LETTURE ESTIVE: JOYCE CAROL OATES- BESTIE (Beasts, 2002)- Estratti settima parte

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17- Colpevole
Dicembre 1975

Nel salone al pianterreno del dormitorio parlavamo a bassa voce di Marisa.
Marisa che non c’era più. Marisa che era stata “ricoverata”.
Sussurrando come se ci fosse un nemico a origliare, Dominique disse
torva: «Che quei bastardi si provino a dimostrare che è stata lei a appiccare
il fuoco! E che dimostrino anche il resto, se ci riescono. I falsi allarmi, per
esempio».
«Come fanno a dimostrarlo adesso» disse Penelope, «se non ci sono riusciti
quand’è successo? Nessuno pensava a lei, all’epoca. E non ci sono né
impronte né altri indizi.»
Cassie parlò con amarezza: «Hanno detto che Marisa ha confessato, ma
se è vero l’ha fatto soltanto per autolesionismo. È una dinamica che conosco!».
Dominique si infiammò: «Be’, potrebbe sempre cambiare idea e ritrattare».
Le voci delle mie amiche risuonavano come musica di sottofondo perché
in quei giorni vivevo in un continuo stato di nervosa sospensione e mi sentivo
come una bambina tutta soddisfatta d’essere inaspettatamente riuscita
in una grossa impresa. Però nessuna delle ragazze sapeva cos’avevo combinato.
Non respira.
Sì che respira!
Mi sentii dire: «Comunque è difficile che cancellino una cosa del genere
dal tuo curriculum, una volta che hai confessato. È come una dichiarazione
di colpevolezza fatta in tribunale. Credo che il suo avvocato potrebbe invocare
la momentanea infermità mentale, però…».
Dominique si voltò, furibonda: «Tu pensi che Marisa sia veramente colpevole?
».
La sua reazione mi sbalordì: mi asciugai gli occhi e balbettando dissi:
«Ne sembrano convinti tutti».
«Sì, è chiaro! Ma tu?»
Scossi la testa. No.
(Oppure era stata davvero Marisa? Se non aveva provocato lei tutti gli
incendi, magari era responsabile di un paio? E i falsi allarmi? Come facevamo
a saperlo?)
Le mie amiche mi stavano trapassando con gli occhi. Non si fidavano di
me. Sapevo che cosa pensavano: erano gelose, sorprese, risentite. Però dovevano
anche ammirarmi, non è vero? Se fossero state al corrente mi avrebbero
ammirata. (Ma sapevano?) Non avevo raccontato a nessuna d’essere
diventata l’interna di Dorcas e che sarei andata in vacanza a Parigi con
loro, tra pochi giorni. Non sei mai stata a Parigi, chérie? Che peccato.
Gli occhi scuri di Dominique mi scrutavano, mi soppesavano…
«E ridicolo» disse Cassie. «A questo punto è impossibile che riesca a
dimostrare la sua innocenza. Anche se fosse stata a New York con il fidanzato,
per esempio, all’epoca in cui sono scoppiati alcuni incendi, potrebbero
cambiare le carte in tavola e accusarla di essere tornata al campus senza
essere vista. Se vogliono affibbiare tutte le colpe a lei possono farlo.»
«Comunque bisogna dire che da quando è partita non ci sono stati più
incendi» commentò Penelope in tono preoccupato, «né falsi allarmi.»
Ridemmo tutte quante, un po’ a disagio. Scherzammo sul fatto che avremmo
potuto appiccare un fuocherello, o perlomeno far scattare un allarme.
«Per dare una mano a Marisa, cosa ne dite?»
Penelope, che era la più caparbia, continuò a insistere: «Quello che dicono
tutti è che risulta difficile credere all’esistenza di due colpevoli in un
posto così piccolo».
Dominique disse con impazienza: «Quando qualcuno appicca un incendio
c’è sempre qualcun altro che lo emula. Leggete i giornali e vedrete».
«E se fosse stato un adulto?» disse Cassie. «Un professore? Nessuno
prende mai in considerazione questa ipotesi. Perché deve sembrare così
impossibile?»
Provammo a pensarci ma suonava poco convincente.
«Tutti vogliono che la colpevole sia Marisa» disse. «È arrivata al momento
giusto.»
«Il che però non fa di lei la vera colpevole, giusto?»
Sulla soglia si era profilata Joan, una ragazza tarchiata dell’ultimo anno,
amica di Drew Weldon. Aveva già provato a unirsi a noi per offrire il suo
punto di vista, ma noi l’avevamo respinta. Adesso invece le sorrisi, come
se mi fossi appena accorta della sua presenza, e lei lo prese come un invito
a entrare.
Con gli occhioni pieni di simpatia Joan esclamò: «Povera Marisa! Se è
stata lei vuol dire che… ha bisogno al più presto di aiuto.»
«Non è stata lei» ribatté bruscamente Dominique. «Sono tutte stronzate.
»
Joan ci guardò confusa. «Non è stata Marisa a… ad appiccare il fuoco nel
seminterrato?»
«Quel fuoco sì» disse Dominique. «Ma chi sta parlando di quel fuocherello
del cazzo? Stiamo parlando degli incendi veri.»
«Non ha confessato?»
Ignorando Joan, Penelope ripeté: «Come fa a provare di essere innocente,
adesso? Ha confessato, ormai. E anche se è una confessione falsa l’hanno
riportata su tutti i giornali e nel suo curriculum. Anche con un avvocato…
».
Joan l’interruppe: «Ci sarà un processo?».
Rigida Cassie rispose: «Non credo. Marisa… come dicono: “non è in
grado di affrontare il giudizio”. Sta parecchio male».
«Immagino. Che storia triste. Era tanto bella, una volta, con tanta energia.
Drew ha detto che giù nella lavanderia sembrava come… fuori di testa.
Completamente fuori di testa.»
«Si stava lasciando morire di fame. È anoressica.»
«Io ci provavo a farle mangiare qualcosa» disse Cassie. «Quando mangiava
era come se le si gonfiasse lo stomaco, credo; non aspettava altro che
di scappare per andare in bagno…»
Pensammo a Marisa. L’ultima volta che l’avevo vista era stato durante il
seminario di poesia, così esilarata e felice della nostra attenzione; le si vedeva
una vena azzurrognola sulla fronte e anche dall’altra parte del banco
sembrava di sentire il calore che emanava dalla sua pelle. Da giorni non
lavava né pettinava i capelli e aveva gli occhi lucidi come biglie azzurre…
Andre Harrow l’aveva scrutata attentamente.
Però quella volta Dorcas le aveva preferito Gillian.
«Qualcuna di voi è in contatto con lei o con la sua famiglia?» chiese Joan.
Cassie e Penelope mormorarono di sì, più o meno. Non era proprio la
verità e Dominique sporse il carnoso labbro inferiore senza dire niente. Fu
allora che mi guardò, e vedendo che la osservavo mi strizzò l’occhio.
Non una strizzata d’occhi amichevole, però.
Ci saremmo rese conto solo più tardi che di Sybil invece non parlava più
nessuno.

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18- L’inganno
Dicembre 1975

«Jill-y! Non è che vuoi aspettare per fare due passi con la tua Dommie?»
La parole di Dominique mi arrivarono come calda melassa scura alle
spalle mentre mi affrettavo lungo il sentiero gelato che conduceva alla
cappella.
Era una presa in giro crudele, astuta, quell’accento da finta negra. E…
Dommie, poi! Come se la mia altezzosa amica avesse davvero potuto permettere
che il suo elegante nome venisse trasformato in un diminutivo così
infantile.
Aspettai. Tra noi due era lei la più forte e seduttiva, e anche la più rancorosa.
Bellissima Dominique. Adesso portava i lucidi capelli neri in un’acconciatura
tutta a treccine che sembrava piena di baldanza e al tempo stesso
minacciosa.
Proseguimmo insieme nell’aria fredda e chiara. Mi sentivo intimidita da
lei, ma anche speranzosa. Di tutte le ragazze di Heath Cottage era Dominique
che ammiravo di più. Però adesso che aveva svelato le sue “origini di
colore” sembrava più elusiva che mai. Ogni volta che mi chiedevo se Andre
Harrow fosse stato sorpreso come noi di scoprirlo, arrivavo sempre alla
conclusione che sì, ne era stato sorpreso anche lui.
Da quel pomeriggio Dominique aveva dato l’impressione di volerci evitare.
Di rado mangiava con noi alla mensa, preferendo stare con le altre ragazze
di colore: erano un’allegra e rumorosa tavolata che noi bianche
guardavamo con un certo disagio. Alcune ragazze sedute a quel tavolo erano
americane, con pettinature afro e treccine, altre venivano dai Caraibi e
parlavano con un forte accento britannico. Le bianche le corteggiavano timidamente
e con scarso successo e adesso Dominique si era schierata
pubblicamente con loro. Rappresentava un bel colpo di fortuna per il gruppo:
la fantastica Dominique Landau, ballerina, poetessa, una vera celebrità.
Vedendola con le nuove amiche provai una fitta di dolore all’idea di averla
persa, sembrava una di loro: la pelle olivastra, l’incarnato perfetto, il sorriso
smagliante e gli occhi neri con le lunghe ciglia…
Nel dormitorio mi trattava con freddezza, in modo sbrigativo. Se la salutavo
rispondeva con un ciao strascicato. Durante gli incontri del seminario
di poesia non esprimeva mai una parola di lode per il mio lavoro; fissava
me e il professore, sporgendo il labbro inferiore con aria torva. Lo sa, pensavo
io.
Un totem di Dorcas che rappresentava un corpo femminile voluttuoso,
con le natiche alte e rotonde e due seni perfetti come i fianchi e le cosce, la
faccia dalla mascella volitiva, secondo me era stato modellato su Dominique.
Lo sa. Però non ne è sicura.
Nella cappella si fermò, come se fosse riluttante all’idea di lasciarmi andare.
Siccome la lunga pausa delle vacanze sarebbe cominciata il lunedì
successivo le chiesi dove sarebbe andata. Lei scrollò le spalle con indifferenza:
«Sempre a sciare nella solita Aspen. Mio papà ha questi allegri visi
pallidi pieni di soldi con cui gli piace stare, sai?»
Sobbalzai: “visi pallidi”, “negri”. Ma perché parlava così?
«Tu vai a casa? Dove stai… Westchester, giusto?»
Mormorai di sì: era la versione ufficiale.
Dominique mi osservò sorridendo, un sorriso astuto e lento, pieno di sottintesi.
D’impulso dissi: «L’altro giorno mi sono resa conto che non parliamo più
di Sybil. Come se avesse smesso di esistere».
«Chi è Sybil?»
Risi, sorpresa.
«Cavoli, non sei divertente.»
Detestavo quella parodia dei neri, anche se credevo di capirne la genesi.
Prima di separarci Dominique vide la mia mano: il dorso della destra,
coperto di graffi e piccole croste. L’afferrò, e stringendola forte, in tono furibondo
disse: «Da chi è che ti fai beccare, bellezza? Da un vecchio pappagallo
verde, per caso? Se fossi in te gliela farei piantare.»
Ritrassi la mano ed entrai nella cappella senza più voltarmi.

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19- La morte dell’anima
Dicembre 1975

«Gillian, tu credi che il male esista?»
Aveva parlato a voce così bassa che avrei quasi potuto fingere di non
aver sentito la domanda.
Erano le quattro del pomeriggio di venerdì sedici dicembre e il campus
si stava svuotando. Dopo una fase di attività frenetica Heath Cottage era
quasi deserto. Nella sala al primo piano c’eravamo solo io e Penelope, in
piedi davanti alla finestra, in attesa dei suoi genitori da Old Saybrook, nel
Connecticut, che venivano a prenderla per le vacanze. Osservavamo la
languida nevicata.
Fingevo di essere in partenza anch’io, l’indomani mattina presto, di voler
prendere un treno per New York e raggiungere mia madre.
«Il male? No» risposi in fretta, un po’ imbarazzata.
«Soltanto “no”?»
«Non in senso classico. Non credo.»
«Quale sarebbe il “senso classico”, secondo te?»
Non ne ero sicura, però dovevo dire qualcosa. Andre Harrow sarebbe
stato furibondo con me se fossi rimasta in silenzio.
Dissi: «Dio e Satana. Il “bene” e il “male” come vengono normalmente
intesi, il principio soprannaturale».
«Il male non esiste, al di fuori del soprannaturale?» Penelope corrugò la
fronte. Il suo volto chiaro e tondo come la luna risultava comicamente inadatto
ai dubbi teologici.
Mi ritornò in mente che nel corso di introduzione alla filosofia del primo
anno Penelope non riusciva mai a afferrare il concetto fondamentale che la
logica non ha niente a che vedere con la verità, che si riferisce alle premesse.
Le avevo dato delle ripetizioni, ma il voto finale era rimasto basso.
Dissi: «Secondo la Bibbia Satana è il padre delle menzogne, il padre di
ogni male. Nel nostro mondo “male” sembra essere quello che la gente fa
per proprio esclusivo interesse, qualcosa che agli altri non piace. “Bene” è
ciò che fanno quelli che stanno dalla tua parte».
«Tutto qui?» disse Penelope seccamente.
Tu mi odi. Tu sei gelosa perché lui non ti ama.
Fissavo quella nevicata onirica, ipnotica, senza vento. Le montagne incombevano
davanti al dormitorio impervie e innevate. Sicuramente erano
stati ripuliti alcuni sentieri che portavano al quadrilatero e oltre, verso i
campi da tennis e i campi di calcio, il Catamount Creek e i boschi…
«Esiste anche l’omicidio dell’anima» riprese Penelope, «solo che è invisibile
e non riesci a vedere la vittima, come succede negli altri omicidi. Ci
sono persone malvagie, persone crudeli. Gente che dovrebbe essere punita,
se solo ci fosse qualcuno in grado di punirla.»
Avrei raggiunto Dorcas e Andre nel giro di poche ore. Mi batteva il cuore
per il desiderio di vederli e l’apprensione.
Quando arrivarono i genitori di Penelope uscii con lei per aiutarla a portare
i bagagli. Sporgendosi dall’auto, sua madre mi sorrise felice: «Sybil!
Come stai, cara?».
«È Gillian, mamma» la corresse rigida Penelope. «L’hai conosciuta.»
«Oh ma certo, Gillian.»
Rimasi a salutarle con la mano mentre si allontanavano. Una svolta improvvisa,
sotto la lenta nevicata, ed erano scomparse.

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20- Vacanze invernali
Dicembre 1975

Si trattava sicuramente di un malinteso. Dai loro discorsi avevo dedotto
che mi avrebbero portata a Parigi. Avevo frainteso? Comunque mi affrettai
a sorridere per mostrare che capivo la situazione.
«Sono solo quindici giorni, chérie» disse Dorcas stringendomi la mano,
«poi festeggeremo il Capodanno insieme, noi tre soli.»
Avevano deciso di partire prima del previsto. Aiutai Dorcas con i bagagli
mentre Andre rimase al telefono quasi tutto il pomeriggio. Lo sentii imprecare
e anche ridere, a volte. Evidentemente c’erano stati altri equivoci.
«Riprogrammeremo tutto per il mese prossimo. A presto!»
Quando vide la mia espressione, il dolore e lo shock sulla mia faccia,
Andre si accigliò, distolse irritato lo sguardo con un guizzo di senso di
colpa. Capii in un istante: Lui vorrebbe portarmi, lei no. Lui mi ama. C’era
stata un po’ di confusione sulle date, con i biglietti dei voli, gli orari di partenze
e arrivi.
Mi chiesi se all’aeroporto Kennedy ci sarebbe stata ad attenderli un’altra
interna. Un’altra studentessa del Catamount magari, una di quelle che mi
avevano preceduta e che diversamente da me si era potuta comperare i biglietti
di tasca sua.
Comunque mi era stata affidata la casa. Avevo la responsabilità di bagnare
le piante, ritirare la posta e dividere le cose utili dalla pubblicità, dar
da mangiare al pappagallo. Le stanze al primo piano sarebbero rimaste
chiuse, senza riscaldamento. Non dovevo salire di sopra. Anche lo studio
di Dorcas doveva rimanere chiuso. Invece la cucina e il salotto erano riscaldati.
«Siamo nelle tue mani, Gillian. Sentirai la nostra mancanza?»
Quando arrivò il momento dei saluti Andre mi abbracciò e sempre evitando
di guardarmi negli occhi mi baciò delicatamente sulla fronte; avrei
voluto che mi guardasse per poterlo perdonare. Dorcas fu più appassionata,
mi abbracciò con impeto e mi baciò sulla bocca. Più tardi scoprii una macchia
di rossetto sul mento. Si era truccata come una geisha con la faccia
bianchissima e gli occhi ingranditi dal rimmel e da un ombretto blu come
il neon. All’orecchio mi sussurrò con trasporto: «Mi farò perdonare, chérie.
Te lo prometto».
E così trascorsi le mie vacanze invernali, in solitudine.
Mi mancavano tremendamente. Ma quand’ero a casa loro potevo fingere
che fossero nella stanza accanto, oppure di sopra. Se entravo nello studio
di Dorcas fingevo che lei stesse lavorando, magari appena fuori dal mio
campo visivo. Passeggiavo tra i massicci totem guardandoli piena di meraviglia.
Mi era sempre sembrato strano e misterioso che figure tanto primitive,
poco più che blocchi di legno grezzo con rudimentali tratti umanoidi
e orbite vuote, sembrassero più vive di me.
Ritiravo la posta e la selezionavo con zelo. Tenevo pulito il sentiero davanti
alla casa. Bagnavo le piante, davo da mangiare al pappagallo e pulivo
dove sporcava. Se suonava il telefono mentre ero in casa rispondevo, presentandomi
come un’interna di Dorcas, Gillian, e prendevo accuratamente
nota dei messaggi. Arrivarono telefonate da varie gallerie di Tucson, Seattle,
Palm Springs e Toronto, dove Dorcas esponeva le sue opere; vendeva
in maniera sporadica ma continuativa. Da osservazioni che le avevo sentito
fare, scambi di battute fra lei e Andre, sapevo che disprezzava New York,
forse per via di qualche brutta esperienza.
Avevo capito anche che lui aveva scritto delle poesie, tempo prima.
A metà degli anni Sessanta si era dedicato a comporre musica. Tanto
tempo fa, aveva detto. «Andato tutto in fiamme.»
La grande cucina sporca era il regno del pappagallo verde. Quando entravo
gridava arrabbiato. «Ci-ao! Ci-ao! Ci-ao!»
Nella mia ingenuità mi ero illusa che saremmo diventati amici. Era
completamente solo, adesso che i suoi padroni se n’erano andati. Si beccava
sul petto strappandosi le piume e facendosi sanguinare per la frustrazione,
ma alla mia compagnia continuava a preferire la sua solitudine. Malgrado
il fatto che lo nutrivo, gli cambiavo l’acqua, pulivo dove sporcava.
Malgrado il fatto che gli parlavo, a volte addirittura cantavo per lui. Mi fissava
con quell’occhio folle e pieno di malevolenza e contraeva convulsamente
le zampe incrostate, senza più attaccarmi, però. Il pappagallo è il più
intelligente degli uccelli: perciò è probabile che Xipe Totec avesse valutato
la differenza di dimensioni tra noi arrivando alla conclusione che sarei riuscita
a sopraffarlo, in caso di scontro.
Un giorno Dorcas aveva osservato che era un vecchio animale, il che
spiegava il suo comportamento méchant. Un tempo era stato giovane, pieno
di energia, divertente. Si era rannicchiato sulla sua spalla tubandole nell’orecchio.
L’aveva chiamata chérie e le era stato davvero caro.
Entrando in cucina dove Xipe Totec mi aspettava tremante nella gabbia
mi premetti la mani sulle orecchie. «Ci-ao! Ci-ao!» strillò, come se volesse
scacciare uno spirito.
Non mi era stato esplicitamente proibito di andare di sopra, proibire non
era nello stile degli Harrow. E com’è ovvio, con la scusa che avevo nostalgia,
che volevo sentirmi più vicina a loro, dopo pochi giorni mi avventurai
al primo piano.
Vista alla luce del sole la camera da letto sembrava una stanza quasi
normale. La carta da parati era macchiata vicino al soffitto e si staccava dal
muro. C’erano troppi mobili accatastati in poco spazio, troppo sontuosi: il
letto a baldacchino coperto da una trapunta messicana riccamente ricamata,
arazzi ai muri, poltrone sfarzose. Un comò con uno specchio enorme.
Aprii i cassetti per esaminare gli indumenti che contenevano, la biancheria
di seta e satin di Dorcas, quella più pragmatica di Andre, di cotone bianco.
Aprii la porta di una cabina armadio piena di spifferi e inspirai la miscela
stantia di profumo e tabacco.
Lo sapevano che sarei venuta quassù, pensai. L’avevano desiderato.
Non respira…
Sì, respira!
Accanto alla camera da letto c’era lo studio di Andre: una scrivania, un
casellario, scaffali pieni di libri, quasi tutte edizioni economiche. Sul muro
un manifesto dei Grateful Dead degli psichedelici anni Sessanta. Ero già
nata, ma mi sembravano ugualmente anni molto lontani. Sul davanzale c’era
una scultura di Dorcas alta una trentina di centimetri, di legno: l’uomo
muscoloso con il pene semieretto. Aveva la testa piccola in rapporto al
corpo, la faccia bruta, vacua.
Io sono il mio pene, puramente animale. Esisto.
Sedetti alla scrivania, sulla sedia girevole di Andre. Scrissi in fretta nel
mio diario pensieri sparsi che più tardi avrei cancellato. Fissai gli scaffali
fitti di libri, opprimenti. Quali segreti contenevano? Li avrei mai compresi?
Tutte le poesie di D.H. Lawrence. il Serpente piumato. L’apocalisse.
L’amante di Lady Chatterley. La verga d’Aronne. Canguro. La Donna che
fuggì a cavallo. Figli e Amanti. La ragazza perduta.
Il casellario, con tre profondi cassetti, era chiuso, ma alla fine trovai la
chiave fissata sotto la scrivania con un pezzette di scotch.
I cassetti contenevano documenti della banca, dell’assicurazione, pacchi
di poesie in carta carbone. Un volumetto mal stampato, intitolato Icarus
Poems, di Andre Harrow, City Lights Press, 1967. (Poesie molto influenzate
da E.E. Cummings e Allen Ginsberg. Cominciai a leggerle ma mi distrassi
e smisi presto.) E c’erano raccoglitori vari, rigonfi, chiusi da elastici:
contenevano fotografie, schizzi di Dorcas e riviste.
Ne presi uno a caso e lo aprii: fu come se mi avessero dato una bastonata
sulla schiena.
Nel primo raccoglitore, proprio sopra, c’era una dozzina di polaroid di
una ragazza scarmigliata con i capelli lunghi e l’aria folle che mi somigliava.
Nelle foto e negli schizzi appena abbozzati la ragazza era prima vestita,
poi seminuda e alla fine completamente nuda. All’inizio era sdraiata sul divano
del salotto, un grande sofà con morbidi cuscini di velluto rosso; poi
in posa sul pavimento, con gli occhi vitrei, un sorriso idiota e i piccoli seni
oscenamente allungati, come banane. Era coperta di sudore e la sua bocca
tumefatta luccicava: saliva o sperma?
In quasi tutte le immagini la ragazza era ritratta da sola, come un esemplare
anatomico. Però in alcune comparivano, separatamente, un uomo e
una donna: lui nudo, accovacciato accanto alla ragazza nuda sul letto,
braccia e gambe aperte. Lo si vedeva soltanto di spalle; la donna era corpulenta,
sempre di spalle anche lei, vestita e con una gran massa di capelli
tinti di rosso sciolti sulle spalle.
Che cosa stavano facendo a quella sciocchina semisvenuta…?
Ecco la prova. Chérie è amata!
In altri raccoglitori c’erano decine o forse centinaia di foto e schizzi che
risalivano fino a dieci anni prima. E riviste pornografiche che si intitolavano
“X-Rated”, “SEX Confidential”, “Adults Only”. Parecchie riviste erano
aperte a pagine nelle quali erano state riprodotte le foto. Si trattava di
pubblicazioni pulp, con le facce delle ragazze tagliate o censurate con rettangoli
neri. Gli adulti erano senza volto o visti soltanto di spalle.
Mi tremavano le mani, mentre le sfogliavo. Anche la mia foto sarebbe
finita in una di quelle riviste? Lo avevano programmato fin dall’inizio…?
Quanto sei bella, chérie! Guardati, chérie.
Rimasi a fissare quelle scene di sesso così caricaturali e brutte. Alcune
erano pose, con le ragazze che guardavano ubriache in macchina, altre erano
istantanee un po’ mosse. Le modelle erano sempre giovani, attraenti e
intontite. Alcune sdraiate in stato di semincoscienza, i corpi snelli sistemati
in posizioni rivelatrici, come cadaveri pronti a essere sezionati. D’improvviso
ne riconobbi una, quand’ero arrivata al Catamount frequentava l’ultimo
anno. Era un’appariscente laureanda in arte drammatica che aveva fama
di non disdegnare promiscuità e droghe. Nella fotografia era nuda, inginocchiata
di fronte a un uomo con un cespuglio di peli scuri sul petto, un
corpo tarchiato, ovviamente non Andre Harrow. Aveva la bocca aperta in
una smorfia idiota.
Altre polaroid ritraevano un atto sessuale che non riuscivo nemmeno a
guardare, riprodotto sul paginone centrale del numero di ottobre del 1973
della rivista “X-Rated”. E lì… era Penelope, quella? Penelope! Oppure una
ragazza con un faccino tondo che le somigliava molto; seduta sul divano
del pianterreno, nuda dalla cintola in su, sosteneva solennemente i seni sulle
mani a coppa come se li offrisse allo spettatore. In uno schizzo unito alla
fotografia la stessa ragazza sdraiata sulla schiena sorrideva sciocca e lasciva.
Avrei voluto fare a pezzi quelle prove della degradazione della mia amica.
Eppure per qualche ragione non ci riuscii, come non ero capace di distruggere
le prove della mia, di degradazione.
In mezzo a un folto gruppo di sconosciute riconobbi la scontrosa Dominique:
bellissima nella sua nudità, in una posa voluttuosa da odalisca con
un ginocchio alzato e gli occhi socchiusi, forse svenuta o indifferente alla
presenza dell’obiettivo. In altre immagini ancora lei – oppure una ragazza
con la pelle di velluto color caffelatte che le somigliava tanto – insieme a
un uomo e a una donna visti soltanto di spalle. Ecco Marisa: inconfondibile
anche lei nella posa da odalisca contro lo stesso fondale rosso, il divano
del piano di sotto; il suo bel volto, delicato come quello di una bambola di porcellana,
sembrava sul punto di sbriciolarsi. C’erano almeno una ventina
tra fotografie e schizzi che la ritraevano, fatti in epoche diverse. Nella più
inquietante era nuda, sdraiata sotto un uomo con la schiena coperta di brufoli
e rotoli di grasso intorno al girovita, che le apriva le gambe e le aveva
infilato le dita dentro. La foto mostrava la faccia di Marisa in ogni doloroso
dettaglio mentre l’uomo rimaneva anonimo, protetto. In un’altra serie di
foto apparentemente prese in un’altra occasione Marisa era in posa con
Sybil, si tenevano abbracciate ai fianchi, in piedi davanti ai totem femminili
di Dorcas; in alcune immagini indossavano costumi aderenti o trasparenti,
di una mussola indiana che lasciava intravedere ventre e seni, in
altre invece erano completamente nude. Saltavano insieme facendo i pagliacci
per la macchina fotografica, sembravano bambine deficienti.
L’immagine più brutta, diventata anche uno schizzo a matita, ritraeva
Sybil in ginocchio, nuda mentre qualcuno, una figura confusa sullo sfondo,
teneva l’estremità di una cintura di pelle che le avevano legato intorno al
collo.
L’espressione di Sybil era estatica in maniera innaturale.
Vedi fino a che punto ti posso sottomettere? Vedi fino a che punto ti posso
adorare?
Le fotografie più vecchie ritraevano sconosciute, come sconosciute mi
risultavano le ragazze nelle immagini delle riviste. Ragazze che non riconoscevo.
Alcune avevano l’aria di essere del posto, donne più o meno giovani
con le facce pesantemente truccate e i capelli cotonati. In una c’era
una ragazza che non dimostrava più di tredici anni a quattro zampe, con
due sottili rivoli di sangue che le scendevano simmetrici dal naso camuso;
indossava mutandine di pizzo nero e scarpe con i tacchi ridicolmente alti.
In un’altra immagine la stessa ragazzina sedeva su una sedia di bambù con
lo schienale diritto, una sedia che riconobbi perché era in cucina, e in effetti
mi ci ero seduta a mangiare più di una volta; lei sorrideva con aria sognante
mentre alle sue spalle una donna robusta, la testa tagliata dalla
macchina, le sollevava i lunghi riccioli color castano chiaro in due grandi
ciocche come un trofeo. Comparivano anche degli uomini: giovanotti quasi
sempre visti da dietro. Qualche adolescente. Mi sembrò di riconoscerne
uno: l’uomo che aveva aggredito Dorcas vicino all’ufficio postale…
Pensai: Volevano che trovassi queste foto. Ne sono fieri.
Secondo loro avrei dovuto esserne fiera anch’io?
Sentivo un forte ronzio nelle orecchie, ero stordita e avevo la nausea. Però
mi limitai a riporre nel casellario le foto, gli schizzi, le riviste, come se
non fossero mai stati toccati.
Riattaccai la chiave sotto la scrivania.
Scesi al pianterreno. Ero ancora stordita, fuori dalla realtà. Se un piano
stava prendendo forma nella mia mente, se un sogno cominciava a nascere
alla luce che restava del giorno per esplodere nottetempo in tutto il suo
splendore, allora non ne ero consapevole. Venni risvegliata dal mio stato
di trance dal folle urlo: «Ci-ao! Ci-ao!». Istintivamente mi piegai per proteggermi
quando le ali del pappagallo mi passarono sulla testa.
Due giorni dopo sarebbe stato Natale. Telefonai a mia madre per anticipare
la sua chiamata.

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