campagne di bondeno e le valli del po
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Bondeno
La terra canta sotto la pioggia
la campagna è verde
i filari dei pioppi ad alto fusto
volteggiano con il vento.
Arrivano suoni lievi
echi di parole lontane
dai canali si riflette
il vagabondaggio delle nuvole
mie sorelle.
Semmai esistesse la solitudine
tra la piazza e i portici
io non la vedo
non si muore soli
nei paesi.
Campagna tra Mirandola e Finale Emilia
Il mio io incontra l’aurora
tra la medica e i fossati
dove la lepre salta indomita e libera.
Qualche astore si affaccia su un vecchio frassino
e la volpe esce dagli argini dei canali.
Barbabietola e frumento colorano i campi
dove si canta e si grida.
Qualche chiesa isolata chiede una preghiera
qualche casolare una visita
noi un saluto
una cura
un camino che fuma.
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Appennino reggiano
Terra del gufo e della poiana terra aspra
di zappa e di fatica
di castagni e miseria
mi donano la fine di un viaggio eterno tra strade e sentieri.
Mi incastro nel borgo come una pietra
e attendo la pace dei sogni
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Comacchio
Il vento sposta le lenzuola
dai balconi delle case
vengo a pulirmi le ossa
dalle scorie dell’inverno.
Qualche passante si specchia nei canali
Aprile ci sorride
con il sole alto e gli aironi in festa verso la laguna.
Qualche nuvola di fumo si alza
da comignoli rossastri
e porta via i pensieri
laggiù
al mare.
Terra, terra e animali, cieli abitati dalle nuvole, canali e verdi dei campi, delle rive del Po, acque delle paludi e delle golene delle valli di Comacchio e memorie sparse, sperse e disabitate dovunque. E’ stata una terra martoriata dal terremoto, quello del 2012, ma anche da alluvioni e abbandoni che hanno portato devastazione tra gli abitanti della Bassa. La chiamano così e intendono un’ area piatta, di natura argillosa della Pianura Padana, dove i campi e le paludi dipingono i limiti con il cielo, quando lo si vede, gli affluenti del Po e dove un lungo catalogo di aziende agricole popola e presenzia il territorio tra le pendici dell’Appennino reggiano e le Valli di Comacchio. Sono terre letteralmente assediate dalla fumàna, una nebbia così fitta che la si potrebbe tagliare e si ripete e dilunga in tantissimi giorni, come l’unico racconto favoloso di tanti tanti giorni dell’anno. Lo so bene perché per molti anni le ho attraversate, quelle terre, quando insegnavo ai confini della provincia di Rovigo, e quando avevo le ore buche, cioè intervalli anche di ore, o riunioni pomeridiane dopo le lezioni del mattino, andavo a scoprire quei luoghi, assolutamente carichi di fascino, non solo di memorie di fatiche e patimenti.
Bondeno, le valli di Comacchio, le terre lungo il Po andando verso il mare. Qui l’autore le nomina tutte, attraverso i tanti paesi che porta scritti in sé, come tracciati di un suo prezioso tempo incancellabile. Faeto, Valle, Selva, Fellicarolo, Fanno, Fiorano, Granarolo, Miceno, Montagnana, Montardone, e tanti tanti altri, addirittura a volte espatriando per comune, o memoria di elementi che conserva tra questi e altri territori lontani, del Messico per esempio. Ogni paese con la sua memoria luminosa, precisa la sua legatura con la natura dei luoghi. Ma il vento, come luogo dei luoghi che qui sono il tema portante, è il ponte che tragitta i ricordi, sparsi nel tempo e nello spazio geografico.
Vento
La furia di viverti
è la calma dei boschi incendiati
pronti a rinascere.
Io ti aspetto
nella stanza dei tigli
sull’erba
tra le foglie c’è il nostro futuro
ricordi?
Io, te
daremo luce al giorno
a chi ha scelto d’esserci accanto
a chi si è allontanato
a chi avrebbe voluto.
Ritrovarti ogni volta è un sussulto
come gli alberi
a primavera
un paese nuovo da visitare.
Anche dove non esiste il titolo del testo un vento interiore rifiorisce immagini nitide di luoghi che sono comunque incisi nella memoria di Ispani, sono ciò che l’autore ha visto e sono i ritratti che ha in sé, sono il suo visus, il viso profondo che lo declina e/o delinea tra il tempo e le geografie amate.
In Senza titolo 3 infatti il verbo vedere, in un indicativo passato prossimo, ho visto, come se il tempo e il luogo che tratteggia non fosse assolutamente lontano, remoto, riporta:
Ho visto un pezzo di terra
un metro per un metro ho chiuso gli occhi.
Ho visto un frassino
poi un altro
poi un’altalena
una bimba ridere e volare sempre più in alto.
Ho visto una casa
una famiglia
il pane spezzarsi
diviso
con chi non ne aveva.
Ho visto la terra
brulla
rinverdire
diventare campo
di erba alta
poi di frumento
bambini rincorrersi e giocare
contadini lavorare
la sera
rientrare nelle case
a raccontare la giornata
più un mazzo di carte e risate a unire tutti.
Ho visto sacrifici e sudore
il coraggio di andare avanti
di guardare avanti
oltre il campo e le case
le lacrime e i sorrisi rubati in silenzio
lontano da tutto.
E similmente al vento riporta memorie, che sono comuni a molte terre del pianeta, quella strana geografia poetica in cui non sono rimarginate le memorie tragiche che hanno sbranato territori e popoli.
Geografia Poetica
A te che sei paese
nelle terre esuli
dove l’anima vuota dei vecchi comanda
le leggi della Terra ribaltate
la vergogna ha il trigemino infiammato
i coglioni sono di cristallo
a te disinibita bandiera che arde.
A te, il plutonio
l’uranio impoverito
il tumore adolescente
le facce gonfie per le cariche
spezzano schiene, caschi e diritti
a te, il palazzo dorato
gronda sangue per lo sdegno.
A te la cricca del potere
buttare briciole sulle solite teste pidocchiose
fai ridere
piangere
fai dimenticare di essere te
se non le catene del sistema che tendi sublime
al tubo catodico come un flauto magico
di sconosciuta canzone
la rivoluzione.
E’ un viaggio, quello che Ispani traduce in segni del paesaggio, attraversato e illuminato sempre con una luce netta, in un intaglio preciso, che sale dalla profondità della memoria, sia quando sono territori fisici sia quando sono paesi dell’anima e l’uno nell’altro confluiscono, come quelle acque dei canali e delle valli che qui sono un popolo di presenze animate e vivissime.
Fernanda Ferraresso
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luoghi di memoria abbandonati- campagna emiliana
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Abitare il silenzio
Tra il silenzio e noi due
c’é una fessura
ogni tanto ci vado
entro
ritrovo brandelli d’anima
e piccoli pezzi d’infinito.
Ho imparato con il tempo
a prenderne uno
stringerlo al cuore
e il pensiero vola a te.
Allora faccio così:
come un abete solitario
su un monte
mi metto fuori da tutto e aspetto.
Se me ne andassi sarebbe troppo facile
se rimanessi nella fessura mi farei troppo male.
Aspetto di trovare un centro
abitarlo
diventare primavera
quando l’assiolo inizia a cantare
e il vento mi scompiglia i capelli
so che posso andare via.
Torno ogni tanto
senza fare rumore
unisco il mio respiro al tuo
e tutto tace.
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Appennino 1942
La giumenta scalcia
noi nascosti nei covoni tra i conigli
gli occhi sbarrati.
Fuori gli uomini ridono e scherzano
le pacche sulle spalle
raffiche impetuose
nessuno rientra.
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Appennino 1958
Non sentiamo più
in fabbrica
il rumore del frumento al vento
né il chiasso dei contadini nei campi
o la corsa scoppiettante dei bambini.
Diteci, riuscite ancora a respirare
l’odore dei pini?
Le castagne si sono fatte anche quest’anno?
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Autunno nella Bassa
La nebbia non mi fa scrivere
toglie contorno alle parole
se non vedo i campi
unico latrato di giovinezza
la mano muore
come un mozzicone.
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Hanno ucciso la città
Coltellata in pieno petto
l’ultima fabbrica chiusa
sgomberate case dove la miseria fa pena
non possono mangiare dignità
naufraghi, poveri e stranieri
non c’è spazio per i sogni.
Non l’hanno uccisa i soldi sputtanati
i quartieri altolocati
le piazze vuote
le proteste silenziose
i vagabondi cacciati
gli artisti multati.
Il web controllato
le tastiere bollenti.
Nemmeno i negozi chiusi
I fallimenti
I pignoramenti
I mutui e i macchinoni
I tramonti inquinati
I terreni contaminati
I palazzoni potenti che schiacciano le bettole.
Le promesse in televisione
i referendum mancati
la globalizzazione.
Forse la città l’ho uccisa io
ho scritto qualche parola
su un foglio di carta
che andrà a crepare
come l’informazione
la libertà di espressione.
I ricordi delle lotte
per i diritti e la liberazione.
Hanno ucciso la città te l’avevo detto
mentre allo specchio ti truccavi
e cercavi il mascara
quello viola
senza ascoltarmi e senza vedermi
come questi pochi versi e i miei pensieri.
Ho tastato il polso, l’hanno uccisa
una bara d’eternit e amianto
tutte le puttane erano lì a salutare
con i fazzoletti in mano e neanche un cassonetto.
Ora io scrivo di getto e mi spiego il rigetto
di un domani retrogusto catatonico
un futuro senza uno straccio di progetto apolide, regresso.
Coinvolto nell’ascesso autostradale della complanare
attendo un tramonto atomico che culli ombre di luce.
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luoghi di memoria abbandonati- campagna emiliana
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NOTE SULL’AUTORE
Luca Ispani (Modena, 1979) Dal 2014 al 2015 ricopre il ruolo di vice-presidente presso l’associazione culturale “i poetineranti”. Collabora con il collettivo di poesia nazionale “Bibbia d’Asfalto” dal 2014 al 2016. Da qualche mese segue il progetto “Grunge- art” che è la creazione di un vero e proprio spettacolo basato su testi performanti, musica e arte visiva riconducibili al movimento “grunge” dei primi anni ’90. Parecchi suoi testi sono stati tradotti negli Stati uniti, in Messico e in Australia.
Nel 2019 pubblica “Il rumore dei passi” con la ’Round Midnight Edizioni.
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Luca Ispani, Abitare il silenzio– round midnight edizioni 2022