Roberto Deidier, Solstizio- di Marco Vitale

vladimir pajevic

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Organismo composito e compatto, articolato e necessario è questo Solstizio, dal titolo evocante la pienezza luminosa della vita, e insieme della voce che in un inquieto equilibrio la riflette e articola, la sonda e rivela. È un Solstizio d’estate, che fa seguito all’equinoziale Primo orizzonte (2002) ponendosi come traguardo della raggiunta maturità del poeta, frutto di un silenzio lungo dodici anni spezzato solo occasionalmente da brevi discrete pubblicazioni e letture (e tuttavia va ricordato l’importante Gabbie per nuvole, quaderno di imitazioni della poesia anglosassone e francese che è del 2011). Ma Solstizio è anche un libro di riflessione sulla poesia, come si dirà, la cui officina viene offerta al lettore allo stato di paradigma. E dunque va sottolineata in primo luogo l’importanza della disposizione delle parti, volta alla messa in opera di un fabbricato che ha probabile cuspide nella sezione dal titolo La fossa dei leoni, luogo di coagulo fantastico di exempla veterotestamentari, di voci che hanno in potere di stabilire con un gesto, un’intuizione, il senso ultimo in un intero destino. Il pensiero corre all’articolazione della voci nella poesia di Zbigniew Herbert, di cui Deidier è buon lettore, ma qui la prospezione è differente. Non lascia dubbi a questo proposito la parola a sigillo, seppure per negazione, della poesia inaugurale del libro: carica di una luce sul cammino del viandante, seppure nei cento dubbi dell’attraversamento, la “redenzione” si pone infatti come termine ineludibile di riferimento. Non giova infatti volgersi indietro, e la tragedia della moglie di Lot è monito che torna in più punti, mentre rimanda a un’idea di eradicazione che meriterebbe un approfondimento non compatibile con la dimensione di queste note. Perché la distruzione, il castigo, la colpa è quanto ingenera il distacco, l’esilio, insieme all’intermittente luce della speranza, e in ultima analisi lo stesso destino dell’artista cui Deidier dedica una sezione-allegoria, riscrivendo in limpidi versi, e con sorprendente fedeltà traduttiva, uno degli ultimi racconti di Kafka: il racconto dell’artista del trapezio, Primo dolore, le cui bozze di stampa il grande praghese corresse, dice Max Brod, il giorno prima di morire.
Se questo pare il quadro, o perlomeno quanto al quadro è sotteso, i punti di riferimento sono tali da non escludere, anzi, semmai, da avvalorare il libero gioco del teatro del mondo, nel suo corredo incalcolabile di tonalità e modulazioni laddove la bellezza della luce e del canto rimandano alla loro effimera essenza. Né con questo confligge il tono chiaroscurale che interessa parti significative delle sezioni più liriche del libro, come ad esempio Derive di un tempo ordinario, o anche Dieci poesie vissute a Palermo, sezione quest’ultima di bellissimi sonetti pervasi, tra rime e cesure, da echi felicemente penniani (“Un silenzio si sente e non è mio. / Mie non sono le strade della Kalsa, / Gli improvvisi vuoti urbani, le palme / Robuste e i ficus verso la marina. / Viene dal corso un traffico che incalza, / Un peschereccio smuove le onde calme, / La gente senza fretta s’incammina.”) Ed è un cantabile moderato che fa sponda all’ironia partecipe, illuminista del viaggiatore, secondo il mai risolto equilibrio tra utopia e disincanto che è forse il segreto stesso della poesia. “Tornare” è la parola in explicit di un libro che si era aperto nel segno di una distesa di rovine, e di un terribile monito.

Marco Vitale

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Roberto Deidier, Solstizio – Mondadori 2014

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