INIZIATIVE CARTESENSIBILI- CHIEDERE PERDONO, RINGRAZIARE, O…?

aldona michievich

aldona michievich.

Perdonare è un verbo terribile. La sua transizione è interiore e passiva, tutta svolta in veridicità di lemma, perché il perdono porta con se la verità dell’azione. Si transita e ci si pone a perdonare “in assoluto” altrimenti non si coniuga il perdonare, si converte il verbo in altri verbi. Non può infatti frazionare il perdono in modi di tempo (per adesso ti perdono) o in stato di moto  (finché riesco ti perdono) né può svolgersi il perdono in stratificazioni di esigenze vitali (ti perdono per riuscire a ricominciare, per sopravvivere a questo dolore, ti perdono perché così finisce tutto) né può subire un’imposizione esterna (tutti mi chiedono di perdonare). Altro stato di movimento del perdono è il suo passaggio dal personale singolare, intimo, all’atto fra due persone “io ti perdono \ tu perdoni me” al personale plurale, “noi tutti perdoniamo”. Nel plurale c’è lo scambio di proprietà emozionale: i membri che vengono chiamati a coniugare il verbo sono inseriti in altre proprietà che possono anche non aver mai provato il consumante dolore dell’atto che ha messo sul piano della necessità lo svolgimento del verbo. Nel noi, c’è la massa nominale del plurale, dalla famiglia alla folla, dalle istituzioni alla società intera di un Paese. Tenere conto delle proprietà terribili del perdono è un atto quindi di pragmatismo, ma tutto ciò non riparerà  dalla necessità o dall’impossibilità della sua scelta. Condonare humanum est.

AMERICA TI PERDONO

Quando sei circondato da mostri
quasi lo diventi anche te,
per cercare almeno di sopravvivere…

Kosal Khiev

Quando viene chiamato a leggere le sue poesie alle Olimpiadi culturali di Londra, il Festival of the World, per rappresentare il suo Paese al Poetry Parnassus nel 2012 , Kosal Khiev non ha fissa dimora, dorme ospite sui divani dei suoi amici o gira le strade di Phnom Pen, la capitale della Cambogia, finché la notte non diventa giorno.  Khiev in Cambogia ci è nato ma in un campo di rifugiati dove quel che restava della sua famiglia cercava la salvezza dagli orrori del regime dei Khmer Rossi del dittatore Pol Pot. “Mia madre – racconta Kosal – ha visto uccidere il suo primo marito davanti ai suoi occhi, e l’unica cosa che ha potuto seppellire di lui è stato il suo teschio fratturato”.

Parte della famiglia Khiev riesce a ottenere lo stato di rifugiato politico negli Stati Uniti e all’età di nove anni, Kosal parte verso il sogno americano. Il padre resta in Cambogia, non otterrà mai il permesso di congiungersi a loro. Ma dentro il cuore della terra della libertà occidentale c’è una vita dura e difficile per chi arriva povero di ogni altra cosa che non la sua stessa vita. “Mi ricordo che vivevamo in nove in un appartamento di due camere da letto” racconterà Kosal, e attorno a quella casa popolare non c’è nemmeno una rete di servizi sociali. Per sua stessa ammissione il ragazzo fa una scelta sbagliata (forse anche dettata dal bisogno adolescenziale di essere approvato socialmente, di “appartenere” come bisogno sociale, di essere inserito in una comunità similare che ti accoglie e ti riconosce come uno di loro), ed entra in una “gang”. A sedici anni Kosal Khiev viene arrestato per aver partecipato ad una rissa fra gang rivali e trattato come un adulto dalla giustizia americana, viene condannato a passare sedici anni nelle patrie galere. “Mi misero in isolamento per quasi un anno e mezzo – rivela l’uomo – e stavo diventando pazzo. Mi domandavo se stavo per morire lì, in prigione. E scrivevo  buttando tutto fuori, paure, speranze, sogni e incubi”. Kosal viene anche trasferito spesso di penitenziario, ma in uno di questi conosce un reduce della guerra del Vietnam che lo introduce alla poesia performativa dello “Spoken word poetry” e da allora la poesia diventa il suo canale creativo per ripensare a se stesso e alla sua vita, e trasformare la sua rabbia,  i suoi pentimenti, le sue esperienze in una forma di arte. “Scoprì il potere che la poesia ha di cambiare le prospettive e le visioni dell’esistenza” ricorda il poeta  e nonostante il buio di quegli anni, egli comincia a frequentare delle classi di poesia all’interno di programmi educativi “correzionali” di Arte, fino a prenderne parte attivamente e diventarne un coordinatore, così da girare nei penitenziari per aiutare i ragazzi a rischio.

Kosal Khiev sconterà quattordici anni complessivi di pena: entra in prigione appena adolescente ne viene fuori  uomo fatto. Ma Kosal non ha mai ricevuto la cittadinanza americana: è un americano “non americano”. Appena uscito viene espatriato in Cambogia, dove non lo attende più nessuno: di fatto è un esule in terra straniera. “Mi ricordo che qualcuno una volta mi disse che per fare un solo ed unico sbaglio basta un secondo ma ci vorrà poi tutta la vita per correggerlo. Io sto ancora pagando per quello sbaglio”. In Cambogia nulla gli appartiene e deve inventarsi nuovamente la sua vita, esule e senzatetto fino al momento del riconoscimento della sua arte nel festival londinese. La vita sorprende sempre. Oggi Kiev continua a vivere in Cambogia e sogna ancora di poter ritornare negli Stati Uniti per riunirsi alla sua famiglia un giorno; nel frattempo il suo  lavoro artistico prosegue insieme ai suoi workshops di poesia con i ragazzi. “Io seguito ad andare avanti, sapete? “ e dalle pagine dei social network perdona perfino l’America, mentre la sua storia va avanti nel racconto, passando senza frontiere e senza sbarre.

Simonetta Met Sambiase

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aldona michievich -ala
aldona michievich

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