CAMPO 87- Note di lettura relative alla raccolta di Claudio Pagelli

cimitero maggiore di milano- campo 87

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Nemmeno da qui
si vede bene il futuro
solo il passato, meno oscuro.
Tolti i chiodi dei rimorsi

ritorna d’aria il cuore, senza paura
nel vento dei cipressi…

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Nanca da chì
se ved ben el doman
domà el passaa, men scur.
Des’ciodaa i ciòd dei rimòrs
torna d’aria el coeur, senza paura
in del vent dei cipress…

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In questo tempo fatto di mille cose da indagare sempre e ancora chiusi in casa, ho trovato che le poesie di Claudio Pagelli in Campo 87 hanno una potenza evocativa fortissima. Personale, perché ho partecipato ad una visita guidata del Cimitero Monumentale di Milano un paio di anni fa. Sento ancora la ghiaia sotto le scarpe, vedo ancora le tante statue delle donne e degli angeli che piangono i morti. Credo che l’idea di persone morte senza famiglia sia triste ovunque. Le poesie di Pagelli sono voci che raccontano le litanie degli ultimi pensieri, la malattia insidiosa, la fine inaspettata, le stesse litanie intonate durante  le pestilenze di tutti i tempi, solo che adesso sono intonate per noi, che ascoltiamo mentre passiamo tra le croci bianche del campo 87.
La traduzione di fronte in dialetto milanese rende ancora più intimo l’ascolto che diamo alle voci. L’Italia è un paese di dialetti e gli immigrati imparano i dialetti prima ancora della lingua ufficiale. Il mio parlare indica che ho vissuto in parti diversi del Bel Paese e ho imparato ad esprimermi secondo le usanze delle diverse regioni. Per me, l’inclusione del testo dialettale significa aver incluso le persone, chiunque siano state, ed abbracciarle tutte. E’ un gesto d’amore.
Katron Sutherland

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Ho letto le poesie di Claudio Pagelli e la bella introduzione. Le ho trovate bellissime, sconvolgenti nella loro perfetta brevità. Darei loro un posto d’onore: italiano e lingua madre, un dialogare che intreccia le voci facendole suoni in chi ascolta.
Tutto si prende questo grande silenzio
la rosa di luce, la sera d’assenzio…
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Tuscòss el se ciappa sto grand silenzi
la roeusa de lus, la sira d’absenzi…
Vittoria Ravagli

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edgar lee master-  tratto da  antologia di spoon river

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La lingua di un popolo, come la mappa di un luogo, è una topografia che rileva la traccia degli influssi, delle presenze e delle mancanze, delle usurpazioni dei  riti, dei costumi e delle usanze, di molte altre genti, ma è anche impronta di congiungimenti e condivisioni di voci e vocabolari, che indicano le comunioni e le affinità tra le persone, terra anch’esse,  dove l’amore  e la morte s’intrecciano come ogni elemento, alla pari, nell’intero nostro pianeta che, invece, parla lingue che non necessitano di traduzioni tra un qui e un là e sono il filo ininterrotto di una continua tessitura di relazioni tra tutti i componenti, minerali, animali, vegetali e celesti, tutti, anche quelli che noi definiamo inutili, di scarso valore o addirittura dannosi. Niente è scollegato nel pianeta, niente è un elemento casuale nel cosmo e tutto è ospite e migrante contemporaneamente e continuamente.
Nel libro di Pagelli, che usa l’italiano e il milanese, ciò che si ricorda e si evidenzia in ogni pagina è questo sottolineare la traccia, di un idioma diffuso, che racconta la vita e la morte, con toni e timbri che le lingue hanno preso da quegli ambiti, assumendone il colore in suoni, che si fanno es/pressioni in chi le raccoglie  leggendole in sé. Nel dialetto milanese vive ancora la lingua dei celti, dei romani, dei longobardi, degli spagnoli, dei francesi e degli austriaci, tanto quanto oggi stanno infiltrandosi platealmente, facendo tana nel discorso, i vocaboli anglosassoni. Come a dire che anche la lingua, che credevamo unica, è sempre stata nella storia destinata invece a sparire, proprio come chi la pronuncia.

La leggo anche così allora questa traccia del libro

Nessuno, lo so, ne reclamerà
la scomparsa, nessuna ricorrenza,
nessun grido di piazza.
Dei nostri corpi sepolti, dei nomi
degli ultimi, nessuno dirà.
(già fa luce il sole della festa,
la dorata sbronza della dimenticanza)

Eppure è la lingua che ci tiene uniti, nella manifestazione delle nostre paure, dei desideri, essa stessa grandiosa utopia nel momento stesso in cui germoglia visioni e sensazioni, utilizzando grafemi sonori, o legnetti e croci tipografici, rimarcando luoghi che hanno come sostanza l’evanescenza, l’assenza, la sottolineatura della perdita ma anche di una ricongiunzione a qualcosa che non cessa.

Non è l’estinzione
in sé, un male
capita, è naturale.
È la solitudine il chiodo
al cuore, sentirsi un errore
l’invisibile crocifissione…

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il mio corpo si sfarina
(astro di cenere, aria, memoria)
insieme ai corpi degli altri
in questa fossa del Maggiore…

E non manca nessuno, c’è la cartomante di Brera e l’infermiera, l’operaio delle fabbriche in periferia, il passante che guarda, il povero cristo che dorme nei cartoni, la badante rumena, ma anche la rosa e l’assenzio, l’ombra, la pioggia, il vento, la stella…insomma tutto l’universo, come stazioni in cui tutto passa, compresa la polvere, quella che ci inquina e quella in cui il nostro corpo e ogni cosa si sfarina.
Ricordo quand’ero bambina  e andavo girando per i vialetti del Cimitero Maggiore della mia città dove le casette lungo i viali, di fogge diverse, che ostinatamente mostravano segni di ricchezza e di appartenenza, mi sembravano uno speciale quartiere in quel terreno di silenzio, dove gli angeli erano pietrificati e zitti, davanti a tutti i passanti. Poi venivano le croci, molte senza addirittura un nome, disposte dal comune per i poveri, o quelle di ferro, così arrugginite e quasi mangiate da far pensare ad epoche molto lontane nel tempo. La comunità ebraica aveva un cimitero diverso e in altra collocazione nella città, ma anche in quello le differenze erano identiche tra le tombe, come in quelle del Cimitero Maggiore. Dietro, quelle scenografie imbastite dalle pietre, mi sono chiesta a lungo cosa ci fosse di diverso. Le persone erano scomparse, le loro voci inaudibili, nessun titolo o potere le distingueva tra loro, solo la pompa della scena che, alla fine, era solo un nascondimento, e tutto era solo un lotto di terra, in cui meraviglia, stupore, ansia, paura, parole e pensieri si erano fatti un nodo d’aria.

Potrei, liberamente manipolando uno dei testi del libro, concludere che la poesia, come un fiato che respira la vita generandone i diversi colori, ha creato in questo canzoniere una lettura del patrimonio umano che mi ha coinvolto profondamente e mi ha fatto percorrere territori della memoria e dei miei studi, gli incontri, i viaggi e ancora quel luogo, che mi abita sin dal mio primo respiro, di cui spesso anch’io scrivo e mai ancora ho svolto e risolto compiutamente.

L’ultima Itaca di una   o
isola in cui sorpreso
qualcuno nell’oceano   disse a
ma
arrivò un lampo
la tosse  squarcio l’intera zolla
del corpo solo una   e
rimase di congiunzione tra cielo e
un’altra terra

Fernanda Ferraresso

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josé clemente orozco

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Testi tratti da CAMPO 87 di Claudio Pagelli.
Traduzione in dialetto milanese di Giovanna Sommariva

Nemmeno una fotografia
nemmeno una, dico io, in bianco e nero
soltanto il bianco della croce
che incendia gli occhi nel sole…

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Nanca ona fotografia
nanca vuna, disi mì, in bianch e negher
domà el bianch de la cros
che la da foeugh ai oeucc in del sô…

*

È trascorsa la mia vita
come un’ombra, un riflesso
allo specchio, una parentesi di vetro
tra terra e cielo. Nulla più, nulla meno…

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L’è passada via la mè vita
’mè on’ombria, on rifless
in del specc, ona parentesis de veder
intra la terra e el ciel. Nient de pù, nient de men…

*

Si chiamava Mihaela
la badante rumena. Faceva la spesa,
le faccende di casa. L’ultima volta che l’ho vista
mi ha regalato un bacio nell’aria
(vedi come vola, rondine infinita,
nella memoria…)

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La se ciamava Mihaela
la curant romena. L’andava a provved
faseva i mestee de cà. L’ultima vòlta
che l’hoo vista m’ha regalaa on basin in l’ari
(te vedet ’m’el sgora, rondin infinida,
in la memòria…)

*

Nemmeno da qui
si vede bene il futuro
solo il passato, meno oscuro.
Tolti i chiodi dei rimorsi
ritorna d’aria il cuore, senza paura
nel vento dei cipressi…

.

Nanca da chì
se ved ben el doman
domà el passaa, men scur.
Des’ciodaa i ciòd dei rimòrs
torna d’aria el coeur, senza paura
in del vent dei cipress…

*

Non avevo nulla
neppure quattro mura
per le mie ossa sbilenche. Case di cartone
l’arco di un portone, alla meglio.
Adesso, almeno, non temo la tempesta
con un ombrello di terra sopra la testa…

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Mì gh’avevi nagòtt
nanca quatter mur
per i mè òss sciabalent. Cà de carton
l’arcada d’on porton, a la bella mej.
Adess, almanca, me stremiss nò la tempesta
cont on’ombrella de terra sora el coo…

*

Nelle pieghe dei polmoni
s’è nascosto il veleno.
Respirato non so dove
in quale tranello d’aria, sotto il sole
o all’ombra ferrosa della stazione…

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In di cresp dei polmoni
el s’è sconduu el velen.
Respiraa soo minga indovè
in che trabucchell d’aria, sòtta el sô
o all’ombria ferrosa de la stazion…

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Sotto la visiera
erano gli occhi dell’infermiera
cieli senza nuvole
come quelli di una madre
che ti avvolge nelle favole
prima di sognare

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Sòtta la visiera
gh’eren i oeucc de l’infermera
ciel senza nivol
’mè quei de ona mader
che la te fa-sù in di favol
prima de sognà…

*

Una ragnatela di bava
l’ultima nebbia d’inverno
dal balcone di casa.
Così diversa, ora, e viva
che pare d’esserne parte, nodo d’aria,
iride della sua trama…

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Ona ragnela de bava
l’ultima scighera d’inverna
dal poggioeù de cà.
Inscì diversa, ora, e viva
che te par de vessen part, gropp d’aria,
lucid de la soa trama...

*

Finita una fatica
come coda di lucertola
un’altra ne spuntava –
così la mia vita operaia
nelle fabbriche di periferia
(ora è di pianura l’aria che si respira
di terra umida, di sosta infinita)

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Finida ona fadiga
’mè cova de luserta
on’altra ne casciava –
inscì la mè vita operaria
in di lavoreri de periferia
(adess l’è de pianura l’aria che se fiada
de terra umida, de sòsta infinida)

*

È stata questa vita
Odissea dell’attesa –
come previsto, inatteso
nel lampo di una tosse,
l’approdo alla mia Itaca privata,
zolla assolata, infinita…

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L’è stada sta vita
l’Odissea del speccià –
’mè preveduu, impreveduu
in del stralusc de ona toss,
andà a riva de la mè Itaca privada,
tòcch de terra espòst al sô, infinii…

*

Solo qualche sconosciuto
che mi butta terra in faccia,
l’ultima carezza del mondo
che si sfalda sul mio corpo…

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Domà on quei cognussuu de nissun
ch’el me trà terra sora la faccia,
l’ultima carezza del mond
che la se sfreguja in sul mè còrp…

*

Non è l’estinzione
in sé, un male
capita, è naturale.
È la solitudine il chiodo
al cuore, sentirsi un errore
l’invisibile crocifissione…

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L’è minga l’andà de là
in sé, on maa
el succed, l’è natural.
L’è la solituden el ciòd
al coeur, sentiss on error
l’invisibil crocefission…

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caspar david friedrich

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Riporto di seguito, a corredo della presentazione del libro di Pagelli, questa incisiva prefazione di Manuel Cohen.

Si chiama Campo 87 l’area del Cimitero Maggiore di Milano che la giunta meneghina ha dedicato alle 128 vittime per Covid 19. È il luogo in cui vengono ordinatamente accolte le salme non reclamate da alcun parente. Si tratta di persone anziane, migranti o comunque sia, di persone senza famiglia, o i cui familiari sono stati, a loro volta, colpiti dalla pandemia. A questo luogo elettivo è dedicato, partendo dalla stringente attualità e approdando ad uno stadio di eccellenza d’arte, di letteratura e di Ethos, il nuovo libro di poesia di Claudio Pagelli, mirabilmente e, viene da dire, senza riserve, sapientemente tradotto in milanese dall’autrice dialettale Giovanna Sommariva. Si tratta di un libro che tocca le corde di chi legge, che impone una riflessione, personale e sociale, sui destini dei singoli, sul destino stesso della poesia, così intimamente e irredimibilmente legato alle sorti umane, di quella condizione contemporanea che il grande Mario Luzi ebbe a indicare come “sopravvivente umanità dell’uomo”.

La poesia, ragione estrema, sociale e interiore, si conferma per quello che è: lo strumento più congruo a registrare, sedimentare, testimoniare l’umano. Sembra ovvio, sembra poco, eppure è tutto, o quasi, quel che è concesso alla memoria emotiva, al nostro umanesimo sensibile: il gesto naturale di cogliere “l’ultima carezza del mondo” come recita il verso centrale della prima quartina del libro.
Sono 36 i microtesti di Campo 87, che partono dal distico ancillare in rima baciata silenzio/assenzio, passan-
do per le quartine e i quinari, fino alle sestine, con predominanza di testi di 6 versi (più raramente quelli di 7), oscillanti tutti tra le 8 e le 9 sillabe, quasi mai eccedenti l’endecasillabo. Si tratta di piccole strutture strofiche, brani, lacerti, schegge lirico-narrative che tanto assomigliano a piccoli sedimenti tra polvere e zolla, nuclei germinali di narrazioni o plot, e a epitaffi tombali, in cui a dire, a raccontarsi, è la voce stessa delle vittime: chi legge non potrà che essere colpito da quelle voci che riaffiorano dalla terra e si stagliano nell’aria o nella nebbia, come, ad esempio, nella poesia in cui Gina, la sarta, si racconta.

Quelle vite marginali e non illustri, trovano fissità di voce, centralità di ascolto, possibilità di memoria; quelle esistenze ridotte al silenzio qui si riscattano nella accensione metaforica in cui dominano aria, zolla, polvere e vento, ovvero gli elementi dell’ubi consistam, del consistere impermanente, della fugacità o della intangibilità delle cose e delle persone: ‘scheggia d’ombra’, ‘nodo d’aria’, ‘bava d’aria’, ‘finestra della memoria’,
‘schiaffo di luce’, ‘croce di luna’, ‘schiocco di vento’, ‘faccia del buio accanto’, ‘fiammifero della
dimenticanza’.
La dimensione del reale qui coabita con la dimensione postuma: il pensiero che va oltre, che naviga random tra un presente, un prima e un dopo immateriale e indicibile, spesso registrato in clausole fulminanti, come la seguente: “Nemmeno da qui / si vede bene il futuro/ solo il passato, meno oscuro”.

Davvero la poesia, quando è tale, non ha bisogno d’altro che della sua verità di chiarità, della sua buona dose di understatement, del suo tono naturale, confidente, amicale: “Tu che passi e guardi / queste croci bian-
che, / questi cuori sepolti, sappi che ai morti / basta poco a essere felici – / un pensiero sottovoce, il più umile / dei fiori fra le sillabe dei nomi…”
Occorre una notevole capacità di sguardo e di ascolto per avere la forza di scrivere questi versi, tanto chiari,
luminosi e parimenti raffinati, in cui Claudio Pagelli si rivela per quello che è: una voce notevole, perspicace e duttile, in grado di generare pensiero e immagini, significato e interrogativi. La particolare sensibilità che lo avvicina alla testimonianza degli ultimi, quelli che un tempo si indicavano come gli ‘umili’ dello strato socia-
le, nasce dal testimoniare questa testimonianza, come in questo mirabile incipit endecasillabico: ‘Un ricordo è fatto, lo sai, di carta’. La fede nella parola scritta, avremmo detto in altri tempi, la fede testimoniale del poeta-scriba Franco Fortini che sa liberarsi dal giogo della soggettività e assume su di sé il senso destinale
dell’umanità: “Nulla è sicuro, ma scrivi”, un monito, quasi, e un invito, quello del nostro grande poeta del
Novecento, di cui Pagelli sembra ereditare il testimone epocale, quasi una Stimmung, per poter “ritrovare uno
sguardo nitido / nella bufera dello smarrimento”.
La scelta di tradurre in milanese il libro, si configura allora, come una assunzione di responsabilità ulteriore
e come una acquisizione di consapevolezza: unire alla voce degli ultimi, dei dimenticati dalla storia, dei travolti dal destino, la lingua in via di sparizione, o comunque, la lingua degli ultimi, la parlata locale. E l’opera acquista valore aggiunto, si impreziosisce oltremodo attraverso l’esperimento di una diglossia o di un testo a fronte che marca ulteriori confini, echi di voci o di phonè, arricchendo di sonorità e di musicalità, grazie al lavoro ottimo della traduttrice, la poetessa Sommariva: è quel che accade, ad esempio, nella traduzione della poesia con cui chiudiamo questa nota e con cui invitiamo il lettore ad avvicinarsi a Campo 87, dove la grazia particolare del milanese aggiunge canto e musicalità, tra assonanza e rima, al canto dimesso di Pagelli: “Finita una fatica / come coda di lucertola / un’altra ne spuntava – / così la mia vita operaia / nelle fabbriche di periferia / (ora è di pianura l’aria che si respira / di terra umida, di sosta infinita)” – “Finida ona fadiga / ’mè cova de luserta / on’altra ne casciava – / inscì la mè vita operaria / in di lavoreri de periferia / (adess l’è de pianura l’aria che se fiada / de terra umida, de sòsta infinida)”.

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NOTE RELATIVE ALL’AUTORE

Claudio Pagelli è nato a Como nel 1975 e vive a Rovello Porro in provincia di Como. Di poesia ha pubblicato: L’incerta specie (LietoColle, 2005), Le visioni del trifoglio (Manni, 2007), Ho mangiato il fiore dei pazzi (Dialogo, 2008), Buchi Bianchi (e-book, Clepsydra, 2010), Papez (L’Arcolaio, 2011), La vocazione della bale- na (L’Arcolaio, 2015), La bussola degli scarabei (Ladolfi, 2017), L’impronta degli asterischi (Ibiskos Ulivieri, 2019, Premio San Domenichino, Premio Lago Gerundo). Sue poesie sono state tradotte in inglese e in spagnolo.
Dal 2004 è presidente dell’Associazione Artistico Culturale Helianto.

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Claudio Pagelli, Campo 87– puntoacapo Editrice 2021

Traduzione in dialetto milanese di Giovanna Sommariva
Prefazione di Manuel Cohen

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