vecchie fabbriche cros sul fiume burgo
ANCORA IN FABBRICA CON FABIO FRANZIN
Torniamo ancora in fabbrica. Noi che lavoriamo la parola abbiamo bisogno di atterrarla per strada, sui pavimenti in cui ogni giorno si schiantano le creature in un affanno quotidiano, ritmico, fino allo stordimento delle tempie e all’annullamento della riflessione. Chiamo sulle nostre carte sensibili un altro autore di impegno rilevante, onesto, intenso: Fabio Franzin. Dopo la voce autorevole di Nadia Agustoni ci apre il corpo della fabbrica.
Da quanti anni lavori in fabbrica, Fabio?
Dal settembre 1979. Salvo l’anno di chiamata alla leva, nel 1983, e due anni di mobilità, 2011-2013, a seguito del fallimento dell’azienda in cui lavoravo. Ho sempre lavorato come operaio nelle industrie del legno, e sono ormai 35 anni.
Ti ricordi le tue prime impressioni di quando sei stato assunto la prima volta?
Allora ero un ragazzo di 16 anni, primogenito, costretto a interrompere gli studi per aiutare la famiglia. Ero spaesato, come può esserlo un “bocia” catapultato dentro un capannone, a faticare per 10 ore al giorno, fra il clangore dei macchinari, nell’epopea del mitico-fantomatico nord est all’apice della sua furia produttiva. Ho vissuto quel battesimo con angoscia e tristezza. Le mie mani erano là, fra le bestemmie e i miasmi delle colle, ma il cuore e la mente erano rimaste fuori, in compagnia di Proust e Pavese.
Che cosa è cambiato da allora? A me interessa soprattutto illuminare la qualità relazionale tra gli operai, il loro grado di solidarietà e di coscienza.
L’asservimento non lasciava spazio a ipotesi di lotta per migliorare la condizione operaia – asservimento che è di matrice “contadina”: le terre lavorate dai mezzadri, padri di quei metalmeccanici imprestati all’industria dal dopoguerra, quando la millenaria civiltà della terra vedeva il suo triste declino erano del “parón”, e il padrone imperava sulle esistenze al pari di un Dio bonario e crudele -; e con esso, avvitato poi all’epoca dei consumi, un individualismo bieco e ignorante (i capetti – che si comportavano spesso da satiri-satrapi – durante la settimana, nebbia o pioggia, venivano al lavoro in motorino, il sabato sera passavano per il paese in Bmw, annunciati dal tum-tum dell’autoradio). Di solidarietà ne ho vista ben poca dentro il capannone, in una realtà e in un ambiente così abbruttiti, anche il sentimento si piega, resta soffocato. Magari emerge fuori di lì, o si sedimenta in una noce dura di indifferenza ed egoismo.
Le condizioni di lavoro sono peggiorate o migliorate, secondo te?
Dall’avvento dei contratti a termine, del lavoro precario, e di conseguenza anche di una vita precaria, serva poi di un’economia viziata e crudele, in cui la crisi si è incistata come un tumore, le condizioni sono peggiorate, e non di poco. Come può per esempio un uomo / una donna con dei figli, lamentarsi se è costretto a lavorare in condizioni di pericolo o di nocività quando ha il contratto che gli scade fra un mese, due, tre? Le agenzie interinali sono zeppe di richieste di persone disperate che aspirano a un lavoro, a un minimo di reddito, anche a costo… La questione ILVA, che a Taranto ha diviso la società fra chi chiede un lavoro anche a scapito della salute, e chi non vuole i veleni nocivi, o le cosiddette “morti bianche” da me così trepidamente cantate, dovrebbero insegnare. Eppure ora, nell’epicentro di questa crisi feroce, sono queste questioni che rischiano di non trovare risposta. Ricordo che poco prima della crisi, dalla suggestione negativa delle frequenti alluvioni causate anche dalla cementificazione selvaggia dei suoli, asserviti alle produzioni,, all’inizio delle zone industriali o dei paesi della zona in cui vivo, avevano incominciato a campeggiare, a vernice rossa sotto i cavalcavia o in cartelloni giganti, le scritte: “Basta capannoni”. Ora mi chiedo se saremmo disposti ad accogliere quell’esortazione. Se per magia ritornasse il lavoro, e con esso il bisogno di altri capannoni – mentre molti di questi luoghi sono ora deserti cubici invasi dalle erbacce -. Me lo chiedo per primo io, che ho provato cosa vuol dire rimanere senza lavoro, con un reddito dimezzato e due figli cui dare da mangiare.
Come riesci a conciliare il tuo studio con la pesantezza del lavoro quotidiano?
Con enorme sacrificio. Ma anche con altrettanta passione. Ho letto tanto, da sempre. E’ stata la mia isola a cui approdare, ogni sera, da un naufragio assurdo. Poi è venuta anche la scrittura, il contatto con la purezza della parola. Considero la mia esperienza schizofrenica: dalle urla, i richiami, il rumore e il sudore, i calli e le ernie alla schiena, la lettura dei poeti è sempre stata una sorta di purificazione. Ma la mattina dopo, i versi dei poeti come una conchiglia appoggiata all’orecchio da infilare nell’armadietto per indossare i guanti di gomma, infilarsi i tappi antirumore…
I tuoi colleghi sanno che scrivi? Come considerano il tuo studio nella parola?
Non faccio pubblicità su me stesso poeta. Dentro in fabbrica sono un operaio. Perciò mi sta stretta l’etichetta appiccicatami addosso di “poeta-operaio”. Ma qualcuno lo sa, naturalmente. I più umili sentono che per me è un dono immenso, e forse ne sono anche invidiosi; per altri sono solo un tipo strambo; i più considerano la mia esperienza poetica non così diversa da un qualsivoglia altro hobby o passatempo, tipo il torneo di calcetto o la dedizione all’assemblaggio di navi in miniatura. Qualcuno però è stato attratto dal mio lavoro, e richiede i miei libri. Ma sono mosche bianche. Non sono più gli anni dell’operaio che si interessa di cultura, o dell’imprenditore di stampo Olivettiano. La televisione ha stuccato le lacune di tutti, purtroppo, e con essa il travisamento della cultura, dove le veline e i tronisti fanno scuola. In un mio distico dico: “che tristezza però Platinette / al posto di Pasolini”.
Il tuo lavoro in fabbrica quanto ha inciso nella tua poesia? Sicuramente è un tema centrale che hai cantato, ma la mia riflessione intende considerare se questo tipo di lavoro ti ha sacrificato intellettualmente, impedendoti relazioni e reciprocità culturale? Oppure ti ha permesso di leggere fino in fondo realtà difficili della nostra società e questo ha rafforzato e intensificato l’energia espressiva della tua poetica?
La mia risposta è già tutta scritta nelle tue domande, cara Anna Maria. Il lavoro manuale è il motore di quello intellettuale. Ma non è una novità. Franco Loi mi ha raccontato di un metalmeccanico da lui conosciuto che gli confidò: “mi piace il mio lavoro, perché lavorando il ferro ogni giorno, imparo ogni giorno un po’ più del ferro e un po’ più di me stesso”. Occuparsi di cose concrete, come una barra di ferro o un piano di legno, e un sapere che si trasferisce nella parola, purgandola dei paroloni, rendendola più umana.
Per quanto concerne il mio ruolo nell’ambito della società letteraria, ho avvertito lo stesso sospetto dei colleghi che hanno appreso del mio “segreto”: per essi sono un operaio anomalo, per quelli un poeta anomalo. Penso a Patrick Kavanagh, il poeta contadino che Seamus Heaney elesse a suo maestro: soffrì in vita l’esclusione dalle accademie “come se dovessi presentarmi con gli scarponi lordi di letame”, disse.
Nel mio caso poi, avendo scelto – pardon, avendomi scelto, essa, la lingua – il dialetto, le cose si sono complicate ancor di più. Come se fossi un popolano che sa esprimersi solo con l‘unica lingua che possiede.
Dal tuo punto di vista, credi che la poesia italiana contemporanea tenda all’astrazione, estraniandosi dalle problematiche sociali e da realtà lavorative difficili?
Sì, l’ho sempre pensato. Almeno per ciò che concerne la seconda metà del ‘900, ostaggio della furia delle avanguardie, con i dovuti distinguo di valore, e le sue luminose eccezioni. La poesia si è avvitata, sino a spanarsi, nel problema della forma, perdendo di vista l’uomo. Il poeta non deve prendere il posto del sociologo, ci mancherebbe! Ma deve, a parer mio, essere un testimone del suo tempo come lo è stato Pasolini, per esempio. Luminosa è stata l’esperienza di Simone Weil: un filosofo che per comprendere i moti sociali ha lasciato la sua scrivania per indossare i guanti e mischiarsi al popolo che suda e chiede.
Come consideri esperienze di arte in fabbrica? Ricordo i concerti di Nono e Maderna per esempio. Potrebbero ripetersi ai giorni nostri? La poesia può/deve entrare in fabbrica?
Ho avuto esperienza di lettura poetica all’interno di una fabbrica, lungo i reparti, insieme all’amico Pierluigi Cappello. E’ stato un evento potente e magnifico, sia per noi sia per le maestranze. Purtroppo non tutti gli imprenditori sono illuminati come chi ci invitò.
Un poeta che vive la fabbrica, quali apporti può dare ai suoi compagni di lavoro? La sua parola lavorata può avere una sostanza utile o in realtà non riesce a nutrire e distinguersi, omologandosi?
Può, come faccio io, parlare con loro. Stare con loro, e con loro condividere la fatica e la sfuriata del capo, la stanchezza e la battuta. In fondo sento che faccio questo anche con la mia poesia.
Ti chiederei, se vuoi, qualche considerazione sull’intervista che ho fatto a Nadia Agustoni. Condivisioni e riflessioni.
Nadia, che è una cara amica, e un poeta che stimo, ha espresso tutto lo sconforto che è tatuato nell’operaio. Quella cifra che ci riduce a cosa che genera o assembla cose, all’interno di quello strano lager che è la fabbrica, vero monstrum dell’epoca industriale. Non dimentichiamoci della frase di Primo Levi da “I sommersi e i salvati” che ho posto in esergo al mio “Fabrica”: o se anche soltanto vogliamo renderci conto di quanto avviene in un grande stabilimento industriale”. Espressa da lui, che ha conosciuto il lager, la dice lunga sulla realtà edificante del luogo, sul marchio di sopraffazione che imprime nel corpo e nell’anima di chi vi consuma la sua esistenza.
anna maria farabbi
Grazie anche per quest’intervista, per queste meditazioni-dialogo. Non solo esse sono preziosissime, ma costringono a guardare la scrittura poetica da un’angolazione ineludibile e costringono a cercare un’onestà totale nel porsi di fronte alla realtà del lavoro (e del lavoro sfruttato ed offeso) e a quella del fare poesia.
Seguo da sempre la scrittura di Fabio, da quando lo vidi partecipare al premio Turoldo (che poi vinse) e mi indispettivo perché non era premiato (ma ovviamente nulla potevo intervenire, non essendo in giuria). E’ uno dei pochi che scrive buona poesia civile senza tirarsela troppo (ne conosco altri, ottimi scrittori di poesia, anche civile, ma non ottimi poeti).
La mia riflessione, sul problema del lavoro, è raccolta in un volume… collettivo (nel quale c’è anche il contributo di Fabio e credo anche di Anna, si tratta de “Il ricatto del pane”) ed è centrato sul “significato” del lavoro. Fabio parla fra le righe di questo ricatto, rispondendo alle domande di Anna. Dice, fra l’altro: “Ricordo che poco prima della crisi, dalla suggestione
>negativa delle frequenti alluvioni causate anche dalla cementificazione
>selvaggia dei suoli, asserviti alle produzioni,, all’inizio delle zone
>industriali o dei paesi della zona in cui vivo, avevano incominciato a
>campeggiare, a vernice rossa sotto i cavalcavia o in cartelloni
>giganti, le scritte: “Basta capannoni”. Ora mi chiedo se saremmo
>disposti ad accogliere quell’esortazione.
Ebbene: in questo sta il ricatto, nell’essere obbligati, per sopravvivere a “prendere o lasciare” questo lavoro, così come ci chiedono di farlo. Non si tratta soltanto di sfruttamento (ho conosciuto anch’io la fabbrica, anche se ho lavorato sin dai 16 anni – invece delle vacanze estive – in Svizzera come barista e cameriere: e almeno lì c’era uno stipendio decente e un minimo di rettitudine nei rapporti fra “patron” e dipendente). In fabbrica invece no. I padroni ci chiamano non soltanto a un lavoro, ma anche a una connivenza, soprattutto con le loro malefatte ecologiche. Non esiste fabbrica che non inquini, che io sappia, ma se apri la bocca ti sbattono fuori, senza tanti complimenti. Da sindacalista poi (per 10 anni) ho verificato come questa fosse la regola, dappertutto, e ho verificato come i lavoratori fossero più propensi a lottare per un aumento di stipendio o per la mensa che per un lavoro più sano e pulito, per sé e per i cittadini. Taranto non è un caso, ma una serie di concause, quelle di padroni, di lavoratori, di politici disonesti, di sindacati poco lungimiranti, ecc. ecc.
Sono d’accordo con Fabio quando dice: “Il poeta non deve prendere il posto del sociologo, ci mancherebbe! Ma deve, a parer mio, essere un testimone del suo tempo come lo è stato Pasolini, per esempio”. D’accordissimo, ma cosa significa? A mio modo di vedere significa che il poeta deve esserlo dentro e fuori la fabbrica. Soltanto così evita i sociologismi. Fabio canta il disagio dentro la fabbrica: non vive due vite, una fatta di belle parole in versi e l’altra fatta di duro lavoro. O di lavoro alienante, come nel mio caso, quando ero dipendente di un ospedale (e ho scritto, nel mio piccolo, su questa condizione). Se il poeta (l’intellettuale) diventa RESPONSABILE della sua condizione e quella di altri come lui, allora diventa un tramite, acquisisce un ruolo sociale senza fare il sociologo. Diventa la voce di chi non ha voce, il tramite fra le generazioni, una voce collettiva e non più individuale.
Oggi ci propongono di nuovo i capannoni, e in maniera sempre più aspra e alienante, nonostante lo sviluppo tecnologico. Non si spreca neppure la fantasia per immaginare un modo di vivere differente. Come a dire che l’operaio e l’impiegato devono pensare ai fatti loro, che lì si sta per danaro, non per vivere. “Fatti i cazzi tua”: il cinismo del sistema. Ma chi sono costoro (i manovratori dei grandi capitali) per ricattarci in questo modo? Per dirci: se vuoi campare adattati, se no, crepa.
Per questo io sono contrario alla “ripresa”, così come la vogliono tutti (credo), anche gli operai, SE la “ripresa” significa reiterare quello modello folle di sviluppo e tornare a prima, peggio di prima, escludendo cioè la responsabilità che tutti hanno in qualsiasi funzione che svolgono. Il ricatto è “prendere o lasciare”, prendere un modello e lasciar fuori il cervello dalla fabbrica, oppure tenersi il cervello e star fuori dalla fabbrica. E’ la cancellazione di tutte le vere conquiste operaie, che non sono soltanto gli stipendi e le ferie, ma anche la possibilità di incidere sulle scelte aziendali (che dagli anni ’90 in poi si è andata pian piano azzerando). Non c’è molta poesia in questo modello economico, non solo nella fabbrica, che ormai è sempre meno simbolo del processo di degrado collettivo, dal punto di vista del benessere e dal punto di vista morale. La vera poesia è, pertanto, quella che tende a cambiare il sistema, in ogni sua dimensione ed in ogni sua espressione, perché è la cultura che cambia le cose, non i poteri. Questo è il nostro compito, di tutti, poeti e non poeti. E compito dell’intellettuale e dell’artista è quello di sostenere questo moto reattivo. E all’operaio che dice “mi piace il mio lavoro, perché lavorando il ferro ogni giorno, imparo ogni giorno un po’ più del ferro e un po’ più di me stesso” direi “d’accordo, ma ricorda che al mondo non esisti soltanto tu e il ferro”.
In questi anni siamo stati incantati da troppe sirene e la nostra sensibilità, ripiegandosi su noi stessi, ha dimenticato il mondo, la natura, ha dimenticato il dovere di “cura” dell’ambiente, che le società rurali ben conoscevano nei tempi antichi (anche se, come la storia dimostra, non sempre vi ottemperavano).
L’alternativa è già scritta nella storia: “Rapa Nui”, l’Isola di Pasqua, devastata nei secoli passati dalla follia umana.
Io mi ostino, quando posso, a intervenire su questo punto, del dovere che noi abbiamo come intellettuali e artisti, ma vedo che pochi sentono questi argomenti ed è ovvio che, se non si “sente”, non si può scrivere “a bacchetta”, altrimenti si scriverebbe delle cose fredde e senza mordente. Dunque è questo sentire che, ancor prima del dire, ci manca e credo che per acquisirlo si debba cominciare da un solo punto, ossia quello di smettere di “farsi i cazzi propri” ed iniziare a pensare in collettivo, pensare di avere un ruolo, una responsabilità, anche verso la storia…
io ancora mi domando,dopo queste elezioni in città, come l’ignoranza faccia ancora da padrona e si possano sparare tutte le cazzate che ci piovono addosso, come tu dici nel commento, solo perché un potere, che è storia di quell’ignoranza e del menefreghismo che galoppa, ci consegna in busta e a pagamento la tanta indifferenza praticata
f.f.
“Occuparsi di cose concrete, come una barra di ferro o un piano di legno, e un sapere che si trasferisce nella parola, purgandola dei paroloni, rendendola più umana.” Mi basta questa considerazione per entrare in empatia con il poeta Fabio Franzin. La poesia se non si “impasta” con la vita non lievita, non sfama, non ha sapore. Bellissima intervista. Grazie.
N.I.
Molto contenta di questi interventi/interviste che ci ridanno fabbrica e operai come luogo di umani prima di tutto, non solo ‘esuberi’/’cassaintegrati’/’licenziati’/’morti sul lavoro’ ecc. come, solo, appaiono in notizia. Non perché non si debba dire della disperazione, della crisi, della miseria e tutto il resto terribile della condizione ‘operaia’ di oggi, ma perché mai e poi mai si va oltre il numero dell’evento, oltre il nome del colpo d’accetta che è stato appioppato, oltre la ‘tuta’. Sotto, infatti, c’è questa pelle d’uomo/donna robusta come cuoio, piena tanto di cicatrici come di vita originale ed irripetibile. Persone. C’è, più spesso che non si creda, nonostante l’abbrutimento perpetrato ogni giorno dalla ‘pressa’ (o anche dalla ‘cassa’ del supermercato, e se poi domenicale in aggiunta…) e da chi le comanda i tempi e i modi, l’esperienza ‘del ferro’ che si è elaborata, fino a coscienza che sta criticamente e consapevolmente sopra (politica, letteraria, utopistica, non importa, è comunque capacità di elaborazione del massacro del lavoro). Io sono di quei privilegiati che non hanno faticato in fabbrica. Ma ho sempre vissuto in un quartiere operaio; ho amici, parenti, conoscenti ‘di fabbrica’. Bella gente, coraggiosa, forte. Che ti insegna a vivere anche nel difficile. E a guardare bene, a vedere in fondo. Sì, lo so, dimentico quegli altri che ne escono spappolati e basta. Ne ho conosciuti tanti, anche di questi. A volte osando una ‘compassione’ (con una vena di ‘derisione’ inconfessata sotto sotto!) superiore, stupida e arrogante. Uno, che chiamavamo solo con un soprannome ridicolo, uno che non sapeva leggere, comperava tutti i giorni il suo giornale politico, lo metteva nella tasca della giacca e ogni tanto lo toccava, lo lisciava… Sì, se ne sorrideva, allora. Noi, dal ‘librettino rosso’ in tasca… Qui, adesso, ha diritto di starci anche lui, alla pari, in queste rubriche di poeti e scrittori che lavorano in fabbrica.
milena