UN TAGLIO VIVO- Paolo Gera : riflessioni su “La Crepa Madre” di Carlo Tosetti.

rené magritte- la chambre d’écoute (la stanza d’ascolto)

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Il primo prosimetro che ho incontrato è stato durante gli anni liceali, la “Vita Nuova” di Dante Alighieri, ma nessun insegnante di Italiano mi diede informazione del vocabolo. Così dunque si denominava un testo letterario che teneva uniti insieme, in maniera più o meno consequenziale, una parte narrativa e una parte poetica. Lo scoprii più tardi, quando iniziando a scrivere in versi, qualche anno fa, mi venne naturale questa predisposizione all’alternanza di scritture in uno stesso luogo deputato, l’evocazione di uno scenario e le riflessioni che suscitava, il blocco massiccio delle righe, ghiacciaio, montagna, e il rivolo delle parole che scendevano a valle in un letto già ben tracciato, la specificazione iniziale, il canone, e la fuga successiva, con le necessarie concatenazioni e uno spazio per libere improvvisazioni.

Oggi mi trovo fra le mani un’opera che è a tutti gli effetti un prosimetro, rigorosissimo nel suo procedere a scompartimenti e nella prosa e nella poesia, anche graficamente squadrato, e in cui risulta dunque già a prima vista la necessità cronachistica del procedimento. Il testo in questione è del poeta lombardo lacustre Carlo Tosetto e il titolo è “La Crepa Madre”. Di ascendenza lombarda mi pare per varie ragioni che via via spiegherò l’ascendenza dell’opera organizzata intorno a un tema civile, penso ai poemetti di Vincenzo Monti, ma in cui la fiducia illuministica si sgretola di fronti a fatti naturali inspiegabili, romanticamente oscuri e perturbanti.

Vili, un graffio neppure
lieve vibrarono al covo
e tanto s’attesero scritti
eclatanti, come Voltaire,
per fare tutti spallucce
delle credenze nostrane
e riattizzar nella casa
sopito il gran focolare;
dormiva la Crepa, quel male.
(  II, 8, vv.4-12, p.22)

 A far dire che il carme civile, oggettivo e plurale, si apra a una dimensione maggiormente lirica, c’è la segnatura iniziale che l’autore ha ricevuto nell’infanzia, in modo che la crepa metafisica e reale si è incarnata in una sua ferita fisica, testimone ovviamente di umbratili e sanguinose piaghe, in zone spirituali più nascoste che non siano un ginocchio infantile. Ricordo di essermi tagliato profondamente scavalcando un muretto dei cocci che non sapevo ancora montaliani e stetti poi per settimane a esaminare la ferita, a scrutarne la progressiva trasformazione in cicatrice, a scardinarne la crosta per vedere se sotto ci fosse già la nuova pelle o ancora qualche traccia di sangue o plasma. Anche qui si parte dunque da un ‘offesa personale del mondo al nostro corpo, quando si è ancora separati dal consorzio umano e refrattari a farne parte. Ma  ne “La crepa madre “ al mondo si ritorna.  Intorno, in una tensione che direi testoriana, c’è la vita quotidiana dei semplici di un luogo chiamato Erba, le loro amicizie, le loro tensioni, le loro superstizioni salvifiche e dannatrici, in una specie di riallestimento in suolo lombardo del realismo magico di una Macondo tropicale. “La crepa madre” è dunque opera che parla meritoriamente della collettività.

All’inizio l’evocazione del fenomeno ha bisogno di mostrare la necessaria documentazione di veridicità, di mostrare i documenti storici d’archivio per poi, nella specularità deformata dei versi, pianificarsi in una dimensione in cui affiora una vocazione ossimorica di cantastorie geometrico e stralunato che mi ha ricordato il canto dolente e surreale di Guido Ceronetti, anche nell’evocazione di uomini non illustri e della loro fine spietatamente segnata.

E quando Boldo morì
d’un male taciuto, vidi
l’orrende lesioni aggrappate
ai rami suoi dentro, privi
di foglie, rami che fanno
ai vivi provare respiro,
rividi l’incedere uguale
degli alberi nostri, gl’interni,
allo spaccare di crepe
e forse l’idea si mantiene:
infilzano carni le vene,
l’arterie, i tubi i polmoni.
(VIII, 10, p.73)

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rené magritte

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Altri scrittori mi verrebbe da citare in questo  tentativo di coniugare il doloroso apparire del vero a una vena surreale e fantastica di racconto, financo nella ricerca di personaggi emblematici non appartenenti al mondo degli uomini eppure a loro così contigui da essere impastati della stessa disperazione: penso alle labrene e al verme azzurro di Tommasi Landolfi, all’Iguana di Anna Maria Ortese.

Protagonista assoluta del prosimetro è la Crepa: “nella casa albergava crepa viva”, ma quello che all’inizio sembra un danno muratoriale, se non architettonico, rivela la sua natura assoluta, non tanto metaforica, quanto incisa in profondità nella natura più propriamente biologica di ogni essere e nella sua tendenza cellulare a costituirsi come intreccio.

Crebbe la fama di Crepa:
muta, diabolica, sola,
gloria nel tempo nutrita
d’udite complici voci
di piazza diffuse, di Chiesa,
abili enti, periti
a ricercare demonio
spesso l’ombra laddove
d’esso persino non c’è.
( II, 6, vv.1-9, p.22).

La Crepa è l’Ombra junghianamente intesa, la parte rimossa che rimbalza di uomo in uomo, a coprire non solo la sagoma di un singolo individuo, ma quella di un’intera comunità. Ma quello che più mi convince in questa  raffigurazione è la rinuncia a una prospettiva di tipo astratto e allegorico, in cambio piuttosto di una materializzazione della crepa, che la rende viva, senziente e sfuggente, ribelle, più che un totem, un vero animale che braccato fugge e che ammansito indica una via possibile di convivenza tra gli impulsi oscuri e la razionalità politica. La crepa è un fulmine, una radice, le corna di un cervo, ma anche un drago, una serpe, un cane anarchico che rifiuta di farsi addomesticare dai nouveaux riches milanesi che vorrebbero ristrutturare la casa in cui il danno risiede. Anche la forma non è un pretesto, un partito preso di originalità, ma assolutamente consustanziale al contenuto a cui aderisce: c’è uno stridore forte e agonico tra la progressione inesorabile, aritmetico delle 12 strofe di  12 versi ciascuno, 144 è dunque il numero totale per ogni canto, e il materiale che deborda, che non si ordina nella chiusura precisa, ma cerca appunto di seguire il percorso accidentato e capriccioso della crepa, dunque  dell’incalcolabile dolore umano, della progressione imprevedibile del male, delle pulsioni di morte e della morte che pulsa, ad ogni ora.

I due vocaboli crepa e madre aprono il campo semantico a interpretazioni in apparenza opposte, ma invece necessarie nella dialettica filosofica dell’opera. Certo, la crepa madre può evocare un danno irreparabile, una frattura iniziale e principale da cui si diramano tutte le fessure del male, da quelle di superficie a quelle che vanno a intaccare  i muri portanti della nostra speranza, della nostra fiducia. Ma crepa madre è anche il taglio primigenio del sesso femminile e archetipicamente dunque l’origine della fertilità e della vita.  Lo svelamento di questa natura ossimorica si ha nelle pagine finali del poemetto: “la grande cerniera ancestrale” (7,p.64) non nasce per dividere, ma per congiungere e saldare. 

Non è la Crepa creata
per dilaniare pianeti,
a spicchi disfare i mondi,
tagliarli come la mela;
essa invece sutura,
sigilla le croste ed incolla
del globo neonato membrane,
rinchiude gli oceani di lava,
per fare la vita: foreste,
d’acque le arterie percorse
e d’ogni foggia le bestie.
Il fuoco imbriglia tuttora.
(VII, 6, p.64)

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rené magritte

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La Crepa indica nuove possibilità di ricostruzione, diventa fondatrice , attraverso l’agrimensura del suo tracciato irregolare, di un nuovo villaggio, dove utopicamente, se si fosse stati ammaestrati dai gravi accadimenti, gli abitanti dovrebbero  tenere insieme le due istanze di vita e di morte, di gioia e di dolore, nel nome dell’imprevisto sempre incombente e dell’accertata fragilità umana. Ma gli uomini dimenticano in fretta. Il merito dell’opera di Carlo Tosetto, come già ricordato, è quello di ampliare il panorama sino a portare testimonianza di un microcosmo politico, di un piccolo mondo vivo, reale intessuto dal materiale atemporale e  segnico della classificazione. Come se le campane di Erba si rammentassero nel loro risuonare di tam-tam primitivi o dei suoni ritmati della natura.

“Capivo che la verità andava bel oltre i miei sospetti e che la Crepa è la manifestazione di una forza,  una volontà necessaria, il motore di ogni taglio, segno, struttura. Dai primordi dell’uomo, dalle incisioni rupestri alla scrittura cuneiforme, alla moderna stampa. Il segno, il taglio, sono anche limite, confine, forma. Nulla è distinto, nulla è, senza un confine.
Tutto è in comunione, animato dalla medesima essenza: un segno che irrompe, genera lo spazio e lo modifica”

(IX, Epilogo, pp.77-78)

E qui ci verrebbe da citare un artista milanese, Lucio Fontana, e la sua poetica dei tagli e dei buchi sulla tela, i cosidetti “concetti spaziali”, non come gesti di negazione e di nichilismo, ma di apertura, di comunicazione fra i mondi.

“(…)idealmente, come documentazione, come formula, era quello di dire «io buco, passa l’infinito di lì, passa la luce, non c’è bisogno di dipingere». Vorrei che tu la capissi, perché, invece,, tutti han creduto che io volessi distruggere: ma non è vero, , io ho costruito, non distrutto, è lì la cosa.” ( L. Fontana, Intervista di Carla Lonzi, in “Manifesti scritti interviste”, Milano 2015, p.121).

 La parte che più mi commuove maggiormente è però la ‘quête’ di colui che fu bambino, il Parsifal ingenuo e santo, la ricerca della Crepa che pare essersi persa. E riscoprire che anche il male, necessario, ha gli uggiolii e le feste di un cucciolo di cane e che in questa storia infinita la crepa ci ritrova, quando ormai ci siamo convinti della sua scomparsa irreparabile.

Palco fu il tempio:
lei mi trovò, la Crepa,
dentro l’ombra svogliata
d’una lettura, immerso
e sciolta, ai tempi sputata
che sopra aveva dimora,
sempre fra i piedi la vidi
– spento era un filo di luce –
agile torcersi rapida,
calata nel duro, felice,
nasare le scarpe d’un uomo,
ricordo d’amico leale.
( IX, 2,p.79)

 

Paolo Gera

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Carlo Tosetti, La Crepa Madre–  Pietre Vive, 2020.

3 Comments

  1. Come sempre calzante e ricca di stimoli la nota di lettura di Paolo Gera a questo lavoro così originale di Carlo Tosetti che ho avuto il privilegio di leggere in anteprima: c’è coraggio nella scelta della forma poematica così bene orchestrata anche a livello narrativo, con un intreccio misterioso e a tratti ambiguo, in uno stile che incarna un realismo magico tutto però inscritto nel seno della linea lombarda.
    Grazie a entrambi

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