andrè lhote
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Stavano tutte sedute da una parte
Stavano tutti seduti da una parte
In mezzo tre/quattro metri di spazio
Per prima si alzò una donna. In piedi apparve più magra e di aggiunti centimetri in altezza.
Si sgranchì le gambe e mosse le braccia come per battere le mani. In avanti e indietro eseguì gli stessi movimenti. Non fece un passo unico. Si spostava su dei passettini anche se i suoi piedi – o le scarpe che li contenevano – erano grandi.
Un’altra donna si alzò dal sedile e mosse le spalle in su e in giù. Si piegò in avanti e restò sospesa con le braccia morbide verso il suolo. Da lontano la si poteva scambiare per una bambina. Una bambina di indefinibile età.
Una terza si portò le mani in testa. Reggeva la propria testa come se il peso aumentasse agli schiocchi di un cronometro. A sua insaputa o no, le espressioni del suo viso oscillavano tra tante maschere. Una in particolare: quella che ride.
Fu la quarta donna a compiere un mezzo giro fuori dall’area su cui stavano sedute. Poi si fermò.
Un quinto corpo si mosse elasticamente e compì alcuni saltelli divaricando e chiudendo sincronicamente gambe e braccia.
Da quella parte a tre/quattro metri distante erano ancora seduti piuttosto immobilizzati.
Erano in osservazione o perduti nei loro pensieri? Stavano sempre piuttosto immobili e senza espressione. Uno di loro mosse una gamba e l’accavallò sull’altra. Non interagivano tra loro e non interagivano con l’altro gruppo. Parliamo di gruppo: due gruppi per la precisione o di persone trovatesi lì in quella specie di formazione per via del caso. Erano due situazioni speculari, ci chiediamo. Due facce di una stessa medaglia o due distinte unioni di persone perennemente divise dalla distanza, chiediamo ancora.
Quelli che stavano seduti rimanevano seduti.
Quelle che si erano mosse rimanevano in piedi.
Quelle che si erano mosse non parlavano, ma a tendere l’orecchio si udivano parole pronunciate tra quelle che erano sedute. Avevano, a quanto pare, voglia di raccontarsi qualcosa. E questo stavano facendo. Una di loro si ricordò una canzoncina che amava cantare alla figlia cullandola, e la cantò a voce bassa. Una strana sensazione pervase. Ritornare con il pensiero all’infanzia è sempre a doppio taglio. Una entità bifronte viene incontro e la realtà circostante si dissipa. Dopo: non si sa come ritornare all’età anagrafica. Si vedono alcune scene avvenute anni addietro con una tale nettezza da non poterle guardare per troppi secondi. Si sente tutto moltiplicato per ogni istante in cui il tempo è trascorso. Solo così ci sembra che in fondo qualcosa ci appartenga. E solo così ci sentiamo degli esseri a cui non è facile scappare dalla propria storia. La canzoncina era in apparenza molto semplice e ripetitiva, ma aveva il potere di sospendere qualcosa. Ricollegava verso una piccolezza da difendere, proteggere nella sua sacralità, cullava in altri mondi di cui pure restava una velata memoria. Mantenendo i toni bassi, altre voci accompagnavano il canto. Le voci distesero il tempo: il fracasso delle troppe cose da fare, i collegamenti frenetici tecnologici, le ansie di non esistere si diradavano.
Dalla parte distante tre/quattro metri si udiva un sibilo e a tratti il caratteristico suono di chi russa mentre dorme. Il canto aveva varcato la veglia conducendo qualcuno all’abbandono nel sonno. Altri avevano sul viso espressioni mutate come mutate erano le loro posture. I gesti, sia ancora rigidi, erano meno automatici. E qualcuno si guardava intorno in cerca di sguardi da incrociare.
Potrebbe essere una sala di attesa lo spazio in cui si trovano queste persone. Una sala riunioni. Una anticamera di qualcosa di altro. Una simbolica rappresentazione. Una scena che qualcuno/a avrebbe girato. Una proiezione. Un locale per attendere il treno. Uno dei tanti treni che si prendono per spostarsi dalle zone rurali a quelle urbane o viceversa. Un treno per andare lontano dal proprio cerchio o per farci ritorno. Un non-luogo. Una zona grigia in cui le iniziative potevano essere intraprese o represse. Come la voglia di cantare che era venuta fuori senza troppo pensarci. Se poi gli altri volevano stare per i fatti loro che ci stessero.
Le altre si erano animate e colorite; si raccontavano fatti della loro vita. Non acceleravano lo scandire delle parole, non si vergognavano dei loro panni. Si generò una vibrante energia e tutte potevano dire il loro pensiero. Anche trascinando le sillabe una a una, inceppandosi a ogni movimento della lingua, mostrando timidezza e timore avrebbero trovato il loro modo di comunicare. A tre/quattro metri di distanza erano in molti a restare seduti, solo qualcuno si alzava per muovere il corpo dalla sedia. E qualche gesto qua e là per ossigenarsi.
C’era chi scrutava oltre i tre/quattro metri in mezzo: volgendo lo sguardo verso loro che ora si scambiavano parole. Erano, probabilmente, increduli che le altre avessero da dirsi tante cose. Non si udiva parlare di automobili, di denaro, di chissà quali conquiste… si parlava di fili che stanno un po’ più dentro, in noi. Erano stupiti che le altre potessero tirare fuori argomenti tanto astratti. Chissà quale considerazione avessero per astratto. Un invisibile che ha un bel grande peso in ogni vivente. Un indefinibile sostanziale che plasma… O credevano che tutto ciò che non ha un legame evidente e scontato con la praticità del vivere sia da circoscrivere nella futilità. Tra uno stupore e un altro ci stavano più sentimenti – che non essendo indagati in modo accettabilmente neutro – sancivano giudizi. Stavano – i giudizi – ancora prima, nelle loro menti ufficiali, in forma di pregiudizi. Se li trascinavano come una zavorra mai più revisionata. Da quella parte circolavano strati di timori e una commistione di controversa sicurezza, prepotenza, bestialità, arroganza e paura. Non avevano il coraggio di compiere un gesto – o più gesti – per spezzare la freddezza della separazione. I loro atteggiamenti erano assimilabili a un copione già distribuito e di facile consultazione. Forse, e in alcuni di loro, si accendeva un desiderio di unione, ma non ci è dato sapere di quale unione si trattasse.
Dall’altra parte si udivano risate e pianti in una eco indivisibile e intima al pari della vita e della morte. Una di loro si alzò in piedi – poiché dal canto in avanti si erano tutte o quasi sedute – risolutamente superò lo spazio dei tre/quattro metri – e avvicinandosi a un uomo curvo e arroccato sul suo stesso corpo come un rampicante a un albero, lo invitò ad abitare lo spazio dei tre/quattro metri.
Un avvio.
Francesca Eleonora Capizzi