daisy james
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L’ambiente della famiglia ha sempre – enfatizzo e confermo il sempre – le proprie lacune, le estenuanti mancanze di elasticità e determina molta sofferenza in tutti i componenti che fanno parte – in qualsiasi maniera ne facciano parte – della famiglia. Situazioni piccole, e facilmente risolvibili in altri contesti, in famiglia assumono carattere patologico. Ci si ritrova in famiglia per non ritrovarsi. Si avverte il tormento di appartenere e di dovere faticare tanto per non farne parte.
Qui parleremo – per quanto ci riguarda familiarmente – di situazioni ancora controllabili e non di violenza indiscriminata. Non si esce comunque e mai dalla doppia spirale della violenza: anche nei casi considerati di natura domestica e, per l’appunto, familiare. Ci si familiarizza con le forme di violenza fin dall’infanzia e si prosegue così nella vita familiare.
È credibile che non si trovino possibilità per cambiare qualcosa? Le possibilità ci sono. Non ci sono i risultati. Questo causa un dolore che consuma. Uno stato di allerta abbastanza diffuso. La famiglia ripete le imperfezioni, le carenze e le terribili grossolanità che ci abitano.
Una mia compagna di liceo mi raccontava tutto questo parlandomi della propria famiglia. Lei soffriva tremendamente perché la madre era una persona di imprendibile considerazione. La madre aveva desiderato fare l’attrice per guadagnarsi da vivere. E in più, o in meno, voleva fare l’attrice per guadagnarsi la voglia di vivere. Non sapeva lei stessa chi fosse, non conosceva il limite di una conversazione con le figlie e i figli, ignorava ancora di chi le viveva dentro. Tutto questo le causava dei cambiamenti e quella imprendibilità accennata prima. Tragicità, baldoria, stati febbrili di energia, momenti di depressione… si inseguivano senza previsione. Soprattutto una forte tragicità – connaturata probabilmente alle sue origini e ai propri e proprie antenate – minacciava abbondantemente la forma di dialogo che ci si accingeva a intavolare.
Era la madre il vero problema, si chiedeva la mia compagna di liceo. Cosa ne possiamo sapere di quello che la madre provava e pensava chiusa nel suo bozzolo, le dissi a guisa di spiegazione fin troppo aperta. Ma lei immediatamente impostò una voce metallica per dirmi che una madre deve, pure e sempre, fare la madre. La risposta mi raggiunse come se avesse oltrepassato gli strati della pelle ferendola con tagli brucianti. Essendo anche io madre, come ogni essere umano figlia.
Le raccontai di Medea. Raccontare di Medea è travalicare le convenzioni; fare ritorno a quelle stesse convinzioni che fissano l’agire umano in determinati comportamenti, lasciando non catalogato tutto ciò che non viene alla luce. Un ruolo. La madre è rinchiudersi in un elenco di elementi dai quali dipendono corrispondenti aspettative? Le dissi che nel mito di Medea l’innocenza non può restare tale in una società consolidata nell’inganno, nel potere, nell’assassinio, nel patriarcato. Lo stesso Euripide nella scrittura di questa tragedia non trattiene la vibrante sospesa domanda su tutta quella parte che sta prima e dopo l’agire. Una serie di lutti si susseguono per intervento di Medea, ma essi sono la risultante di una vera e propria reazione a catena da imputare a un contesto più ampio. Un processo operante per sottrazione in cui l’amore filiale è indagato e patito fino all’assenza dei corpi amati. La rinuncia è estrema: mettere fine a un amore terreno; la rinuncia di amare i propri figli durante la vita per salvaguardarli, uccidendoli, da mali peggiori della morte. La tortura di doversi improvvisare matricida. Il peso terribile di dovere decidere per la loro vita e farlo da madre.
Forse, e io lo crederei, vi è una versione dello stesso mito in cui Medea non uccide i figli avuti con Giasone, ma la colpa le viene addossata per coprire la colpevolezza dello stesso Stato.
La mia compagna di liceo voleva stigmatizzare alcuni comportamenti materni. Parlammo ancora di Medea e delle nostre rispettive madri. Sostenevo di avere voluto, già nell’infanzia, fare a meno di mia madre. In generale avrei preferito fare a meno di entrambi i miei genitori.
Constatarne l’impossibilità, e ammettere che non me li posso cavare da dentro è il mio atto di giustizia. Non occupano piedistalli, non precipitano in bolge infernali, non rimangono indifferenti quasi in nessun ricordo. I miei genitori mi assomigliano a macroscopiche cellule dalle quali io ho invano cercato di staccarmi con brutalità. Allo stesso tempo, avendo vissuto lontana da loro per tutti questi anni; non avendo partecipato al loro ingresso nell’oltretomba, mi sovvengono come due persone che io stessa ho costruito – e decostruito – quasi mai contestualizzando i miei stessi pensieri e ricordi su di loro.
L’infanzia, scriveva Marguerite Duras, è come la guerra. L’infanzia si subisce.
Ai figli di Medea, di chiunque sia stata la responsabilità, è stata tolta la possibilità di incorrere in altro destino…
La mia compagna si fece severa nell’espressione dei suoi occhi. Mi spiegò che una madre deve custodire la vita del proprio figlio e della propria figlia anche nelle situazioni più disarmanti e contrarie perfino alla sopravvivenza. Una madre deve esserci sempre. Per lei figlia, è indispensabile che la madre la accolga perennemente, incondizionatamente. Invece sua madre, continuava a ripetermi, non era coerente e disattendeva alcuni comportamenti. Ancora, e alla sua età, voleva fare l’attrice. È semplicemente ridicolo conservare e nutrire un desiderio simile, sentenziò rossa in faccia. Perché? le chiesi, senza avere avuto il tempo di pensare di chiederglielo. E lei non mi rispose. Ci guardammo. Nessuna aveva più voglia di spiegare: raccontare della propria famiglia, parlare della madre divenuta una specie di capro espiatorio, mettere in discussione i propri riferimenti, confrontarsi con il sottosuolo, il non-detto.
Scoppiammo in una risata e piangemmo per le nostre madri.
Francesca Eleonora Capizzi
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