pacifico e i luoghi nella memoria
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Servendosi di un’agenda di qualche anno prima cui modificò i giorni della settimana, Pacifico tenne un diario che va da gennaio a giugno del 1944. Venne ritrovato anch’esso nel localino che era stato il suo regno. Tramanda ai posteri le situazioni che lui e famiglia vissero mentre erano “sfollati”. Disarmanti nella loro schiettezza, le sue parole ci svelano l’orrore della guerra; e meno male che abbia sentito il bisogno di scriverle, perché hanno aiutato chi ha potuto leggerle ad avere una percezione più esatta della guerra stessa e dell’imbecillità umana che sempre ne è alla base. Le annotazioni rivelano i limiti linguistici e culturali dell’autore, che non gli hanno affatto impedito di rendere l’idea del terrore con cui si doveva convivere in quel periodo. Ricorrente è il tema della paura. E come poteva non esserlo visto che, incessantemente, il territorio era sorvolato da aerei da caccia e bombardieri, violato da bengala e mitragliate, maciullato da bombe, calpestato da automezzi e colonne militari? “Mi trovavo a vangare l’orto, cinque minuti dopo apparivano molti caccia nemici, appena sopra a noi sganciavano due bombe sullo stabilimento e una decina sulle case, io mi sono coricato dentro il fosso, il terreno sussultava ad ogni bomba che cadeva, ho avuto molta paura”. “Questa sera ancora non era buio che il solito aeroplano notturno eccolo a ronzare sopra di noi, andato via questo poco dopo un altro e forse più di uno hanno continuato a ronzare fino a dopo le una, questo tipo di aeroplani per noi è un vero terrore, non si dorme mai, sgancia bombe a spezzoni e a casaccio”. “Questa mattina alle sei e trenta io per andarmi a nascondere cadevo e mi sono fatto male al ginocchio e al dito mignolo sinistro, gli aeroplani sono passati molto bassi, senza allarme, all’improvviso, ci hanno messo tanta paura”. “La notte passata abbiamo avuto molta paura perché hanno bussato alla porta e quella di sopra l’hanno aperta”. “Questa mattina grande bombardamento, cacciabombardieri mitragliavano e bombardavano qui intorno, ci trovavamo nella vigna quando improvvisamente da est sbucano parecchi cacciabombardieri, dappertutto mitragliavano e sganciavano bombe a casaccio, subito dopo altre formazioni mitragliavano e bombardavano i dintorni di San Binati bruciando più di trenta camion, gli incendi si vedevano da qui, oggi abbiamo avuto tutti molta paura”. Ci furono giorni in cui l’allarme non era udibile a causa del forte vento; mentre una notte, del tutto esausti, Pacifico e i suoi dormirono così profondamente da non sentirlo; nel mese di maggio arrivò ad essere dato per ben trecento-quattordici volte.
Alle note che descrivono devastazioni e terrore fanno da contrappunto quelle concernenti attività e preoccupazioni quotidiane. Nello stesso giorno in cui “due formazioni di bombardieri e parecchi aerei da caccia si combattono in cielo scambiandosi scariche di mitraglia”, Pacifico va “a macchia a fare un fascione di legna secca”. Armato di zappa aiuta un vicino a “mettere centocinquanta buche di patate”; mentre in una frazione vicina, “due bombe sono cadute in mezzo ai campi facendo delle buche profonde circa sette metri”. Quando l’acqua non arriva ormai da giorni, nel molino dove alloggiano viene a mancare pure la luce; e Pacifico ha un’ulteriore preoccupazione vedendo “tanta roba e bella ma se non piove si secca tutto, la maggior parte delle fave sono secche”. Avendo “macinato kg. 123,360 di grano”, considera che la farina dovrà bastargli “per pane e pasta per aprile maggio e giugno per cinque persone”; invece un conoscente muore in seguito a quella che definisce colica, “lasciando nella miseria la moglie e i quattro figli”; al contempo, mentre i burini sopravvivono di stenti, la signorotta del luogo può permettersi di chiedere a Pacifico di imbiancare una stanza del casolare dove si trasferirà, perché in villa si sono istallati i tedeschi.
“Hanno bombardato e mitragliato facendo morti e feriti tutti civili”. “Hanno sganciato tre bombe centrando una scuola e causando la morte a parecchi ragazzi”. Pacifico scrisse anche: “Se si riesce a sopravvivere a questa guerra non si muore più”. Tutti i membri della sua famiglia nucleare uscirono vivi dal conflitto; anche il figlio militare che, come il fidanzato della figlia, tornò dopo una lunga prigionia. Invece, la sorella di Pacifico perse il marito travolto da un camion tedesco; qualche mese dopo, una bomba le scoperchiò il tetto di casa e danneggiò piante di olivo e pergolato; subito accorso per aiutarla, il tenero Pacifico registra anche che “il piantoncello lì all’angolo non si è ritrovato”. Per la sorella di Mestizia il saldo della guerra è ancor più devastante. Il marito conduceva un carrettino a mano vuoto, in compagnia di tre figlie e di una conoscente. Mitragliati, morirono sul colpo la conoscente, lui e la figlia minore. La mezzana riportò ferite lievi, alla figlia maggiore amputarono la gamba sopra al ginocchio. Essendo il ponte danneggiato e dovendo fare un lungo percorso alternativo, mentre i caccia non smettevano di girare, candidamente Pacifico scrive di non aver avuto il coraggio di andare a trovare le nipoti ferite; pietosamente, invece, Mestizia va in ospedale a fare assistenza a quella cui hanno amputato la giovinezza. L’ironia della sorte ha voluto che il nome proprio della ragazza fosse un derivato della propaganda fascista e della retorica del patriottismo, un nome evocante deliri di conquiste e vittorie: la giovane si chiamava Italia, e come l’Italia si ritrovò devastata nel corpo e nell’anima. Fu come se avessero mitragliato il cervello stesso della sorella di Mestizia: divenne una persona stramba che per strada parlava da sola a voce alta, proclamando frasi sconnesse, dando l’impressione di star litigando con qualcuno. Non divenne furiosa, sebbene imbarazzante era la sua presenza. Ridotta a pelle ed ossa, il naso aquilino mise più in evidenza le voragini in cui si erano trasformati i suoi occhi. Mestizia se ne prese cura, sapeva calmarla, come potette l’aiutò sempre; ma gli anni che sua sorella dovette ancora vivere furono pieni di follia e stenti.
La palpitante apprensione per le sorti della sua donna quando non l’aveva a fianco, è il sentimento più emozionante trasmessoci dal diario; seguendo lo svolgersi di una battaglia particolarmente cruenta, Pacifico trema di paura per Mestizia che si è recata al cimitero; di lì a due settimane alcune bombe esploderanno proprio a ridosso del camposanto, danneggiando il tetto dell’abitazione del becchino e facendo cadere lapidi, mentre tre schegge saranno rinvenute accanto alla tomba dei loro figlioli. Qualche tempo dopo essersi istallati nel molino da olio, la stanza sovrastante la loro venne occupata da nove tedeschi. Pacifico e Mestizia non riuscirono a vederli come militari alleati prima e nemici dopo. Per loro furono solo poveri diavoli di stranieri con cui si comportarono come avrebbero voluto si comportassero quanti entravano in contatto con il figlio e il fidanzato della figlia, poveri diavoli di stranieri in Africa. Per uno dei tedeschi in particolare, l’empatia solidificò immediatamente assumendo la forma di un’artistica amicizia. Quando venne ferito, tutta la famiglia fu in apprensione, poi si prese cura di lui. Minuscole e inestimabili furono le attenzioni che si scambiarono. Quando i tedeschi si ritirarono, Verner consegnò a Mestizia, che chiamava mamma, una coperta di cotone lavorata all’uncinetto; nel suo parodistico italiano le chiese di riandare a lui con il pensiero ogni volta che gli occhi le si fossero posati sul bianco copriletto. A dispetto della gravità della situazione, l’autrice del presente brano ha sorriso leggendo tra le righe di alcune innocue osservazioni di Pacifico; ad esempio: “ha parlato il papa ma nessuno lo ascolta”; mentre la ripetizione della stessa frase le ha dato l’idea della sorpresa che ha colto quanti vedevano i “negri” per la prima volta. E se ci sono “tanti negri in giro” significa che la guerra è finita, così come la prima parte di questa novella.
Loretta Emiri– Brano tratto da QUANDO LE AMAZZONI DIVENTANO NONNE
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