IL SEGRETO DI NOREA- Selene Ballerini

stephanie pearl

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Viridiana
Eppure, credimi, vivere in quella semplicità assoluta, senza porsi vere domande ma solo seguendo i propri impulsi o più spesso i precetti altrui, aveva un qualche fascino, un suo rilassante incanto. Anche adesso, dopo sette decenni della mia nuova identità, riemerge talvolta la coscienza di prima, la strana emozione di un antro spoglio, nudo, bloccato nel tempo come una pianta che cresce troppo lenta per coglierne i ritmi.
Tuttavia, e tu lo sai meglio di chiunque altro, già alitava in me l’inquietudine della folle esploratrice, benché non me ne rendessi conto, fidandomi di quanto diceva mia madre: “ogni tanto nasce un fiore dalle forme bizzarre, ma non per questo la natura lo scarta e fa parte pure lui dell’universo floreale, basta si limiti a ciò che è consentito”. Non usava, è ovvio, queste parole – era analfabeta, rozza come tutta la gente del mio borgo – ma il succo era chiaro: puoi essere diversa, ma soltanto un po’… E il limite non veniva deciso da lei né tantomeno da me, ma dal sant’uomo di Dio, quello vestito di nero che diceva la Messa, prodigo ogni giorno di consigli su come mangiare, come pensare, come servire i nobili, rispettare i genitori, curare il prossimo, sposarsi e far figli. Nessuno dubitava che il prete avesse sempre ragione: non era forse lui l’unico fra noi a saper leggere il Libro e quindi a conoscere la volontà di Dio? Non era forse a lui che si rivolgevano i potenti per curare la nostra remota comunità?
In genere mi sottomettevo senza reazioni al logorante ritmo di questa vita segnata. Ma c’erano giorni in cui un fuoco sconosciuto mi divorava dentro, un’ira furibonda che si scagliava contro tutto e tutti e, seduta in muta ribellione sotto il mio castagno preferito, m’immaginavo con avido sadismo di soffocare nel sonno mia madre, di buttar dalla rupe il mio promesso sposo (un bifolco il cui sorriso bavoso mi faceva inorridire), di appiccare la miccia alla sottana dell’uomo nero, che il Diavolo sarebbe venuto a rapire per i suoi molti peccati; e soprattutto di far scappare a gambe levate le megere sempre pronte a criticarmi su ogni cosa indossata, ogni parola detta, ogni pensiero espresso, tanto d’avermi fatta diventar silenziosa e sgusciante come una lucertola. E anche questo, ovviamente, a loro non andava bene!
Mi guardavano storta anche perché stavo per “diventare donna” e seppur non capissi appieno il senso di quelle parole sapevo ch’erano collegate al sangue sporco, quello con cui tante volte mia madre aveva insudiciato il giaciglio e il cui odore acre e rancido faceva ribrezzo a tutti, uomini e donne, spingendo noi ragazze a odiarlo. Avrei voluto parlarne con qualcuno, ma ero senza sorelle perché mio padre era morto poco dopo ch’ero nata e la mamma non aveva voluto risposarsi; le altre donne di casa mi scansavano quando giravo intorno per stuzzicarle sull’argomento e le amiche, poche invero, mi giudicavano sfacciata e reagivano arrossendo agitate. Così mi rassegnavo, sperando che il sangue ritardasse il più possibile se il suo arrivo doveva significare per me diventar la moglie di Tobia. Viridiana e Tobia, Tobia e Viridiana: come suonava male! Il pensiero di lui mi faceva venir voglia di fuggire a valle…
Ma poi la vita riprendeva come sempre e mi tranquillizzavo mentre annusavo l’aria pura del giorno perdendomi fra le nuvole, oppure aiutavo a pulire i cavoli per la minestra o a rassettar la casa. Più d’ogni altra cosa mi piaceva lavorar la terra dello zio e anche se non mi facevano far tutto, perché molti gesti erano sconvenienti per le fanciulle, stare con lui mi permetteva di contemplar le montagne, osservarne l’infinito orizzonte carico di sogni nascosti, cosa che non avrei potuto fare da sola: girellare senza la protezione di un uomo, infatti, faceva parte di quelle cose proibite che non potevano essere discusse. Era così e basta.
Finché venne il giorno in cui, come sai, il basta non mi bastò più.
Ricostruendo i fatti con ciò che conosco oggi correva l’autunno 1212. A quel tempo non mi faceva differenza, ignoravo perfino d’avere 14 anni. Sapevo soltanto di essere una ragazza da marito. Ribelle, ma pur sempre da marito. Il resto non contava, erano affari da adulti, e adulti uomini. Tutt’al più mi potevano arrivare scampoli di notizie che qualche viandante aveva sparso con lingua generosa davanti a un buon bicchiere di vino, ma mi sentivo estranea, ai margini del mondo che si muoveva altrove. Noi facevamo sempre le stesse cose, c’era sempre la medesima povertà, benché fossimo più liberi: non vigeva tanto controllo come nelle città, e in ogni caso il vertiginoso isolamento dei monti era la mia vita, mi pareva che non avrei potuto esistere lontana da lì, divelta dalle mie zolle selvagge.
La faccenda dei “bambini stupidi”, quella però era arrivata. Troppo curiosa per non diffondersi a macchia d’olio, troppo estesa. E soprattutto aveva avuto il suo primo epilogo non lontano da noi, in quella Genova che a nominarla mi pareva un posto fiabesco. Però qualcuno del borgo c’era stato e diceva che le sue strade non finivano mai e che era addobbata d’ogni lusso e abitata da dame d’indescrivibile beltà e che innanzi si distendeva tanta di quell’acqua che avrebbe potuto dissetare l’umanità per millenni se si fosse potuta bere: si chiamava mare e da lì partivano grandi chiatte, che raggiungevano luoghi così distanti da non potersi credere.
Fu proprio lì, in agosto, mentre la carestia mieteva vittime e rendeva insopportabile il lavoro di noi contadini, che era giunta la schiera tedesca dei bimbi in cerca di Dio. Fra loro c’erano anche adulti, ma perlopiù si trattava di piccoli e adolescenti e pure chi li guidava, un certo Nicola, aveva circa la mia età. Partiti da Colonia, la città dei catari, avevano percorso a piedi tutta la Germania tirati da una forza irresistibile che li aveva fatti raggiungere il porto genovese, dove s’aspettavano di vedere il mare aprirsi per continuare la crociata fino a Gerusalemme. E quando il miracolo non c’era stato le fanciulle e i fanciulli più tenaci, reagendo alla delusione propria e alla derisione altrui, avevano ripreso la marcia diretti a Roma, alla volta di Brindisi. Pochissimi di loro sarebbero tornati a casa, i più uccisi dagli stenti, stuprati, dispersi, rapiti.
Ma queste tragedie le avrei scoperte poi. Allora la vicenda mi emozionava e turbava. Cosa cercavano quei ragazzi? Perché s’erano addossati una missione tanto più grande di loro? Non c’erano i crociati per quello? Da quale inspiegabile tempesta erano stati attraversati per comportarsi in modo così audace e stravagante? Dentro il mio cuore li apprezzavo, mi sarebbe piaciuto seguirli, ascoltare i loro discorsi intimi, conoscere più di quanto veniva detto. Ma il mistero rimase, per me e per tutti gli altri, e certo per gli stessi bambini crociati, di cui anche in futuro si sarebbe parlato senza capirci granché. Adesso però so, come tu sai, perché lo fecero, quale attrazione li spinse a quest’impresa che nel loro immaginario dipinsero come il tentativo degli esclusi di riconquistare la Terra Santa. E di quale energia si trattasse lo scoprii quella notte, la notte del trapasso di Viridiana e della gestazione di Norea.
Te ne narro ancora una volta, l’ultima, perché ogni giorno di più vacilla il mio corpo e sento che sto per scivolare nel reame della morte apparente. Non mi spaventa, come non mi ha spaventata la vecchiaia, però voglio lasciare un vivido segno della mia permanenza qui, dell’aliena avventura che mi son trovata a vivere e che trasmetto per una definitiva registrazione. Servirà ai vostri Archivi, come tutto il resto. E dunque anche alle altre civiltà.
Quella notte, dunque. Quella notte non riuscivo a prendere sonno, mi si torcevano le budella e non capivo perché. Svegliare mamma non volevo, si sarebbe preoccupata e m’avrebbe dato da bere una di quelle sue erbe che facevano fare le smorfie tant’erano amare. Ma il dolore mi snervava e perciò mi alzai da letto, mi misi addosso qualche straccio in più per proteggermi dal freddo e scivolai fuori dalla porta. La luna era piena.
Con questa luce, mi dissi, potrei camminare fino ai campi dello zio, magari il mal di pancia mi passa. E fu così che m’avviai spontaneamente, in una coltre d’ignara solitudine, verso la fine della mia normo-esistenza.
La meta che mi ero ripromessa di raggiungere era troppo vicina per l’inquietudine che mi tormentava, per cui una volta arrivata lì tirai dritto, anche perché il ventre s’era un po’ calmato e la notte era splendente e avrei potuto non avere più per anni quel coraggio, quella voglia d’affrontare il buio e le critiche di chi m’avesse scoperta. Il profilo dei monti intorno, sempre più visibile man mano che mi abituavo al debole chiarore notturno, mi danzava negli occhi e a un certo punto, inaspettatamente, mi sentii felice. Scoppiai a ridere di niente e i piedi da soli si misero a ballare facendomi girare su me stessa e poi correre, correre a perdifiato, con la sola voglia di vivere nella libertà. Di certo non era cosa da farsi senza guardare il terreno e non mi stupii quando cominciai a rotolar giù per un crepaccio: stavolta me l’ero proprio cercata! Dovevi stare più attenta, mi mormorava nell’orecchio interno mia madre. Guarda cosa capita alle spudorate come te, berciava la stridula voce del prete. E poi le amiche e le vicine di casa a sogghignare, divertite per com’era stato punito il mio sciocco ardimento… D’un tratto era svanita la gioia. Ma non m’era possibile lasciarmi andare alla malinconia perché ero ferita alle ginocchia e dovevo togliere quelle macchie di sangue se non volevo venir scoperta. Fu allora, in quel silenzio irreale, che sentii lo scorrere di un ruscello sotterraneo. Veniva da una piccola caverna e se la paura di venir rimproverata non fosse stata così forte non avrei mai avuto l’ardire di entrarci.
L’acqua era gelida, ma non avevo scelta. Mi chinai per sciacquare le parti sbucciate e pensai con un certo conforto che avrei potuto facilmente nasconderle sotto le vesti. Ma la terza o quarta volta che immersi le mani qualcosa attirò la mia attenzione. Era una specie di pallina metallica, piacevole al tatto e accartocciata come una foglia. Lì in grotta non si vedeva quasi nulla, quindi la presi con me per esaminarla meglio a casa. Mentre tornavo indietro illuminata dai raggi lunari la curiosità prese però il sopravvento e pur continuando a camminare la manipolai un po’ per capire di che si trattava. Il materiale non riuscivo davvero a immaginare cosa fosse: non avevo mai toccato niente di simile! Era morbido, né caldo né freddo, leggerissimo e malleabile, tanto che senza volerlo mi ritrovai a stirare la pallina. Mi bloccai di colpo, come se mi avessero tirato uno schiaffo in pieno viso. Cercai di mettermi sotto la luce della luna e in effetti vidi il fatto incredibile: l’oggetto, scivolato a terra a causa del mio sgomento, aveva assunto la forma rettangolare di una tavoletta.
Com’era possibile? Ero diventata pazza o era Satana a farmi questi scherzi? Ma perché proprio a me? Cosa stava accadendo? Pare incredibile dirlo dopo quant’è successo poi, ma è stato il momento più intenso che ricordo, il più sconvolgente: stavo infatti vivendo qualcosa di così insolito da non poterlo dire a nessuno se non a rischio di passare da eretica! Tremando raccolsi la lastra e osservandola mi accorsi che era di color verde marcio e ricoperta da caratteri che non conoscevo. Non sapevo leggere, è vero, ma quei segni erano diversi da qualsiasi altro avessi mai visto in giro, di questo ero certa. Voltai il manufatto dall’altro lato e scoprii che sul retro era incisa l’impronta di una mano sinistra.
La tentazione di porre la mia in quel calco fu così forte che per un attimo mi mancò il respiro. Terrorizzata dai miei stessi pensieri mi misi a correre verso casa e solo quando fui lì mi resi conto di due eventi accaduti a mia insaputa: ero riuscita non so come a riaccartocciare l’oggetto e le mie cosce erano ancora bagnate di sangue. Ero diventata donna.

Stella
Quello che seguì fu un periodo difficile da descriversi, anche adesso che son padrona dei magici mondi delle parole. La vita ordinaria continuava apparentemente come prima, salvo che tutti sapevano dell’avvento delle mie regole e Tobia mi guardava sempre più lascivo; riuscivo a sottrarmi alla sua villania solo appellandomi alla non ben definita virtù che tutti m’incitavano a conservare e continuando a immaginarmi altri occhi, ben altre bocche di uomini da baciare. Ma negli anfratti, negli interstizi della mia mente profonda, in quei recessi dell’anima di cui avevo intuito l’esistenza scorrevano nuovi universi, conoscenze inaudite, informulabili idee, sapori ignoti che mi facevano transitare fra la gente come un’entità di un parallelo mondo fatato, presente e assente al tempo stesso.
Portavo il mio oggetto sempre con me, non me ne staccavo mai, ed ero angosciata dall’idea che venisse scoperto. Per questo ero diventata obbediente, tranquilla e qualche volta riuscivo anche a essere dolce con Tobia: una giovinetta modello, del cui comportamento si compiaceva perfino l’uomo nero. Ero disposta a tutto pur di non attirare l’attenzione, pur di restare invisibile, come del resto mi sentivo dentro.
Di notte tendevo Stella – così avevo chiamata la pallina – e la sistemavo sotto il pagliericcio su cui dormivo, raccontandole i fatti che mi erano capitati durante il giorno, le gioie e i dolori, affidandole i miei desideri e le mie pulsioni come a uno scrigno sicuro. Poi abbassavo le palpebre, mi lasciavo andare al sonno e iniziavano. Sempre. Ogni notte. Per settimane. Non erano sogni, bensì turbini e vortici che mi travolgevano di nozioni sconosciute, di smarrite e impronunciabili sapienze, quasi un’istruzione serrata che notte dopo notte mi metteva in grado di allargare sempre più la mia intelligenza e di affinare le mie percezioni.
Non sapevo più chi ero e riuscivo a vivere soltanto se imitavo quella ch’ero stata, ricordando e riproducendo gesti che ora mi sembravano insulsi, anzi inutili. E non essendo però capace di elaborare concetti inconsueti mi sentivo come un contenitore ermeticamente chiuso di cui non scorgevo i contenuti… Dovevo sbloccare a tutti i costi questo ristagno che m’impediva di possedere un’identità, ma pur intuendo ciò che dovevo fare non ne avevo il coraggio: cosa sarebbe accaduto di me dopo, chi mi avrebbe salvata dal perdermi definitivamente?
Ne trovai tuttavia la forza, o l’incoscienza, quando mi resi conto che di me stessa, di quel che ancora rammentavo d’essere, non esisteva che uno sbiadito brandello. Così, non avendo nulla da perdere, attesi la luna piena e tornai alla caverna. Il buio a questo punto non mi ostacolava più. Non avevo bisogno della luce per adagiare la mano sul calco.

Norea
Lo feci. Ed ecco che fui avvolta da un uovo radiante, mentre una bolla sferica ancor più luminosa iniziò a volteggiarmi intorno. Stranamente non ebbi paura, forse per il legame che si era creato fra me e Stella: era la mia nutrice, la mia amica immaginaria, una seconda me, la più recondita, quella che mi faceva sussultare ma anche sentire viva come non mai.
Poco a poco quest’inerte sospensione lasciò il posto a una tranquillità quasi eccitante, finché la sfera s’arrestò davanti a me e aprendosi divenne un quadro pieno di colori in rapido movimento. Ciò che avevo vissuto nei miei enigmatici sogni si ripropose nella grotta in forma condensata, pregna di visioni fantasmagoriche, di suoni irripetibili, di metalinguaggi capaci di schiudere varchi a inedite Comprensioni Radicali. In un baleno mi furono trasmessi millenni di storia terrestre e galattica, plasmandomi la mente in modo che potesse assorbire i dati a celerità vorace, foriera di profondità abissali, vertigini cognitive e neurologici sobbalzi.
Fino a che, con la stessa rapidità con cui era iniziato, il fenomeno cessò e sul dipinto, che ormai sapevo essere uno schermo, apparve un paesaggio magnifico, fatto di candide e altissime costruzioni. Zoomando indietro l’ologramma rivelò che appartenevano a un pianeta ornato di quattro lune, la cui disposizione a rombo trasmetteva una gradevole sensazione d’armonia. Capii che indicava la provenienza di colei che stava per parlarmi direttamente, ma invece di venir meno per la violenta emozione mi disposi ad ascoltare, acuendo il più possibile i miei nuovi Sensi. Ormai più niente mi avrebbe spaventata, nessun ostacolo avrebbe frenato la mia bramosia di Conoscenza.
“Salute a te, Norea” disse Stella, e la sua voce melodiosamente femminile vibrò in ogni corda del mio essere con straniante familiarità. Mi chiamò proprio così: Norea. E subito mi piacque. In verità non era una voce fisica ma telepatica, che s’insinuava in me accompagnando ogni suono con un’immagine, ogni immagine con un profumo, ogni profumo con una sensazione tattile… Eri tu, Stella, tu a cui dopo una lunga vita dono queste mie memorie in riconoscenza del dono che tu hai fatto a me: l’occasione di mutare, al fine di perdermi per ritrovarmi.
Ecco dunque ciò che mi trasmettesti quella notte, la tua prima Lezione.

Quanto adesso dirò, o temeraria Norea, è un terribile segreto che lorda di vergogna e mestizia il nostro popolo. Ma non posso tacere: giustizia vuole che la verità non resti celata ancora a lungo. Per questo abbiamo deciso di spargere un primo gruppo di vrill-sensori sulla Terra: il Gioco delle coincidenze, che mai scattano a caso, li avrebbe fatti trovare all’umanità giusta, che allacciandosi a queste macchine con creativo atteggiamento le avrebbe poi innescate. Com’è capitato a te, azionando così il nostro strabiliante Contatto.
Sappi che per un prolungato tratto di Storia la vostra civiltà si è avvicinata a un’ottica esistenziale che n’esaltava la componente primaria: la sua ipercaotica complessità. La stupefacente mistura di scienza e arte e afflato spirituale con cui molte genti arcaiche approcciarono simbolicamente il mondo e sé stesse rivela infatti nella specie umana un’attitudine a sintonizzarsi con i meccanismi e circuiti tramite i quali si manifesta il Cosmo a tutti i suoi livelli e che le nostre Indagini sanno ormai esplorare con sagacia.
Ti avrà sorpresa scoprire come in un remoto passato le realtà più esecrate alla tua epoca venissero invece celebrate come incarnazioni del Divino: intendo il mestruo, la vulva, il pene, la sessualità… E, sebbene ci fossero talora insofferenze verso la passione omoerotica, la sensibilità antica faceva sperare in una maggior apertura con il tempo. Era un ottimo inizio, perché è nello sviluppo armonico fra i sessi che si sarebbe deciso il destino dell’umanità, l’orbita non univoca con cui ogni accadimento avrebbe avuto il suo corso.
Comprendere che ogni genere e quindi ogni specie necessita del proprio spazio vitale poteva essere realmente la chiave vincente. Maschi e femmine, omo ed etero, natura umana e natura animale, piante e minerali, stelle e pianeti, ciascuno e ciascuna in perfetta, bilanciata simpatia con tutto il resto e al contempo in perfetta, bilanciata pienezza di sé!

Questo speravamo osservandovi dal nostro astro, attendendo pazienti il momento in cui sarebbe stato possibile comunicare con voi senza condizionarvi. Simili e diversi, in amicizia e reciproco scambio.
Ma tali auspici si sono infranti. La colpa è nostra, benché allora non potessimo prevedere quanto accadde. In breve, alcuni androi affetti da quelle psico-patologie di fissazione che inducono a inquadrare in modo riduttivo la realtà sfuggirono al controllo e violarono la Legge più sacra: la non interferenza con le bio-società diverse dalla nostra. Guidati dal demente Ievauè discesero sulla Terra e il Mostro-a-Tre-Teste che ne nacque iniziò a causare massacri e belligeranze prima impensabili, basate non più su una primitiva tendenza all’occupazione di territori ma sul dominio delle coscienze e sulla conseguente distruzione di quelle varietà culturali e cultuali che fondano ogni società umanoide.
Da quel momento si scatenarono i tragici eventi che ora conosci e che mi hanno indotta ad appellare la tua anima ardente Norea: un nome che al sorgere della deviante mitologia monoteistica, ostinata sull’esistenza di un unico Dio e unicamente maschio, fu attribuito alla moglie di Noè, l’uomo che concluse un patto scellerato con Ievauè per salvarsi. Ma ecco, d’ora in poi Norea sarà la parola-da-riscattare con cui segretamente ti chiamerò, se lo permetti sorella mia, tu che all’avvento del tuo personale Diluvio Rosso hai saputo trasformarti senza temere la Muda.
Ti ammiro e ti ammireranno anche molti uomini e in special modo molte donne quando inviterai costoro a uscire dai pantani e dalle trappole dell’ignoranza, della fede cieca, dei dogmi, dei falsi poteri e dell’ostilità – sacrificale e sacrificante – contro l’amore, il sesso e la vita nella sua più intrinseca Natura.
Sii autentica, Norea, e apprenderai immense Conoscenze da Te Stessa!

Quella notte, la seconda più importante della mia vita, piansi senza ritegno. Non per me, bensì per la mia specie. Che non sapevo di amare così tanto.

Diana
Non era semplice adesso che m’eran chiare le conseguenze dell’infezione monoteista, virulenta, fetida, pericolosa, convivere con chi mi circondava. Ogni ora del giorno e della notte, qualsiasi relazione, ogni decisione politica – tutto era asservito alla religione. A quella religione. A quel sistema schizofrenico di separare cielo e terra, mondi materiale e invisibile, natura e umanità, umano e divino, buio e luce… Non l’avrei più potuto sopportare, né sarei stata capace di fingere ancora a lungo.
Ero sola. Spaventosamente sola. Avevo te, Stella, e forse avrei comunicato con altre o altri di voi. Ma non riconoscevo più mia madre, non riconoscevo più i familiari, le amiche, le norme. E soprattutto non riconoscevo me stessa.
Chissà se avrei mai assaporato la felicità di un amore, di un compagno disponibile a farsi iniettare, al pari mio, il pungolo del Sapere! Ci pensavo masturbandomi, mentre plasmavo un idolo immaginifico consono a quella mia neo-individualità che i paesani avrebbero considerato farneticante e che nascondevo con abile astuzia, in attesa di decidere il da farsi. Tu non potevi, né volevi aiutarmi in questa mia scelta: avevi già interferito abbastanza. Ora toccava a me. Ora anch’io sapevo.
Anzi, sapevo anche troppo, e davvero non so com’ero riuscita a sopportare gli scempi olocaustici che si erano depositati nella mia memoria-senza-tempo e che mi stavano forgiando una personalità tutta diversa da prima, ora forte e carismatica, nella quale si eran risvegliate parti sopite e un’energia quasi inesauribile che mi permetteva di dormire e nutrirmi in modi anomali, di costruire pensieri innovativi senza stancarmi mai. Forse era proprio quel futuro oscuro a sorreggermi, quegli angoscianti roghi di persone che intuivo vicine e quel successivo futuro in cui, un giorno distante secoli, le mie utopie si sarebbero realizzate…
Restava però a rodermi il problema principale, quello più urgente: adesso, in piena teocrazia, cosa dovevo fare? cos’accidenti potevo fare?
Mi guardai intorno alla ricerca di semi da far crescere, perché nulla nasce dal nulla, né potevo condividere la mia Esperienza così come l’avevo vissuta e appresa. Perciò durante il solito automatismo della vita giornaliera mi riservavo momenti sempre più ampi, nelle ore buie, per mettere in funzione i Sensi telepatici verso l’esterno, verso i villaggi vicini o lontani, fin dove riuscivo, scoprendo imprevedibili vite che prima di me, e senza aiuto alieno, si erano aperte a una visuale della vita più dilatata e pregna di fiamme della Sapienza. Usavano Arti Magiche e con quelle conquistavano i Mondi Interiori. Erano donne e uomini d’ogni età e ceto, uniti nella convinzione di essere componenti integrate della Realtà e quindi in grado di conoscerla attraverso sé e di conoscersi attraverso Lei.
Una teoria che sintetizzava efficacemente la Volontà da cui adesso era titillato il mio Cuore.
Di questa popolazione scelsi inizialmente le donne, perché private di potere e quindi smaniose di libertà e identità cultuale: un terreno fertile con cui operare. E fra le donne quelle del popolo, più preservate rispetto agli interessi degli emissari ecclesiastici e quindi per molti aspetti immuni alla loro influenza, come in genere chi vive ai bordi, sui limitari, nelle foreste. Con loro avrei riscoperto la Dea, la nostra propria Figura Sacrale, e insieme avremmo esplorato la forza degli Elementi e acceso sinergie con la Natura e visitato la vietata Notte e bagnato di mestruo e succo vaginale le terre, i corpi, le coscienze, danzando sotto una, quattro, molteplici lune!
Sì, ero pronta per la mia funzione d’Inseminatrice. Avrei rotto i rapporti con la famiglia, con lo sguaiato Tobia, e sarei andata a vivere da sola, vicino ai boschi. Ancora non si uccideva per questo: mi avrebbero semplicemente presa per pazza. Ma certe donne, le più giovani forse o le più anziane, si sarebbero incuriosite: qualcuna mi avrebbe parlato e qualcuna avrebbe vissuto con me l’inizio della nostra epopea…
Da loro mi sarei lasciata chiamare Viridiana, Verde Diana, la Signora boschiva, riservando a te il mio appellativo stellare. Avremmo pian piano accolto anche gli uomini e forse tra loro avrei trovato uno sposo, com’è infatti poi accaduto (e tu, specialmente tu Amica, sei testimone di com’è valsa la pena aspettare il mio Robin!).
Sì, avrei iniziato dal mio luogo di nascita e da lì sarei approdata con le Sorelle nel più grosso comune vicino, quello dove sapevo ch’era nato mio padre, dove avevo radici ancora a me sconosciute: Triora, “le Tre Bocche”.
Un nome ideale per affrontare la battaglia contro le Tre Fauci del Mostro Monoteista!

 Selene Ballerini

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