URSULA LE GUIN ALLA 59. BIENNALE – Adriana Ferrarini: Il Romanzo è una Borsa della Spesa.

ruth awasa

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Parto dalla 59. Biennale per parlare di narrazione. In una saletta dell’Arsenale sono in mostra tanti piccoli oggetti che hanno l’aspetto di uova o bozzoli e dal soffitto pendono lunghe sculture in rete, simili a radiolari, che luci e ombre raddoppiano vertiginosamente. “Una rete una borsa una tracolla una bisaccia una bottiglia una pentola una scatola un contenitore” recita il lungo titolo di questa sezione ispirata al saggio “The carrier bag of fiction” (1986): qui Ursula Le Guin, la grande scrittrice americana di fantascienza, espone la sua idea di romanzo.  La carrier bag è una sporta, qualcosa di umile, fatto per contenere la spesa, alimenti e generi di prima necessità, un oggetto vile che richiama alla mente le incombenze quotidiane affidate alle donne, domestiche o casalinghe che siano. Accostarla al romanzo – e non solo, in quanto  questa teoria si può estendere ad altre forme narrative, anzi travalica proprio la rigida divisione tra generi letterari – è già di per sé un atto rivoluzionario: opera un ribaltamento rispetto a una visione della letteratura come attività intellettuale, cioè alta, cioè, alla fin fine, maschile.

Borse e borsette, ceste e cestini, sacchi e sacchetti, vasi e vasetti, gerle e zaini, bag e handbag; al braccio, al collo, sulla schiena, a marsupio: le donne hanno sempre saputo come portarsi appresso il loro mondo, i figli e tutto quello che serviva per vivere, e hanno sempre saputo come fabbricarsi contenitori lavorando di intreccio e tessendo trame e relazioni. Questa attitudine, semplice e naturale, legata alla fisiologia del corpo femminile, ha finito per passare inosservata, lasciando il posto a una cultura fondata sulla caccia e sul conflitto. Così secondo tutti i manuali di preistoria i primi manufatti umani sarebbero chopper e amigdale, cioè, più o meno affilati, strumenti da caccia. Ma, sostiene U. Le Guin, non è stata la caccia, e in particolare la caccia ai grandi animali, quanto la capacità di raccogliere e conservare che ha consentito agli umani di sopravvivere. Quindi appunto i contenitori di vario tipo e forme che sono stati creati.

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maria bartuszová

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Sul piano narrativo una cultura originata e elaborata dall’uso di oggetti lunghi e duri – frecce e lance – per attaccare, colpire e uccidere, ha come suo corrispettivo la centralità dell’Eroe (con la maiuscola, mi raccomando!). L’eroe, l’azione, il conflitto. La preoccupazione centrale di ogni scrittore di romanzi deve essere quindi quella di inscenare un conflitto.

“Questa però – afferma Le Guin – è solo una delle molteplici possibilità che il romanzo permette: la forma naturale, corretta e calzante del romanzo potrebbe essere quella di un sacco, di una borsa. Un libro contiene parole. Le parole tengono le cose. Portano significati. Un romanzo è un pacco di medicine, che tiene le cose in una relazione particolare e potente l’una con l’altra e con noi.

Una relazione tra gli elementi del romanzo può benissimo essere quella del conflitto, ma la riduzione della narrativa al conflitto è assurda. (Ho letto un manuale su come scrivere che diceva: “Una storia dovrebbe essere vista come una battaglia” e parlava di strategie, attacchi, vittoria, ecc.) Conflitto, competizione, stress, lotta, ecc., all’interno la narrazione concepita come borsa della spesa/pancia/scatola/casa/fascio di medicinali, possono essere visti come elementi necessari di un tutto che di per sé non può essere caratterizzato né come conflitto né come armonia, poiché il suo scopo non è né risoluzione né stasi, ma processo continuo”.

È illuminante pensare alla scrittura come a una rete gettata in mare che, oltre a orate, rombi, sgombri, e quant’altri pesci si voglia, insieme alle plastiche raccoglie anche chiome di sirena e alghe e chimere, e tra tutto questo cerca i legami, i significati nascosti. Niente va scartato, solo messo da parte per essere poi investigato nelle sue possibilità di entrare in relazione con gli altri esseri e i nostri bisogni: ogni cosa finita nella rete ci può aiutare a sopravvivere e illuminare sull’oscurità del mondo in cui ci muoviamo. Come nella pesca miracolosa del Vangelo, gettando la rete, anche dopo molti tentativi infruttuosi, qualcosa verrà a galla. Un gesto arrischiato, una rete gettata nel vuoto e nel buio: sì la scrittura è questo, e insieme, un paziente lavoro di investigazione e deduzione, simile a quello di uno scienziato.

Una delle funzioni essenziali della fantascienza per me è proprio questa modalità di porre domande: il contrario del modo usuale in cui pensiamo, metafore per qualcosa che il nostro linguaggio non sa ancora denominare, esperimenti immaginativi”

Non c’è dunque nessuna narrazione premeditata, non c’è un corpo già formato da rivestire di nuovi abiti, un meccanismo in cui tutto è legato da una salda coerenza e ogni cosa deve spiegarsi e tenersi dall’inizio alla fine senza alcuna ambiguità inestricabile; si tratta invece di costruire un mondo nuovo con tutte le ambiguità e le cose sfuggevoli e spesso incomprensibili di quello in cui viviamo. Scrivere è affondare nel caos e tornare a galla. Le narrazioni di Le Guin sono immaginazioni dominate da un “se” originario: la scrittrice parte da un’ipotesi per verificarne le possibili conseguenze. Per esempio, nel racconto ”Quelli che si allontanano da Omelas”, così potente che basterebbe da solo a consacrarla grandissima autrice, l’ipotesi è la seguente: “Se la felicità di un’intera comunità dipendesse da un solo essere condannato a una vita infelice, cosa accadrebbe?”. Cosa ne sarebbe dei colori pastello delle case carine che aprono il racconto, della leggera letizia di chi le abita, della “Festa dell’estate” che sta per cominciare?

Non c’è una risposta già pronta, univoca. Ci sono quelli che sanno e accettano di continuare a vivere nelle loro belle casette e quelli che invece non sopportano una vita gravata da questa consapevolezza e se ne vanno. Non sanno dove, hanno sicuramente una bisaccia tracolla, vagano alla ricerca di un luogo diverso. Ricerca: un sacchetto della spesa non è mai la soluzione, è solo l’inizio di una ricerca.

Adriana Ferrarini

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Nota alle immagini

1-I cesti con le loro forme sinuose da organismi naturali aquatici, e ripetitive come la struttura del DNA sono opera dell’artista giapponese/americana Ruth Awasa che utilizzando il filo di ferro ha introdotto luce, movimento e leggerezza in un’arte, la scultura, per tradizione rigida e monumentale.

2-Le strane uova contenute una nell’altra sono state invece create dall’artista slovacca Maria Bartuszová:  le sue forme organiche in gesso bianco ricordano gocce di pioggia, semi, uova e comunicano un’aria di fragilità e incompiutezza..

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Ursula K.  Le Guin, I sogni si spiegano da soli. Immaginazione, utopia, femminismo, a cura di Vittoria Raimo – SUR Edizioni 2022,

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