tua scuola pubblica

    hanno avuto paura
    delle tue compagne

    hanno avuto paura
    dei tuoi insegnanti

    hanno avuto paura
    della tua libertà

    hanno avuto paura.

    Ma tu non perdonarci
    no, non perdonarci mai
    dolce, cara Melissa!

    E ogni giorno ci sbranino
    il cuore per averti
    così poco protetto.
    E ogni giorno un tormento
    e una pena d’inferno
    fin quando non avremo
    estirpato l’orribile
    vile pianta mafiosa.

    E tu non perdonarci
    no, non perdonarci mai
    dolce, cara Melissa!

    Ma, ti prego, sorridi
    ancora, ancora, ti prego, sorridi.

    Paolo Ottaviani

  7. @nilo: non sempre è così, per fortuna.
    @Paolo Ottaviani: grazie per questa profondamente umana testimonianza ed un caro saluto (ho avuto la fortuna di essere presente due anni fa alla cerimonia di premiazione di Verba Agrestia quando Lei ha letto la Sua splendida lirica giustamente vincitrice del concorso: anche in quell’occasione fu possibile constatare la nobiltà della persona e del poeta).

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