flor garduño
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Infanzia, vocazione, morte e immortalità. In un Bildungsroman grottesco eppure malinconico, Le crepe del Paradiso – Eclissi di un’infanzia, Moretti & Vitali 2021, Roberto Caracci racconta un periodo cruciale della vita di un impeccabile chierichetto, Alessio, un bambino dal visetto candido e santo, addirittura somigliante a un Papa Pacelli fanciullo, stando al giudizio della perpetua di don Luciano. Siamo negli anni tra il 1962 e il 1968. Votato e vocato ai doveri scolastici e alle messe, alle comunioni, ai fioretti, alle storie edificanti, alla via crucis, alle estreme unzioni, alle veglie funebri, ai funerali e all’ascolto di omelie logorroiche, Alessio vive un tempo ibrido che non è più quello dell’infanzia dei suoi coetanei ma non è ancora il tempo adulto del prete, dei genitori, delle persone mature che gli hanno trasmesso un’educazione cattolica non proprio rigida ma certamente accomodante e consolatoria nella promessa dell’immortalità, oltre che reticente sui concetti di perdita, lutto, morte e putrefazione.
L’immortalità paradisiaca subisce una prima crepa alla morte del coetaneo Inghilterra, la prima morte tra le tante teatralmente descritte: una copia di bambino su cui si imprime il bacio dei compagni di classe raggelato da una pelle ormai fredda, marmorea e livida; un simulacro pietrificato d’infanzia violata, se nell’infanzia c’è l’illusione che la morte sia ancora lontanissima.
Tra profumo d’incenso a promessa della futura sublimazione e fetore di piedi (di don Luciano) a riprova della decomposizione già in atto, della proliferazione di funghi e batteri e della competizione cattiva tra macro- e microrganismi (in morte tua vita mea!), il ragazzino comincerà a essere sempre più ossessionato dalla morte. Alessio la osserva nella fine di un suicida, presagisce la mortalità dei suoi stessi genitori attraverso la morte dei nonni, la contempla nello specchio che riflette il corpo inerte del nonno materno Salvatore e, prima ancora, la studia nella salma della nonna paterna Arsenia, che apre crepe nel mito di un padre forte e invulnerabile, scosso da singhiozzi lenti e discontinui. Alessio immagina la messinscena della sua stessa morte, il suo corpicino adagiato in una bara tra cuscini di seta e raso e trasportato in un’elegantissima limousine nera, oppure sperimenta la morte e la anatomizza nelle stragi e vivisezioni di mosche e moscerini, nel delirio di onnipotenza dei pomeriggi estivi, in cui “la morte ero io, la giustizia e il destino prudevano nelle mie goffe piccole mani (…), gigante in mutandine, dispensatore di vita e di morte” (p. 138). Tutto è passato in rassegna, in una meticolosa autopsia: il vivere, il morire come mutamento di stato e l’essere morti come “sonno di pietra”.
Alessio assorbe come una spugna i discorsi che don Luciano fa sulla vocazione, sulla resurrezione, su Dio che lo vuole sacerdote e si aspetta tanto da lui, su Gesù che vigila e protegge il piccolo e precoce ministro ed è il suo migliore amico, ma queste arringhe, più che depositarsi in lui, lo attraversano e si lasciano a loro volta attraversare come le onde in tempesta sferzano un piroscafo. Che continua il suo viaggio, tentando di non perdere la rotta o cercandone una nuova ancora tutta da scoprire, un piroscafo che si ribella alle maree e alle correnti che vorrebbero dirottarlo. E il battello c’è, in questo romanzo, in cui c’è un prologo, un epilogo e alcuni corsivi tra un capitolo e l’altro: un piroscafo è infatti il protagonista di questi contrappunti tra l’onirico, l’allegorico e il visionario, vere prose d’arte che fanno da controcanto all’estrema scorrevolezza e piacevolezza dei capitoli in cui prevalgono l’affabulazione (esilarante e insieme profonda) e la drammatizzazione (tragica, comica o umoristica) della morte altrui, in cui il morto è portato in scena dai vivi nonostante la sua volontà, con allestimenti che spesso non avrebbe condiviso, in situazioni al crocevia tra Pirandello e De Filippo, in interni di case napoletane dove a volte è il terremoto che ha aperto crepe più o meno superficiali non solo nei paradisi immaginari, ma anche nell’intonaco o nella struttura profonda dei muri.
Tutti muoiono, dunque. Le antenate e gli antenati che Alessio non ha fatto in tempo a conoscere, e che devono liberare i loculi per fare spazio ai morti più recenti, una volta che le ossa siano pulite (dai lombrichi).
Le volpi, la cui asettica, igienica immortalità è un bluff che si chiama tassidermia; lo zio Tonino che pretende la cremazione per diventare purissima cenere, e non l’avrà, perché zia Nanella rifiuta di farlo arrostire come una porchetta.
L’essere amati dai genitori, l’essere stati voluti al mondo non contiene in sé la garanzia dell’immortalità. L’essere stati protetti con la menzogna di un paradiso non è un risarcimento. Nell’illusione di un’eternità edenica si aprono crepe continue, e queste crepe fanno affiorare nell’infanzia l’infandum e il nefandum, il non detto e il non dicibile. La morte, il nulla dell’oltre: “la temevano tutti, l’avevo capito, e per questo non ne parlavano. Forse perché non riuscivano a immaginarsela (…) Come un ladro nella notte, aveva detto Gesù da qualche parte (…). Era più brutta o più vigliacca? (…). Non ci pensavano, ma la temevano. Nel momento stesso in cui non ci pensavano, aiutati dalla certezza di non poterla immaginare, gli adulti la temevano. Non pensarci e temerla era la stessa cosa” (pp. 159-61).
Le crepe del Paradiso che Alessio a poco a poco cartografa tutte le volte che la morte irrompe nel quotidiano con il suo carico di assurda, ordinaria normalità, queste crepe sono una trama, sono un linguaggio cifrato, sono la ragnatela che Alessio compone sul mondo, sono la riscrittura di un bambino che non fa più scarabocchi, ma comincia a decifrare il mondo a modo suo e a scrivere da sé la propria vita.
Questa è l’infanzia di Alessio: un palinsesto rispetto a una vocazione decisa da altri. L’atto di chiamarsi da solo. Una decodifica e ricodifica dell’esistenza. Cadono le illusioni, cadono le reti protettive, ma si scopre il diritto e il dovere di scegliere, la possibilità e la potenza di scegliere chi essere. E ogni scelta è un atto autobiografico, nel senso dello scrivere da sé la propria vita, scartando le possibilità previste dalla regìa di altri.
Ma scegliere, autodeterminarsi, crescere non è necessariamente un atto netto, una cesura che accantona per sempre l’infanzia, è un processo in divenire non sempre lineare, con arretramenti e ripensamenti. Persino per don Luciano la vita è un palinsesto, perché vorrà a un certo punto riscrivere la propria vita in un altro modo, “spretandosi”. Spogliandosi dell’abito sacerdotale per sposarsi, l’ambiguo (o cattivo) maestro lascia il chierichetto senza guide autorevoli e credibili, né il padre naturale né il padre putativo che ha barattato la truffa dell’immortalità per qualche briciola d’amore terreno. Questo è il giudizio di Alessio (più disincantato del parroco stesso) di fronte alla menzogna della vocazione, poiché “nessuna parola poteva dire il vero se chi le aveva pronunciate non rimaneva accanto a me, vivo e presente (…) perché tutti i piccoli padri mentono, pur amandoti, mentono nell’amore, e per farlo usano parole da catechismo o da omelia, prima di abbandonarti” (p. 322). Don Luciano delude Alessio così come lo stesso don Luciano era stato deluso da Papa Giovanni XXIII durante un fatidico incontro, trovando in lui tante umanissime meschinità invece che santità.
In questo itinerario di formazione tra vita e morte, in questo viaggio tra case dei parenti, chiese e cimiteri, non manca una catabasi, più omerica che virgiliana o dantesca. Non è il vivo che scende tra i morti (come in Virgilio e in Dante) ma è una morta che riaffiora al mondo dei vivi: Immacolata, la nonna di Alessio, rievocata da una memoria necromantica, è pian piano ringiovanita dalla fantasia sciamanica del nipotino, fino ad alzarsi dalla sedia a rotelle, fino a recuperare il suo ancheggiare alla Sofia Loren e i suoi splendidi capelli rossi. Sarà lei a raccontare al nipote l’altra dimensione, quella della morte, senza però risolverne il mistero: nonna Immacolata, un po’ creatura immaginaria di un bambino garrulo che tiene conferenze davanti allo specchio. Un po’ Sibilla un po’ Beatrice, ma, dicevo, soprattutto Musa omerica nello spazio ineffabile dell’infinito, simile a un orizzonte o a “un oceano interamente bianco, di un bianco uniforme (…) pericolosamente inclinato (…) come una colossale muraglia liquida, liscia e verticale. Mi accorsi solo dopo un minuto che avevo davanti ai miei occhi un’immensa pagina bianca, senza righe, dove la schiuma delle onde pareva aver disegnato la parola Qualcuno… Simultaneamente udii una voce di bambino che sillabava Qual-cu-no. Sul foglio vasto come la superficie dell’oceano cominciarono a defilarsi altre parole, un’intera frase, ancora ribadita dalla voce chiara del bambino” (pp. 205-206). Quel bambino che sarà lo scrittore consapevole del fatto che l’infanzia non è un’età dell’oro ma è un processo lungo quanto l’intero nostro viaggio tra alfa e omega, tra il principio della fine e la fine del principio. Egli sa così attingere alle domande ineffabili per costruire il suo racconto, per tracciare la rotta alla “sgangherata barca” dell’anima sua.
Claudia Mazzilli
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NOTA SULL’AUTORE
ROBERTO CARACCI narratore e saggista, vive e insegna a Milano. Ha pubblicato volumi di narrativa – L’ingorgo, (Rebellato, 1984), Le radici del silenzio, (Ati, 2007) – e con Moretti&Vitali il saggio di critica poetica Epifanie del quotidiano: Veli e bagliori nella poesia italiana contemporanea (2010). Quindi, per lo stesso editore, il saggio Il Ruggito del Grillo. Cronaca semiseria del comico tribuno (2013); lo studio filosofico Le maschere del senso. Come inganniamo il tempo, la morte, lo stupore di esistere (2016) e il romanzo La cella della dea (2018). Ha inoltre pubblicato nel 2020 il romanzo Preludi&Deliri (Pentagora editore). Si occupa di filosofia e psicoanalisi. Ha tenuto conferenze sulla narratologia del sogno e sul pensiero moderno, da Bergson a Nietzsche, da Freud a Severino. Dirige dal 1992 il Salotto Caracci, cenacolo letterario-filosofico a Milano. Il romanzo Le crepe del paradiso ha ricevuto riconoscimenti in numerosi concorsi letterari (segnalazione Premio Letterario Franco Loi di Grottammare, 2022; Premio Letterario Internazionale città di Sarzana 2022; Premio Giuria Narrativa Le Grazie – Baia dell’Arte, Porto Venere 2022).
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Roberto Caracci, Le crepe del paradiso. Eclissi di un’infanzia– Moretti&Vitali 2021