IL PARADOSSO DELLA MODA – Adriana Ferrarini – Note di lettura da “La sfilata come opera d’arte” di Claudio Calò

viktor&rolf – haute couture-russian doll- autumn/winter 1999

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MISE EN ABYME

«La modernità è il transitorio, il fuggitivo, il contingente la metà dell’arte, di cui l’altra metà è l’eterno e l’immutabile. Vi è stata una modernità per ogni lettore antico». (Baudelaire)

«Possiamo quindi tracciare uno schema e dire che: uno stesso abito è indecente dieci anni prima del suo tempo; audace un anno prima del suo tempo; chic (che seduce oggi) nel presente; goffo cinque anni dopo il suo tempo; divertente trent’anni dopo il suo tempo; romantico cent’anni dopo il suo tempo; bellissimo centocinquant’anni dopo il suo tempo». (James Laver, Vogue 1959)

«Look è “sguardo”, innanzitutto, prima di essere “stile, aspetto, modo di presentarsi”. Questo significato adottato dalla Moda, che ruota intorno alla nozione di apparenza […], dipende da quello principale di “guardare” e di “sguardo”. In tale doppiezza fra vedere ed essere visti, apparire e scrutare l’apparenza altrui, sta evidentemente il cuore della cosa». (U. Volli)

Citazioni di citazioni. Tutte prese dal Capitolo Primo. Abiti mentali del saggio di Claudio Calò, La sfilata di moda come opera d’arte, un piccolo libro prezioso perché attraversato da uno sguardo acuto sul mondo della moda, tanto da attirare l’interesse anche su un fenomeno, la sfilata, che sembra riservato solo agli addetti di questo mondo sfavillante e per molti inconsistente, ma ha invece la struggente bellezza di tutto ciò che dura solo un istante. Citazioni di citazioni, dicevo. Non è un caso. Perché la moda è questo, lo è sempre di più: in una sfilata epocale, quella SS 91 di Gianni Versace (il numero 91 sta per l’anno della sfilata, l’acronimo SS per la collezione Primavera/Estate, FW per quella Autunno/Inverno), Naomi Campbell sfilò con un vestito da sera che portava stampati ritratti di Marylin Monroe e James Dean nella versione seriale di Andy Warhol. Si tratta, dice l’autore del saggio, di una mise en abyme a tre livelli: il falso nel falso nel falso.

Mise en abyme è un’espressione di origine araldica che significa la ripetizione di una stessa figura riprodotta più di una volta, sempre più rimpicciolita, all’interno di se stessa, come nelle scatole cinesi: una perfetta descrizione della moda. Non solo, anche della vertigine del contemporaneo, di cui la moda è la quintessenza.

LA PARODIA DELLA MODA

Come genitivo soggettivo, vuole dire che la moda è una parodia, una presa in giro. Come genitivo oggettivo, è la moda stessa che diventa oggetto di parodia.

L’artista americana Cindy Sherman ha lavorato a lungo con case e riviste di moda, producendo una parodia della moda perché le sue modelle erano gracili e malaticce, depresse e con capelli in disordine. L’artista affermò di essere «disgustata da come le persone cerchino di rendersi belle; sono molto più affascinata dall’altra parte… cercavo di prendermi gioco della moda».

La moda oggi è una mise en abyme parodistica di sé. (Vedi la tuta da ginnastica taglia extralarge indossata con i tacchi a spillo).

IL GRAN TEATRO DELLA MODA

Le sfilate sono spettacoli teatrali senza possibilità di replica, afferma Antonio Marras stilista, costumista, artista di grande e raffinata inventiva. Un unicum, insomma, che avviene in un solo luogo della terra, in un momento preciso, per solo pochi eletti. Irripetibile.

«La sfilata è il palcoscenico dove il mio mondo vive. Come i personaggi nello spazio teatrale. Sono pochi minuti di vita, ma una fitta trama lega inviti, titoli, allestimenti, testi, musiche in un gioco sottile di rimandi e corrispondenze. Si tratta di uno spettacolo che però non concede repliche né possibilità di rifacimenti». (A. Marras)

E quali sono i temi, le fonti di ispirazione di una sfilata (segue che, come cascame, di una collezione di moda, quindi di quello che dovrebbe imporsi come nuovo stile tra le strade e i luoghi di ritrova indossato da giovani soprattutto. Sentiamo cosa racconta un giovane e affermato stilista di origine turca che vive a Milano:

«Parto da una storia, uno script, un personaggio che mi interessa. Faccio collezioni sui personaggi, persone della mia vita o che incontro nei miei road trip. Come nella collezione Art By night FW 13: mi ha affascinato la storia di questi ragazzi che facevano arte in modo illegale; c’è una certa tensione nel realizzare i graffiti di notte. Alla sfilata ho portato prostitute, travestiti, skater, ho creato l’entrata di un club per strada… Ho incontrato un cinquantenne interessante a Milano, una persona con una famiglia, e ho creato un mio film su di lui: lavora in una banca di giorno, poi mette i bambini a dormire, saluta la moglie, esce, mette il passamontagna e parte per la sua seconda vita». (Umit Benan).

Come dire: ciò che viene dalla strada, passa in passerella, torna alla strada. Sei polvere e polvere tornerai: c’è un senso biblico nella moda?

Memorabile per la sua teatralità la sfilata SS 99 di Alexander McQueen, il compianto stilista inglese, l’enfant terrible della moda, il più visionario, il più profetico, il più fantastico. In chiusura della sfilata, quando dovrebbe fare la sua comparsa un abito da sposa, a suggellare quasi la sacralità mondana del rito della sfilata, McQueen portò in scena una modella che installata sopra una piattaforma rotante sul palco iniziò a girare su sé stessa come la ballerina di un carillon, mentre due braccia robotiche semoventi le spruzzavano pittura gialla e nera addosso al voluminoso abito bianco senza spalle fermato da una cintura.

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LA MANNEQUIN

La parola mannequin deriva dal fiammingo mainikin, bambole di legno per artisti, che diedero il nome a quelle bambole di Francia (chiamate dai veneziani Piavole de Franza) di cera e fil di ferro che nel 1700 facevano conoscere ovunque la moda  francese di corte; divennero poi manichini da vetrina, quindi le mannequin vivante della Haute Couture, per diventare infine le supermodelle degli anni 80.

Ne hanno rievocato l’origine in una sfilata Viktor & Rolf, irriverente e iconoclasta coppia di stilisti olandesi che nel 1996 per esprimere la loro frustrazione nei confronti dei ritmi e dei modi dell’industria di cui i due designer fanno parte, invece di mettere in scena una sfilata, realizzarono unicamente dei poster da inviare ai giornalisti a mo’ di invito e da affiggere sui muri di Parigi con la scritta “VIKTOR & ROLF ON STRIKE” in sciopero. Nient’altro: nessuna collezione, nessuna sfilata

Nella sfilata FW 99 portarono invece in scena una modella con indosso un semplice vestitino corto in iuta che in un quarto d’ora venne rivestita di nove strati successivi di abbigliamento fino a trasformarsi in una imponente bambola di dimensioni umane.

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LA PERVERSIONE DELLA MODA

«Amo l’idea che la moda sia tutta concentrata sull’istante, a cui segue l’estremo opposto, la sua destituzione […] Quel tipo di dedizione, devozione, ossessione per ciò che ti appare così straordinario che devi averlo immediatamente. Per poi dire la stagione successiva: “non lo indosserei neanche morto”. Amo la perversione che c’è in questo». (Marc Jacobs, stilista del marchio omonimo e prima direttore creativo di Louis Vuitton).

«Dopo che l’ultima modella ha fatto il suo passaggio sulla scena di legno grezzo, quello che principio sembrava un pennacchio di fumo si è materializzato nell’ologramma di Kate Moss, il suo vestito una cascata di volants bianchi. L’apparizione in forma di fantasma si è librata ipnoticamente in aria per diversi minuti, avviluppandosi in una brezza virtuale, per poi sparire, profeticamente in un unico punto di luce». Alix Browne, in Runaway, The Spectacle of Fashion parla della sfilata McQueen FW 06 che si chiuse con un ologramma della famosa modella, visionaria prefigurazione di un mondo in cui non ci sarebbero più stati corpi sulla passerella e nemmeno più abiti. In pochi attimi si assisteva alla creazione e alla dissoluzione di un’immagine eterea, dalla bellezza drammatica perché inconsistente.

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Profetico se si pensa che, secondo quanto riporta Vogue Italia, il mercato globale delle skin, gli abiti virtuali acquistati nel modo dei gaming per gli avatar, vale 40 miliardi di dollari l’anno.

«Non si è più sicuri se si faccia veramente parte del mondo o sia un sogno, né se potrà durare. Mai fu detta cosa più sincera sulla moda in una sfilata», così commenta Claudio Calò, l’autore del saggio.

Adriana Ferrarini

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NOTA SULL’AUTORE

Claudio Calò nasce a Milano nel 1975. Si laurea in semiotica della pittura all’Università Cattolica. Si occupa di comunicazione di moda con incarichi presso Ralph Lauren a Ginevra ed Emilio Pucci a Firenze. Quindi assume la direzione globale della comunicazione del gruppo Armani a Milano. Oggi è consulente strategico per alcuni marchi come Umit Benan e insegna comunicazione presso i master di Fashion Promotion, Communication & Media e Fashion & Luxury Brand Management dell’Istituto Marangoni di Firenze. Ha collaborato con «Lampoon» e «Vogue Italia». Per Einaudi ha pubblicato La sfilata di moda come opera d’arte (2022).

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Claudio Calò, La sfilata come opera d’arte- Einaudi Editore 2022

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Riferimenti in rete: https://www.viktor-rolf.com/collection/haute-couture-russian-doll-autumn-winter-1999

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