Tutti i linguaggi e le tecnologie si sono schierati contro un virus, qualcosa di infimo, capace di installarsi come un programma dentro le cellule del corpo, e si accresce nei polmoni per vivere producendo la fine in chi non ha sufficienti autodifese per resistergli. Morendo dovrebbe anch’esso morire ma, come tutti i viventi, cerca di diffondersi per sopravvivere esso stesso. Il virus osa superare qualsiasi confine, sgretola gli apparati immunitari oltre alle barriere logistiche delle nazioni, mette a terra, letteralmente, distruggendo le capacità di resistergli dei corpi e delle organizzazioni, da quelle sanitarie a quelle economiche e finanziarie, mette in crisi chi non ha un solido conto corrente d’intimo rapporto con se stesso. L’economia e i mercati rimasti bloccati, gravati dalla chiusura di tutti i comparti produttivi, sono boccheggianti e chiedono respiratori artificiali, servono polmoni di verde liquidità per la ripresa. Se la crisi era dura in precedenza, ora, dopo il covid19, le speranze di ripresa sono inferiori a quelle di un corpo giovane che recupera le sue forze. Parole d’ordine ripetute in ogni casa e in ogni luogo sono quelle che affiorano anche tra le pagine del libro, anch’esso zona rossa del sentire, del guardare vedere il mondo secondo scorci che prima correvano veloci e ora sono incastrati agli occhi.
Basta non toccare. Non respirare. Non azzardarsi al sentir dolore.
…
Quindi non toccarmi. Non respirarmi. Sono l’avvento del tuo sapere.
E tutto si chiude intorno al corpo, visto come unico reale portatore di disastro. Vietati i contatti, gli abbracci e i baci, la famigliarità e l’intimità bandite, il corpo è un inerte, un sasso bloccato. E non si parla d’altro che di diffusione, mentre la bocca sta dietro una maschera che nasconde il senso di un volto, le mimiche facciali della relazione in atto. Maschera alla fine tutto, sentimenti compresi, repressi per motivi di sopravvivenza.
Eppure i problemi che infestano il pianeta sono tanti: inquinamento, clima, inadeguatezza delle risorse idriche naturali, mancanza di fonti energetiche alternative ai fossili, povertà e miseria, malattia, abbassamento degli indici di natalità nelle aere più ricche, crisi dei settori produttivi, sanità inadeguata e inadempiente, focolai di guerra, inquinamento radioattivo, informazione non veritiera,…
Dovremmo, per tutto questo, avere un elevato comune senso di colpa, anche se l’omologazione del sentire induce alla fine al non sentire nulla.Tutto scorre attraverso e sopra le nostre teste, ciò che capita all’altro non è noi e per questo ci si sente falsamente in salvo.
E l’autore, da subito, dall’attacco della raccolta, ci dice con chiarezza quale sarà il clima del libro, l’attualità che ci ha coinvolti tutti e ha prodotto a livello globale un gran numero di morti. L’ospedale, il male, le cure, la perdita, tutto quel bagaglio che resta nel praticare i luoghi del male, soprattutto di un male, quale si è mostrato quello prodotto dal virus, ma in primis da noi stessi, che ha appestato le città e le campagne, globalmente si è mostrato non governabile come tutte le altre cose a cui siamo abituati, malattie comprese, quelle a cui eravamo abituati, in una routine di cui non chiedevamo spiegazioni. L’artificialità delle relazioni sociali, l’alienazione del vivere contemporaneo, il senso di mancanza e di impotenza, i crimini di stato e individuali, la frode, l’illegalità nelle are di governo, ma anche della finanza e della spesa pubblica, la distanza indotta e auspicata che ci ha portati a differenze sociali ancora più nette, tutto questo come fondo che ci porta in una dimensione differente e ci espropria della vita stessa, quella consueta, che ora tanto si racconta e si desidera e ci chiama a fare i conti con noi stessi, senza altri intermediari, anzi ponendoci dubbi sulla validità della parola stessa. Ognuno di noi, nessuno è escluso, è chiamato ad analizzare le equivalenze del dissesto, personale e sociale.
Scrive l’autore: << Ho trascorso gli ultimi giorni di febbraio accompagnando mia madre per ospedali fino alla fine dei suoi giorni. Credo che sia stato lì che il virus mi si è insediato. Ancora non si aveva percezione del pericolo incombente. Quel sabato è stato l’ultimo funerale canonico celebrato al Vantiniano. La sera stessa è uscito il decreto che fermava tutto. Il mese di marzo è stato il mese della malattia. Meno aggressiva di qualcuno che come me è riuscito a starsene a casa e più di molti altri. I nostri cervelli e i nostri sistemi immunitari fanno il loro lavoro. Sono stati i giorni del recupero di queste parole che poi, nella convalescenza d’aprile, sono diventate questa raccolta di poesie. Giorni nei quali ho fatto con i versi quello che ho fatto con il mio corpo: ascoltando poco quello che si diceva, e molto quello che sentivo.>>
Fernanda Ferraresso
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antony gormley
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Testi tratti da La zona rossa, di Raffaele Castelli Cornacchia
Sul tavoliere dell’oca
Lui che sa cambiare la pelle ha sempre condotto il gioco
risalire all’origine, trarre la via del ritorno
come sa fare un rettile arrotolato su se stesso
teso a mordersi la coda, scordato della provvidenza
da quattordici oche come le tappe della via crucis
da non lasciare alla sorte. Eppure, ce l’abbiamo fatta.
Il caos era stato evitato
ci aspettava un’alba terrena
una vita tutta da inghiottire
però rimaneva una minaccia
un tubo rimosso troppo in fretta
qualcosa che sfuggiva all’udito
e non era tanto la pandemia
l’eventualità d’una ricaduta
quanto quel riprendere dall’inizio
come dopo la prigione dell’oca.
C’erano stati compleanni, morti e balconi fioriti
vessilli ma nessuna festa, funerale o matrimonio.
Non era stata una guerra ma lo spogliarsi d’una pena
delle cui ore senza tempo avanzavano poche orme:
le ricrescite dei capelli e le lenzuola stropicciate
sudate, i corpi arresi e l’appello degli assenti.
Anche oggi, sull’orlo della notte
qualcuno si sveglia senza respiro
e si ripromette d’esser gentile
e riconoscente con il destino
per il poter ancora accarezzare
tracce lasciate o farne di nuove
ricomporre la trama di quei giorni
che han ceduto il passo ai corpi
intrecciati gli uni agli altri
nell’identico amplesso virtuale.
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Prima della peste
Fossi femmina spruzzerei latte
nessun rito, ma spazio alla routine
la sopravvalutazione dei baci
quelli di prima che ora non mi dai
talvolta siccità oppure pioggia
un vespaio d’insetti nel cilindro
dell’ospedale della mia casa
del ricordo del brulicare sordo
giù nella strada prima della peste.
Sto con me stesso, o senza me stesso
solo un fiore, la calma la muove
nell’attesa di chi mi sta cercando
nella distanza perfetta mi trovo
morto o vivo non fa differenza
se perdo il tempo ad attendere
che tutto cambi per farsi uguale
che un tratto lieve tracci il nuovo
con solo una luce al mio fianco.
Allora se proprio devo vivere
lasciatemi vocali stalattiti
e le consonanti acuminate
rivoli verdi sui suoi seni
e il ventre, sì, un poco stracciato
e tutte le debolezze intatte
e le perle, della nostra apnea
fatta di polmoni indeboliti
e cieli sotto sforzo. Inquinati.
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Esser fatti di pietra
Era meglio esser fatti di pietra
con i suoi suoni, e il non sentire
il dolore, e il tempo che passa
con tutta la forza, della terra.
Bruneggiava, come tutte le sere
pigro, ordinario e quieto
ad ascoltarsi l’ulteriore giorno
nella conta, per chi sa indugiare.
Se comparvero sembianze, sembrava
come pareva guerra, a parole
e una mantiglia ci ricopriva
come a ripararci da qualcosa.
Equidistanti, l’eden e l’averno
ci restavan i conti di noi stessi
scarpe senza piedi, portoni chiusi
e, come un viatico, la bestemmia.
Ormai certe le colpe sconosciute
e di quei versi solo la bocca
con il distacco, e la diffidenza
a dire dei sani e dei malsani.
Esseri viventi e non viventi
la groppa china e mani, gli occhi
savi di una bestia indulgente
che ronza, striscia. Punge per paura.
Era meglio esser partiti prima
con i suoi suoni, e il sentir bene
il piacere, e il tempo che passa
con tutta la forza, della terra.
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.antony gormley- essere
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Occidenti, ali
Non c’è ordine nella bellezza, e
t’illudi d’avere delle idee
e le digiti sopra un foglio, ma
il tuo pensare non è un germoglio
si rivolta sterile su se stesso
costruisci effetti per la gente
e il tuo tratto non ha contorno:
Non sai dipingere con le parole.
Proponi sentimenti inutili
persi in alfabeti. Questo fai.
Eppure se pensassi a te, così
disperso nel nostro tempo antico
così, senza orme nei tuoi passi
ti augurerei sogni diversi
fatti di lune appese a prua
e rulli di tamburi, e vociare
da stare svegli come galli sbronzi.
Ma tu non sai dipingere. Straparli.
Ti opponi alla corrente, remi
fendendo con l’acqua.
Non c’è davvero ordine, in essa.
l’aria della primavera arriva
e se ne frega altamente di te
delle tue connessioni logiche
dei tuoi ami e delle tue reti
del tuo sguardo senza gambe e poi
quel tuo prendere misure ai morti.
Essere e avere senza fare
verbi senza soggeto e tutti noi.
Gli occidenti fermi, senza ali.
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Collane di labbra
Prima d’allora avevo sempre detestato la routine
le rassicuranti liturgie della quotidianità
ma la lotta per la sopravvivenza richiede ordine
così in quei giorni presi ad avere abitudini.
La pace e il frigorifero ronzavano sicuri
la carne in freezer e le sirene sempre più vicine
a fendere l’aria del temporale aggirando scogli.
Spalancavo le finestre ad arieggiare i cuscini
l’abbondante colazione e la merenda coi biscotti
e la tisana serale intercalavano i pasti
d’una piccola casa di cura cucitami addosso.
Nel farsi pensiero d’ogni cosa nelle tasche briciole
frammenti di cibo senza fame e notti senza sonno
e gli anni a manciate avvolgevano le scapole.
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Dovevo riprendere il peso e le forze smarrite
impedire che venissero a saccheggiarmi il fiato
e lasciare che la natura umana del mio corpo
facesse fino in fondo il suo imprevisto corso.
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Così in quei giorni tutti i respiri si riunivano
in collane di labbra che sono diventate parole
pudiche sincerità, poesie, e cambiamento.
Note relative all’autore
Raffaele Castelli Cornacchia vive a Brescia dove fa l’insegnante. Ha scritto i monologhi teatrali Un esodo per gioco e Centocinquanta.
Ha pubblicato il romanzo breve Il pacco di Durante (Robin Edizioni, Roma, 2006); i libri per piccoli lettori Gli abitanti di Colle Bianconero (EdiGiò, Pavia, 2013) e Le chiocciole di Amemì (EdiGiò, Pavia, 2015) dei quali è anche illustratore. Per la poesia è autore della silloge Sul ponte sconfinato di Limey che dà il nome all’omonima antologia (Lampi di stampa, Milano, 2008) e ha pubblicato i libri A meno che (Ennepilibri, Imperia, 2008), Via Milano (Lampi di stampa, collana Festival curata da Valentino Ronchi, Milano, 2012) e L’alfabeto della crisi (Italic-PeQuod, Ancona, 2013).
Raffaele Castelli Cornacchia, La zona rossa- Transeuropa edizioni 2020
Essere e avere senza fare
verbi senza soggetto e tutti noi.
Gli occidenti fermi, senza ali.
apprezzate! un diario della pandemia realistico e insieme visionario