Claudio Pagelli e Papez – di Andrea Tarabbia

Catrin Arno – Capture d’écran

A lungo, quando io e Claudio ci incrociavamo – nelle sale o nel cortile della biblioteca dove entrambi abbiamo preparato gli esami universitari o per strada, a Saronno – ci siamo stretti la mano come due persone che si conoscono di nuovo a ogni incontro. Ci siamo, forse, studiati da lontano per anni, senza sospetto né malizia, ma come fanno coloro che sanno di avere qualcosa in comune eppure non hanno l’occasione o il coraggio di condividerla fino in fondo. Sapevo della sua attività di poeta, delle sue pubblicazioni e dei riconoscimenti che i suoi versi avevano ottenuto nel tempo, ma ci sono voluti anni perché tra di noi si stabilisse un vero contatto. Forse la colpa è mia: guardavo i poeti come figure separate, fluttuanti, custodi di un sapere che è fatto prima di tutto di un contatto privilegiato, fisico, quasi sessuale, con la lingua italiana; un contatto verso cui nutrivo un rispetto tale da farmi pensare alla loro attività come a qualcosa di sacro e intangibile. I poeti, quelli veri, sono pochi, e per varie ragioni: si dice che tutti scrivano o abbiano scritto almeno una poesia, ma nella maggioranza dei casi si tratta di componimenti dove ogni tanto chi scrive decide di andare a capo. Esiste una particolare alchimia tra la mano, la parola e il ritmo che fa di una serie di versi un componimento poetico: trovare questa alchimia è, appunto, di pochi. Perciò, quando intuivo di trovarmi di fronte a qualcuno che possiede questa formula – che non è magica, è artigianale – istintivamente mi ritraevo con una deferenza che mi sforzavo di non rendere palese. Questo è, più o meno, quello che per anni mi ha spinto a dare la mano a Claudio ogni volta come se fosse la prima volta. In tempi più recenti questo senso non voluto di distacco si è attenuato: ho conosciuto molti poeti, uno l’ho perso, di qualcun altro sono diventato amico. Sono arrivato persino a pensare che essere poeti in Italia sia una pazzia, qualcosa di anacronistico e meravigliosamente inattuale, e che la grandezza del far versi risieda proprio in questo atteggiamento di sfida alle regole del mercato e della letteratura. Continuo a nutrire ammirazione per i poeti, ma, almeno, adesso non sono più in difficoltà quando ne incontro uno. Così, quando Claudio mi ha chiamato per chiedermi una prefazione a questa sua nuova raccolta, ho pensato che in qualche modo si chiudesse un cerchio. Ci sono dei momenti, in Papez, di una bellezza folgorante. Non mi riferisco ai passi – che pure ci sono – dove la poesia scova nelle pagine più lontane del dizionario delle parole ricercate e le fa rifiorire, e nemmeno alle occasioni in cui la mano di Claudio mostra di essere capace di virtuosismi; mi riferisco ad alcune intuizioni di straordinaria potenza narrativa – sì, narrativa: ho letto due, tre volte i primi quattro versi de Il visionario, per esempio, prima di riuscire a staccarmi dall’immagine di quelle unghie sulle corde di una chitarra e portare a termine la lettura della poesia; allo stesso modo, «la fame più grande» che chiude Tempi moderni, o il cuore appena sfiorato ne Il pugile, o quell’incredibile «Invece» che apre La mosca bianca sono frammenti di grande poesia. Immaginate di iniziare dei versi, o una storia, con un «invece», immaginate di andare avanti a raccontare, come Claudio fa, senza dire mai chiaramente che cosa precede quell’«invece»: ecco, con una parola avete creato due mondi. Che si possa fare una narrazione attraverso i versi non è una cosa nuova nel mondo della poesia: da migliaia di anni, attraverso i versi, le persone raccontano storie o le ascoltano. Componimenti come quelli di Papez, che pure non sono poveri né di immagini né di ricerca formale, si inseriscono in questo solco e, pur non abbandonando il lirismo, ci dicono che con i versi si può non solo cantare il mondo, ma anche raccontarlo; si possono immaginare poesie-dialogo, e far sì che il lettore si immedesimi in un occhio che osserva una scena o in un orecchio che ascolta il racconto di un avvenimento dalle parole di chi l’ha vissuto. Buona parte di questi componimenti ha per protagonista un «io» che si rivolge a un «tu»: il poeta si siede di fronte a noi al tavolo di un bar e comincia a parlare, rievocando episodi della sua vita (o della vita di qualcun altro, non è importante) o raccontando storie. Ne viene il garbato ritratto di esistenze normali, che proprio per la loro normalità sono universali. Prendete la seconda sezione, Tempi moderni: c’è il mondo del lavoro descritto per come è, con le sue vergogne e le sue piccinerie; vi si parla di aumenti di stipendio, di mobili da ufficio, del procurarsi il pane: ma anche in questa rappresentazione della monotonia e la difficoltà del quotidiano ci sono una «faccia dritta come un ago nella luce», un «vampiro introverso», un universo «sbilenco». Ci sono immagini potenti, fulminanti, che dicono più di mille racconti. La poesia ha ragion d’essere se, come la letteratura in generale, non si separa dal mondo ma si pone come una chiave per capire il reale. Nella poesia intitolata La cena, che chiude l’omonima sezio12 ne, Claudio racconta di una cena in cui si parla di letteratura. I nomi che il suo interlocutore tira fuori sono i soliti: Dante, Montale. All’obiezione del poeta («i soliti noti le solite cose di sempre») l’interlocutore fa il nome di un altro grande, Pasolini, e con ironia sostiene che «la scuola ne ha fatti di passi avanti». Per Claudio, la formazione, l’educazione alla letteratura costituiscono un valore irrinunciabile: si può essere poeti solo se si conosce la poesia; di più: si può essere lettori – di prosa o poesia – se e solo se si ha coscienza del fatto che ciò che ci troviamo sotto gli occhi appartiene a una tradizioneme ne è per così dire una declinazione contemporanea. Non si può scrivere una poesia se non si conosce – e non si ama – il lavoro degli altri, dei vivi e dei morti. La scuola, che è il principale punto di incontro tra le persone, la tradizione e la lingua, dimentica troppo spesso l’esistenza dei vivi, e dunque non educa mai veramente alla poesia. La cena esiste per dirci che non è vero che la letteratura italiana è finita, che non è vero che non si può più scrivere e leggere niente perché tutto è già stato fatto, e che dopo i grandi nomi del nostro Novecento c’è ancora qualcuno che ha delle cose da dire. Le poesie di Papez sono il lavoro di un poeta che si è educato alla lettura e alla ricerca letteraria, e che, attraverso il proprio talento, è riuscito ad aggiungere la propria voce a quella dei vivi e dei morti.

Andrea Tarabbia- prefazione al testo

Catrin Arno
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Da PAPEZ di Claudio Pagelli
“la strega”
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milleuno milledue milletré
all’ombelico la mano destra
al cuore invece quella sinistra,
vedi la pancia che si gonfia
lievita come un panettone…
la ricetta è di quelle buone
se la paura t’afferra la gola
e il pensiero un poco s’annoda,
il tutto poi a buon mercato –
sono quella che paghi meno
fra Como Varese Milano
e il fiele che ancora sbavi
a fiotti larghi dalla bocca
io te lo cuocio per benino
e lo inghiotto al posto tuo…
è questa, vedi, la promessa
da buona strega di provincia,
e ti costa proprio nulla
poca roba, cinquanta l’ora,
ma vuoi mettere? la chimera
svaporata come merita,
e la tua mente libera
di sbagliare nuovamente…
*
“la volpe”
.
tutti ladri, fidati di me
che di queste cose me ne intendo,
trent’anni da venditore
a sputare sangue ad ogni latitudine –
fra i meridionali ma quelli bradi
di vent’anni fa, che poi sono buoni
se hai voglia di capire, di guardare da vicino…
e gli arricchiti, i parassiti della nuova economia
che non hanno mai saputo la fatica
nera della gavetta, della vita vera.
tutti ladri – diceva – in prima fila
pure il sottoscritto che ha fregato
gente d’ogni dove senza distinzione
d’età sesso o religione…
una volpe ignorante
che si infila come un inganno
fra i gorghi del tempo, un sorriso di burro
già sciolto al primo caldo…
*
“tempi moderni”
.
mi bruciano gli occhi ma va bene così
ho tradotto per ore dall’inglese all’italiano
un libretto per bambini – pochi fronzoli, zero sdruccioli –
e quattro soldi tipo rimborso spese
o giù di lì. il fatto è che giù di lì
si cade proprio in bocca ad un niente,
ad un nano-abisso che sadicamente mina l’autostima.
(traduttore o poeta che uno sia
o che pretenda da sé d’essere)
la pelle delle mani tirata e asciutta,
poche briciole di gloria attendono
l’incontro di una fame più grande.
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Catrin Arno
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“il ficus”
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è così – foglia a foglia –
che si muore, come il ficus
ridotto a mobilio d’ufficio
nell’aria bellicosa del condizionatore.
è così, allora, la tenera eclissi
delle cose, senza sangue che sprizza
ai lati della carne né divini fotogrammi
a predire abilmente –
(ah! l’occhio rosso dell’angelo alle tue spalle
che ti avverte dello schianto imminente…)
*
“flash”
.
vivo per miracolo, reduce da uno di quegli appuntamenti
di noia così imburrati nel consueto,
sapete – i lemmi lanciati con la cifrata astuzia
del venditore, i sorrisi da manuale, le strette argute
di chi la sa più lunga per vocazione –
una sorta di piccola volpe in carriera
in lotta per la sopravvivenza da campo…..
è stato un attimo, un fotogramma scucito
da una pellicola segreta in memoria,
nel bianco sterrato circondato
da tutto quell’oro, quel grano biondo
evaso persino al mio sguardo d’esordio,
l’autostrada lontana, nessun passante, nessuna casa
emersa nei dintorni, i finestrini della citroen aziendale
abbassati, le dita fra le spighe, e una specie di seta nell’aria
come il più dolce bavaglio alla bocca del mondo…
*
“la cena”
.
si parlava di letteratura, come spesso
accade quando alla cena di classe
si scopre di essere accanto ad uno
che ora la insegna di professione…
e allora via di Purgatorio e Paradiso,
di fonemi stilemi e canzoni, della veranda del crotto
dove si ripeteva la lezione,
dell’odore del lago e dei gerani, della Barbara
sempre brava, anche su Montale…
i soliti noti le solite cose di sempre – mi sfugge dalla bocca –
come se dopo Gli Ossi non si fosse scritto più niente..
no, guarda che ti sbagli, – dice quasi a consolarmi –
i miei alunni leggono pure Pasolini
sai, la scuola ne ha fatti di passi avanti…
.
*
“per la via”
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questa via sembra un fiume
dove scorre, acqua fitta, la vita…
ma i pesci sono meno soli,
nuotano a branchi per difesa
o per un amore che s’indovina
in quella danza di luce,
e non hanno, i pesci, certi sguardi
oscuri che paiono condanne,
lame silenziose nelle pupille
che fendono il vuoto, l’osso molle
dell’afa che strozza il respiro.
Catrin Arno
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RELATIVAMENTE ALL’AUTORE
Claudio Pagelli nasce a Como nel 1975.
Autore de “L’incerta specie” (LietoColle, 2005, prefazione di Manrico Murzi), “Le visioni del trifoglio” (Manni, 2007, prefazione di Fabiano Alborghetti),  “Ho mangiato il fiore dei pazzi” (Dialogo, 2008), l’e-book “Buchi Bianchi” (Clepsydra, 2010), “Papez”(L’Arcolaio, 2011, prefazione di Andrea Tarabbia).
Con opere di Emanuele Gregolin, Gianluigi Alberio e Massimo Monteleone pubblica inoltre  alcune plaquettes artistiche (PulcinoElefante, Osnago).
Premiato in numerosi concorsi letterari di interesse nazionale tra cui “Il Fiore”, “Antica Badia di San Savino”, “Città di Capannori”, “De Palchi Raiziss”, “Dialogo”, “Il Lago Verde”, “Tommaso Grossi”, “Ugo Foscolo”.
Sue poesie compaiono in cataloghi d’arte, riviste di settore e siti a tema.
Dal 2011 propone uno spettacolo teatrale basato sui testi di “Papez”, con i musicisti Luca Foglia e Matteo Goglio, la voce recitante di Simone Giarratana e la regista Chiara Tarabotti.
Dal 2004 presidente dell’Associazione Artistico Culturale Helianto, vive e lavora a Rovello Porro (CO).
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Claudio Pagelli, PAPEZ – L’arcolaio Editore

6 Comments

  1. Grazie della presentazione di questo autore, che non conoscevo affatto e mi ha fatto pensare, a volte anche voltare a cercare dove avevo lasciato la mi a orma.

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