ISTANTANEE- Fernanda Ferraresso: A proposito di “Anonimie” di Massimo Pamio

andrei tarkovskij- foto di scena solaris

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L’uomo, misura di tutte le cose che non sono,
di tutte le assenze in sé cumulate, come di quelle
neanche immaginate. Precluse, tutte, all’interiorità
come all’esteriorità: escluse da ogni mondo, per amore

Massimo Pamio- Anonimie

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A volte, quando leggo un libro, soprattutto di poesia, capita una specie di miracolo. Non sempre, anzi, pochissime volte e in quel caso il mondo, il suo rumore odioso e indisponente, si fa solo un sordo rumore di fondo, che scorre via, e in silenzio posso entrare in quelle altre voci che, ad agio, vivono nelle pagine del libro come fossero luoghi, case dell’anima di cui posso trovare una chiave per entrare. E come me, anche gli altri. Necessario però è lo spaesamento, serve prima di ritrovarsi, e questo continuamente, perdersi nella selva oscura che è il mondo. Serve inter-rogarsi, come dire bruciarsi le ali, che crediamo siano i nostri pensieri, le nostre poliedriche apparenze vuote. Ferraglia. Non è quello che aiuta. Ogni stanza di quella casa si lascia attraversare, anche se non sempre penetrare, la sua voce o la storia che la abita è, in un capovolgimento, ciò che penetra me. Capita infatti che, magari a distanza di tempo, quando meno me lo aspetto, una immagine, o un suono, o un profumo,  mi viene a sottolineare un passo, là dove il mio sguardo non aveva visto, il mio orecchio sentito. Ed è come se lì dentro qualcuno fosse riuscito a esprimere tutto quanto anche io avrei voluto ma  senza riuscirci, senza sapere nemmeno il modo in cui avvicinarmi a quel mondo ora palese. E’ come se il linguaggio si costruisse con parametri acustici e visivi intrecciati, percepibili non dai sensi comuni, ma da una complessa intuizione che tutto il corpo vive. Istantanee le apparenze, con cui la vita si mostra, e il sogno di ognuno nel percepirla, si fondono insieme in un a visione unica, che ci consente di afferrarne l’intima sostanza. E ognuno ha la propria modalità. Questo è lo straordinario. Non è l’immagine che vive nel testo, a venire interpretata, poiché in quella ci sono così tanti legami con il mondo, ma anche con l’universo, l’infinito, anche quello che ognuno ha in sé, senza saperlo,  ma attraverso legami essenziali, propri dell’immagine stessa che se ne esce nuda, dove la realtà, senza simboli o metafore, mostra compatto il tessuto di invisibile e visibile, ciò che è il nostro vissuto  e il sogno che lo compenetra, mentre attraversiamo spazio e tempo, o il tempo che consumiamo e ci consuma per attraversare quello spazio. La bellezza fiorisce così perché non c’è stata censura, niente è stato dimenticato, omesso, o messo in un posto preciso o in disparte in un angolo. Tutto è, ed è là, dentro di noi e ora lo vediamo, lo sentiamo, lo viviamo.Ma è un attimo, anche se l’effetto è durevole.
Quando attraverso un testo, è come se attraversassi la carne della visione, non solo ciò che vedo, in un gioco di parole vedo la realtà reale di ciò che vedo, come se occhio e sguardo mostrassero il loro essere con-giunti.
E in questi testi di Massimo Pamio, si ha la possibilità di attraversare il varco che ci porta in quell’incontro, alla profondità dell’essere, dove tutti gli elementi delle nostre visioni convivono. La divisione, in cui ciascuno si sente scindere tra quotidiano e sogno, nello svolgersi del tempo, si fa dì-visione, giorno in cui si vede per intero, per es-teso.
Le nostre rovine sono passi di una lingua che ha abbandonato l’anima e ora, profondamente lei si disseta in una luce aperta, che ci ripulisce di quanto non ci permetteva di sentire, di vedere cosa sia immagine di sé, in una architettura che non ha limite poiché il materiale da costruzione si accresce dentro l’infinito dell’essere. Il sistema dei segni della scrittura forma il tempo ma l’acustica interna a quella stanza è l’insieme delle immagini tessute in un tempo che scorre, travalicando i confini di quell’architettura.
Se questo accade, e non è una cosa consueta, è come se il tempo, tutto il tempo, non il prima e il dopo, fosse intero nel suo scorrere fermo, nell’inquadratura dello specchio che ognuno è nel suo frammento. E’ come tuffarsi al centro di sé senza lasciare fuori nulla dell’esistere ma sentirsi, come tutto, il fulcro. Forse è questo che una poesia, come un’opera d’arte, riesce ad essere e dare: una dichiarazione d’amore e allo stesso tempo apre una relazione, la testi-monia, attraverso un atto di creazione che ospita anche la morte e così facendo ne apre le porte vitali.
Non c’è amore più grande di quello che è già / nelle cose, e che non si deve inventare”- scrive Pamio, come se ci fosse continuità, in una sola soluzione. 
C’è un respiro dovunque, e ogni visione del mondo è come una singola goccia che tutte le altre contiene, come se quella goccia fosse se stessa e tutto il mare insieme.
Queste Anonimie, di cui in molti hanno scritto, nell’antologia critica raccolta nella prima parte del libro di Pamio, non parla agli addetti ai lavori soltanto ma con-voca coloro i quali non si dispongono cercando di capire, o carpire qualcosa, ma accolgono l’ospite che si presenta, nella veste delle parole e mostrandosi si lascia respirare, addirittura mangiare, ingoiare, ingioiare come frutto dell’albero del tempo che continua a radicare.

Fernanda Ferraresso

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Testi tratti da Anonimie di Massimo Pamio

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CARTAVENTO(SA)
(2010–2011)

Cartavento(sa): la carta che al vento s’anima
e dovunque sfarfallando s’appiccica
per macchiarsi d’un segno

Teomantica del cantimbanco

I
Per opere ed azioni in commissioni,
in gesti, fatturati, espropriazioni,
di conquistare il mondo non pretesi,
né mai contesi scranni o ascesi vette:
mi fu distante terra come il cielo.
Smarriti pellegrini non soccorsi,
né lacrime asciugai di sofferenti
nell’ammonir potenti ebbi difetto.
Difese eressi in me: le rafforzai.
Omisi di onorar competizioni,
tornei scansai tenzoni e cerimonie,
né titoli comprai, né ricattai
per ricavar piaceri o pur ricchezza.
Ingegno non profusi in invenzioni,
bellezza nei musei non frequentai
nel fior di ville e adorni colossei.
Conoscere non volli fuor di me.
Sul volto or mondo marca ingeneroso
con la vecchiezza, i tratti del perdente.
Ma la mia vita – giuro – non è reale.
II
Al tempo dedicai ogni premura.
Collezionai clessidre, avendo cura
di rovesciarne il senso, la misura.
Dei giorni e delle notti consumai
nel diario del mio corpo l’inesatto
pulsare cacofonico del mondo
che leviga la colpa dell’esistere.
III
Il tempo che misuro con lentezza
l’impiego a sperperare in osterie
la gioia che m’è data con larghezza.
E nomi e volti affogo con destrezza
in coppe liberate dal liquore
nel cui ialino fondo ubriaco scorgo
la trama della sorte già spellata.
IV Teotopie
Più che in me stesso,
nell’insieme di quelli
che mi circondano,
io sono,
nella loro assenza,
come nella mia in loro.
Tutti quelli sono, meno me stesso.
V
Perduto, nel cercarmi
celo me stesso.
Sono assenza in me,
l’ultimo lume d’io
cui nulla è dato
prima d’annullarsi.
(…)
XIV
Non c’è nessuna maschera che possa
nascondermi a me stesso. Nessun vero
nessun reale che possano svelarmi.
Uomo!, mi chiamano, ma son quell’uno
che si volge, cui è stato posto un veto.
XV
Sono l’astratta coscienza dell’io
– lo scomodo testimone, l’insulto;
il caso è il mio padrone: lo servo;
appena desto la fronte mi segno
con lo stigma dell’interna bestemmia
dell’indecenza a cui sono votato,
perché reo: ma il mondo, che oscenità.
XVI
Io, giullare del mistero, demente
dell’ignoto reietto rifiutato
gettato già fin dal primo vagito
nel carcere del Tempo quale ostaggio
io – e se fossi Dio? Avvinto al nulla.
XVII
Io sono il buio, la luce ch’io sono.
Ma io non sono colui che cercò,
nel desiderare luce, l’oscuro?
Dunque io chi sono se non quel che Dio
inseguì vanamente avvinto al nulla?
(…)

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Cantonodo
I
Il continuo fibrillare del nulla
l’imperfezione del vuoto terrestre
con la cupa nostalgia delle cose
e negli angoli più remoti quelli
perfino quelli
che celano la finzione dell’io.
II
Per mode si definiscono, – presto
superate – gli uomini, che già cambiano
opinione di sé: il tempo
la storia personale e collettiva
modifica rimuove, d’esseri
creati per disfarsi – o per negarsi.
III Testimone
Le parole che furono e saranno
e il grido che le azzera:
gli uomini, nei quali è frode
ogni nodo ch’è stretto
all’enigma del mondo
che giammai liberano,
perché non è enigma.
IV
All’invisibile moto terrestre
devono il battito delle ali, il tendere
verso l’alto. Degli uccelli ripetono
il librarsi in aria, delle libellule
riprendono l’ardito star sospese.
Non sanno che s’alzano in loro e pulsano
come lucciole gli atomi del cielo
V
Perduti uomini e donne, velieri
dall’approdo incerto, quale mistero
annientano in loro, di quel che è slancio.
Nel seno della morte stanno ognora,
arrivo, partenza: inabili a stare.
VI
Non v’è coscienza di chiarire il vero
motivo per cui non sanno discernere
l’opra di quel che li trama e li annulla
– tutto è precluso della conoscenza –
per il moto perpetuo che li avvolge
e li immilla e li ordina ad uno ad uno
e li accorda al tempo in cui si richiudono
quasi sovrapposti Dio e creatura
sebbene incapaci di coincidere
in una sola forma, in un concetto.
VII
L’invidia nei confronti della vita
di cui i lembi gli scrittori sigillano
nel romanzo, il livore che gli artisti
consuma nel costringere bellezza
in una statua, l’odio per il tempo
che i poeti sfidano quando la zara
della parola ripetute volte
gettano per dare scacco all’eterno,
tutta qui, la storia del concupire
il comune vilipendio che gli uomini
perseguono del creato nascosti
dietro il vero, il sublime, camuffati
nodi dell’universale parzialità,
mai sicuri del loro limitato possedere.
(…)
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Grafomachia dell’egonico
(…)
IV
Quale diletto provai nel fantastico!
Cavalcai l’alato destriero
interpretai un messaggio d’Hermès,
indossai il peplo nel giorno sacro,
Enea accompagnai fin nell’Averno.
Per via del sogno l’uomo crede
il mondo, in madreperle
argentee riverberanti oltre il fiore
del crepuscolo, nel marino rantolo:
confutabili immagini
acquerellate febbri
su carta da bambù
– paesaggi catturati da una luce
che non proviene dal cielo, e imbavaglia.
Tutto, perché si vien contaminati
dal desiderio come nerofumo
per gli specchi. Vessato
dal pensiero, sebbene verità
sia compromesso, il disegno pretendo
più preciso, perciò ogni giorno vengo
a ritoccarvi: amati miei versi.
V
Il paese di nascita – orizzonte dello sguardo –
quello fu strappato per sempre
al bambino condannato a crescere
in un angolo diffidente
d’un esilio non voluto, né interpretato.
Il dolore senza nome resta scritto
in una domanda che s’incrina
nel pudore non risarcito
che volge in sostanza l’irreparabile.
VI
Ne fui come smembrato, al mondo cieco.
Divenni scostante, diffidente, fugai tenerezze
rifuggii carezze e tardive proposte di perdono.
Non fui perdente ma colui che sempre smarrisce
estraneo a ogni possesso e ambiente.
Fu il mondo un inquieto adattarsi:
a che, se mai resta.
(…)
XI Affatturato
A volte s’apre il mondo.
Non allo sguardo, o all’usciolare.
Di quando in quando,
a me che sordo e muto,
nel fondo dell’antro
dal primo dei giorni celato,
a me, le sue parole detta…
Poi, preme sul mio corpo
e lascia un segno nel risveglio.
XII
Sguardo che miri e mai riposi
consolazione chiedi ad una rosa
incarnata nella forma
di cui mai cede il segreto.
Sappi: tutto è astratto porgersi e sottrarsi,
e luce – che t’inganna o t’asseconda – reca nel mondo
contorni e colori
strappati ai capelli del nulla,
non il vero.
Sporto verso un oltre o un abisso,
gettato sulla battigia del visibile
tradisci quella sorgente benigna:
dell’ombra mia gendarme e simulacro.

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Indivinazioni (teologaritmia a controverbo)
I
L’Eterno, L’Onnisciente, Il Compiaciuto.
L’Innominabile, L’Onnipotente.
È lui che attendi. A disperati
spasmi dell’animo,
lo cerchi in ogni dove.
Fin quando – in un filo d’erba che oscilla
con superbia per aver resistito
allo strazio del vento,
lo trovi: il tuo Io.
II
Spalanco passaggi tra le cascate
imbocco porte di deserti governati da fiere
scavalco le propaggini dell’ultimo degli orizzonti
tremulo ferito spossato congelato
rilasciando dovunque l’impronta del passo
– nella speranza vana che possa decidere di cercarmi –
dietro le grate dell’inferno
dove, immobile, non sono che Lui.
(…)
IV
Sono sempre stato lì
nella landa che diviene deserto
dove ogni minuto è una battuta d’arresto del mondo
tra l’anima e il corpo
tra l’afferrare e il perdere.
Io, lo stilita.
V
Lo cerco dovunque
un piccolo vuoto o un gemito di vita cercano
affinché Egli sia – nascosto in ogni dove.
VI
Strappami le ossa dalla carne, denudami
dell’ultima resistenza, sbranami,
e la mia carcassa vendila al mercante più crudele
infierisci sul mio ricordo, calpestalo, ed infine
annullami, poi: ti prego, resuscitami.
VII
Prendimi, allargami gli orifizi
penetra nei solchi più nudi dell’essere
lascia sulle mani segni più indelebili delle stimmate
accendimi, svuotami d’ogni dove, d’ogni limite,
scannami dello spazio, e poi: finiscimi,
cerca di compiermi, di inscrivere meglio
le mie forme, fa di me tutta la significazione che puoi,
riprendi la creazione.
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Il Minotauro
IL MINOTAURO
Sono il contabile della misura che dall’infinita successione degli istanti ricavo, sono quell’intima regola calcolata al giusto e a spese di me stesso, a tutti segreta fuorché alla creatura che in- contrerò e che mi accetterà per quel che sono, l’amore nascosto del tempo, l’Attesa. In questa ognuno si perderà, perché non c’è distanza che regga, non c’è spazio che possa segnare un prima e un poi, tutto è dato all’infinito, nulla al limite. Non si può andare al di là, perché tutto è in me: io sono quel che libera l’u- niverso, io sono il custode del labirinto.
ARIANNA
Io non sono la creatura ch’Egli attende. Io sono il Nulla, sono ciò che lo nasconde, sono quella misura che lo rende così mo- struosamente lontano, inaccessibile. Io sono la legge, sono l’in- sieme delle forze da cui scaturisce l’universo, per sempre sarò trasportata presso di lui, ma nessuno mai mi troverà: io sono presso di Lui.
(…)

D’amore come d’altro
I
A metà strada tra oggetti pensati
e pensanti, le dita contrappongono
carezze a smarrimenti.
Nel pugno che le stringe
brucia la stimmata del mondo.
Mani
Quelle affusolate mani conformi
ad un pensare che il vero assimila
ad uno schiaffo,
indicando profili,
desiderando corpi
più d’ogni stella,
s’aggrapparono a speroni d’abisso
come ad attimi d’eterno,
se ci colgono adesso a tradimento
ché solo una piccola parte coprono,
del sudario del mondo:
ma di che cosa ci avvertono
dal moncone dell’ombra?
(…)
Se ti amassi
Se ti amassi, sarebbe poca cosa. Meglio sarebbe imparare
ad essere nell’aria che respiri –
e si consuma –
scorrere nelle vene del tuo sangue in cui
se ti amassi, sarebbe senza posa.
(…)
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NEL BOSCO
(2012-2013)

Il bosco è l’oggetto, il nostro palpitare.
Ci incamminiamo in un bosco, la nostra storia.
Ma siamo come persi, a un punto cieco,
o forse abbiamo smarrito la direzione, o sbagliato sentiero.
Fin dall’inizio. Da una parte l’uomo, dall’altra l’oggetto:
il destino. Ma il destino non dovrebbe essere l’identificarsi
con la cosa, piuttosto il moltiplicare se stessi, il tendere
verso il nostro sdoppiamento, verso una nostra trinità.

(…)
XXV
Se non fossimo mai partiti?
Affacciati sul non essere
– la vita è il nostro limite
ciò che dobbiamo restituire
per l’intrapresa del viaggio.
XXVI
Il viaggio, tentazione.
Debito contratto con quel che ci spinse a partire.
Così, ci allontaniamo gli uni dagli altri
nel tempo, nei gesti. Noi – la distanza.
XXVII
Noi, che storia astrusa e complessa
diveniamo del viaggio:
e distanza del racconto.
Per il debito versato alla memoria
o che la memoria addebita.
XXVIII
Il partire fu a muta a muta in un senso,
svelare nel viaggio
la volontà d’assegnare una qual forma
all’uomo. Al piacere d’appagarsi,
e al possesso, al dominio il consacrarsi,
se non fosse crastino ogni andare.
XXIX
Quel che diventiamo è falso.
Credenza o superstizione.
Tutto si rinchiude in noi,
senza mai aver visto luce.
XXX
È sempre fuor della nostra portata
la meta.
Perché non vogliamo riconoscere
di non esser mai partiti.
(…)
XXXIV
Noi siamo il viaggio
il bisogno d’una meta, il traguardo,
e l’oltre
aperto a nostra dismisura
verso tutto ciò che limita.
(…)
XLI
Da sempre in viaggio verso l’illimite
l’uno verso il molteplice
che s’apre alla conoscenza:
per essere contraddetto, negato.
Per giungere dove non c’è una fine,
al traguardo, all’arrivo, all’innumerabile.
(…)

NEL BOSCO, LA ROSA
(2013)

(…)
VII
In punta di piedi sono trascorsi
albe e tramonti, addossandosi
colori che non avevano,
VIII
L’uomo, misura di tutte le cose che non sono,
di tutte le assenze in sé cumulate, come di quelle
neanche immaginate. Precluse, tutte, all’interiorità
come all’esteriorità: escluse da ogni mondo, per amore
(…)

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NOTE SULL’AUTORE

Massimo Pamio, poeta e saggista, è direttore del Museo della Lettera d’Amore, museo unico al mondo che è ospitato nel Palazzo Valignani di Torrevecchia Teatina ed è direttore editoriale di Edizioni Mondo Nuovo. Cavaliere dell’Ordine “Al Merito della Repubblica Italiana”, per meriti culturali. Ha pubblicato in volume numerose opere: di poesia, Il nome della rosa (1987);Nell’appartamento confuso dei giorni (1999); Bucanotte (2008); Luceversa (2009); Amormorio (2010); di saggistica, Sensibili alle forme. Che cos’è l’arte (2019)e  diverse monografie su scrittori contemporanei: Lo statuto dei labirinti. Introduzione alla poesia di Domenico Cara (1987); Il filo lungo della parola. Contributi per una lettura di Vito Moretti (1991); Ritmi del lontano presente. Introduzione alla lettura dell’opera di Antonio Spagnuolo (1991); Parola etica. La poesia di Cesare Ruffato (1999). Ha curato numerose antologie letterarie: Un parco per i sogni, (antologia narrativa di scrittori sull’Abruzzo, 1997); Da Tyresia a Odysseus (L’itinerario poetico di Dante Marianacci, 1997); Saramago: un Nobel per il Portogallo (con Igino Creati, 1999). Suoi testi sono stati tradotti in francese e in inglese. Ha curato la regia del video I poeti, le città, il primo video girato in Abruzzo che mette a confronto un poeta con la propria città. Ha curato monografie d’arte, scritto migliaia di recensioni e di segnalazioni di libri, film, rappresentazioni teatrali, mostre d’arte e avvenimenti culturali su riviste nazionali («Tam Tam», «Dismisura», «Il Cavallo di Troia», «Inverso», «Hortus», «Oggi e Domani», «Punto d’Incontro», «Abruzzo Letterario», «Tracce», «Il Messaggero», «Il Tempo», ecc.) e internazionali («Don Quichotte» – Spagna, «2 plus 2» – Francia). Ha diretto la casa editrice Noubs di Chieti, ha diretto la Rivista Internazionale «Pandere». Ha promosso e organizzato la Corriera della Poesia, finalista al premio Telecom Bellezza, premiata da Umberto Eco a Milano. Organizza il premio Lettera d’amore a Torrevecchia Teatina. Ha ideato “Casa d’Autore” a Capestrano (Aquila), casa museo dove sono in mostra foto, testi, dipinti d’autore, che vuole offrire uno spazio di serenità e di riflessione, un nido per il pensiero e il cuore: tutti gli artisti o gli scienziati che vorranno usufruirne, potranno farlo, ospitati gratuitamente in cambio di un dono (una poesia, un racconto, un dipinto, una pagina delle loro ricerche) che sarà poi conservato nella casa.

Massimo Pamio-  Artistic Director MLA

http://www.museoletteradamore.it

Autore di “Sensibili alle forme. Che cos’è l’arte” (Mimesis, 2019) https://www.mimesisedizioni.it/libro/9788857554822

“Sentirsi sentire. Che cos’è il pensare” (Edizioni Mondo Nuovo, 2020)

https://www.edizionimondonuovo.com/catalogo/sentirsi-sentire/

“Padovani/Pamio” (Edizioni Mondo Nuovo, 2020)

https://www.edizionimondonuovo.com/collane/padovani-pamio/

“Cetera/Pamio” (Edizioni Mondo Nuovo, 2021)

https://www.edizionimondonuovo.com/collane/cetera-pamio-2/

“Bisandola/Pamio” (Edizioni Mondo Nuovo, 2022)

https://www.edizionimondonuovo.com/?s=bisandola

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Massimo Pamio, Anonimie (Poesie 2010-2020)- Edizioni Mondo Nuovo 2023

ALTRI RIFERIMENTI IN RETE

Una parte delle note di lettura della raccolta Anonimie di massimo Pamio è presente nel Corriere Nazionale di gennaio al link
https://www.corrierenazionale.net/2023/01/12/dal-13-gennaio-in-libreria-anonimie-poesie-2010-2020-di-massimo-pamio/?fbclid=IwAR1H8XhIDRRwF6h4rgkNByYLGKomtken1OxwUdd0jf84Y6i8MTdrxo5DvLc

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