marina gonzàlez eme- poetry illustration
.
Quando nominiamo delle differenze, in qualunque ambito umano, inevitabile pensiero è quello che ce le fa individuare all’interno di una gerarchizzazione dei
sistemi culturali che ci sono più familiari. Che siano destra o sinistra, bianco o nero, maschio o femmina, siamo inesorabilmente portati a organizzare le differenze,
secondo un processo di semplificazione che in parte è ereditato inconsciamente, in parte scelto.
Per una ermeneutica delle differenze, in qualunque contesto, sociale, politico, antropologico, vale la pena sempre affermare che il bisogno di vederci chiaro, di fare distinguo, è una esigenza apprezzabile ma provvisoria, poiché ciò che segna la nostra capacità di fare analisi è il contesto storico e culturale in cui siamo immersi, volenti o nolenti, con quella capacità soggettiva ma anche collettiva, inestricabilmente connessa.
Viviamo, infatti, di interdipendenze, di eredità culturali, di bisogni provvisori, dettati dai fatti della vita, anche più immediata, poiché ogni fenomeno, macro e micro, ha sempre una risonanza, un rispecchiamento e anche quando la nostra o altrui narrazione dovesse sembrare in modo plausibile anarchica, sarebbe generata pur
sempre da un preciso contesto, anche a noi poco noto o poco chiaro, ma comunque condizionante.
Il mondo della vita è certo complicato ed implica le donne di ogni cultura ed epoca. Ma a guardar bene da sempre, anche nel racconto mitico della Creazione, nei
racconti della Genesi e di altre tradizioni religiose, la lettura troppo letterale del testo potrebbe condurre fuori strada. Potremmo perciò scoprire che il primo uomo significa la prima creatura umana e che ogni volta che si è parlato di pensiero umano, però, spesso si è data voce al pensiero dell’uomo, in quanto maschio. E per avere conferma di ciò basterebbe pensare alle prime conquiste sul piano giuridico e culturale dei diritti raggiunte formalmente nell’Occidente, in modo più sensibile, nel corso del ‘900.
La gerarchia dei sessi, insomma, si è spartita spesso un diverso ambito di potere, presentandosi come una gerarchia delle riproduzioni. “La riproduzione biologica, che deriva dal potere di vita delle donne, è necessaria ma non basta per fabbricare esseri capaci di perpetuare la cosa più importante, quella veramente destinata a trascendere il ricambio delle generazioni, ossia la cultura, l’ordinamento collettivo, il sistema di codici e regole che istituiscono l’umanità al di là della nuda vita. Ne consegue la manifesta subordinazione della riproduzione biologica alla riproduzione culturale, la quale attiene a coloro che hanno il potere di dare la vita, ma
cui spetta il compito di preservare l’integrità della esistenza collettiva” scrive il filosofo Marcel Gauchet nel saggio La fine del dominio maschile, Milano, Vita e
Pensiero, 2019.
Il punto è che stiamo navigando a vista e in questo regno di mezzo in cui tutto esiste e coesiste, assistiamo alle incertezze dei maschi riguardo al proprio simbolico identitario e attendiamo il sorgere di una nuova autorità femminile, empatica e capace di prossimità materna ma ancora tutta da delineare quanto alla sua modalità di attuazione, anche istituzionale. Nella trama accidentata e imperfetta delle tante coppie umane, che sembrano stare in cammino nella storia, ci chiediamo quanto tempo occorrerà perché la narrazione degli eventi collettivi sia frutto della voce autorevole anche delle donne, e quanto gli ultimi prototipi di rappresentanti istituzionali pluripotenti, capaci anche di decisioni terribili, come muovere guerre e seminare terrore, saranno messi in discussione dallo sguardo di comprensione e compassione di chi è loro più vicino, donne in prima linea, ma anche donne che prendono parola e decidono le sorti della collettività. Quante donne disobbedienti come Eva, trasgrediranno l’ordine costituito del patriarcato più retrivo e più subdolo, senza colpevolizzazioni false o strumentali. L’asimmetria del potere è visibile ovunque. Il sistema moltiplica il disprezzo verso chi è in qualche modo un po’; diverso, sia sul versante etnico sia sul versante di genere, come osserva Cristina Simonelli nel testo Eva, la Prima Donna, edito da il Mulino, 2021. La stessa teologa scrive in un tempo non sospetto, prima dei fatti ormai conclamati tra Russia e Ucraina, a proposito di “inganno moltiplicato” che consiste nel far passare il disordine globale per ordine divino, convincendo le vittime che possono accettare o di essere semplicemente colpevoli o di riconoscersi in una condizione talmente infraumana da trovarsi in uno stato di completa ma alla fine infantile innocenza. Conclude il ragionamento precisando che entrambi gli esiti sono deleteri perché camuffano una operazione mistificante della povertà o della femminilità.
È necessario, dunque, più che mai oggi, trasgredire al conformismo e al populismo e rischiare di vivere il momento storico così drammatico, quale stiamo
vivendo, senza ottimismo o vittimismo esagerato, ma esperendo ogni azione creativa all’interno delle relazioni pubbliche e private, in politica come in ogni ambito della vita attiva, per cambiare davvero l’ordine mondiale del nostro immaginario comune.
Solo rinunciando alla retorica della crisi della virilità a causa della trasgressione dei modelli tradizionali da parte delle donne, riusciremo a trovare le risorse necessarie per ricontestualizzare la collocazione nelle relazioni della propria sessualità. Anche perché qualsiasi retorica non è mai neutrale se vuole ripristinare un sistema gerarchico di relazione tra i sessi. In tempi in cui non è più di moda l’elogio della obbedienza e della passività va forse meglio praticato l’esercizio della libertà e della liberazione. E tutto questo considerando come struttura di giustizia sociale sia gli spazi della legge sia quelli della sua trasgressione. In questo senso, precisa la Simonelli, bisogna attivare un sistema di discernimento collettivo nel sistema o+è (sociale, politico, religioso, di genere) che consenta di portare a luce “ciò che vita non è. E in questo senso Eva ha ancora molto da dire.
Maria Grazia Palazzo