joanna concejo
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Appuntare ai sensi la memoria di qualcosa che non si riduce fino alla scomparsa, né reduce ritorna uguale da quel mondo di abitudini a cui ci siamo adattati nel tempo. Questa sembra la guida che ci conduce tra i versi dell’ultima raccolta di Monia Gaita.
Respira ancora la cicatrice delle case, /il busto greve eretto nella tregua/La tengo bilanciata tra le mani/….Ora mi tocca escogitare una rinascita/ora che i morti parlano/ e il tenero frumento preso in prestito dai vivi/non sa di gioia spaccata/ma circola con un agire fondativo/nelle vene.
E’ così che Gaita, nel suo libro Non ho mai finto, edito da La Vita felice , riscrive i momenti tragici di tutto quanto si è perso nel sisma che tutti abbiamo vissuto attraverso i media nel 1980. Paesi e persone feriti mortalmente che tornano nell’ascolto dell’autrice che misura il sé con quanto intorno a lei e dentro di lei accade, senza sentirsene mai esclusa. Inventario di un itinerario singolare perché mai solo individuale ma premessa di una condivisione comune a tutti. Abbandonare la propria terra e le proprie usate abitudini, è come lasciare chi si ama ed è piantato radicalmente nel proprio corpo. scrive l’autrice:
Sono partita, ma non dimentico l’Irpinia/Resto ancorata all’utero dei campi/covo la prole delle spighe, la proteggo fino al millimetro finale della schiusa/L’Irpinia mastica i suoi figli e li sospinge/dove si ingrossano gli ovari della nebbia/ e il traffico del centro/s’attacca con l’uncino dei rumori sulla pelle.
Tra le righe non è difficile sentire stanchezza e fatica di chi quotidianamente si misura e si bilancia con l’esistenza, con la provvisorietà e l’improvviso con cui abitiamo la vita e le relazioni con gli altri, oltre che con noi stessi. Qualche esempio tratto dalle pagine.
Il pieno ha cessato di essere per me/che esploro la cripta di tutti i sogni morti/ e rimanenti….Io sono stanca di vivere/di generare agguati, fulmini e tempeste/Voglio dormire per sempre/prendermi un turno di riposo. Sono stanca.
Un’altra spaccatura carsica del cuore/ a farmi estranea e inconcludente/anche a me stessa./Ti ho tenuto la mano fredda e cedevole/ accompagnandoti a un ignoto/d’esistenza-inesistenza, non so dire/Non ho capito di quale stirpe fosse/il buio che ci attendeva
Ora che ho chiuso ogni rapporto col tuo cuore/l’avvilimento erutta la sua lava/si solidifica in inverni senza protezione.
Eppure, oltre a queste vivide riflessioni, c’è la consapevolezza chiara di dover fare ripartire ogni volta da sé la ripresa, senza pesare su nessun’altra cosa che la propria volontà ferma, la stessa che ci lega alla terra e ci fa compartecipi del suo destino.
Sono di nuovo nella polvere/ a pedinare il buio/sfiancata alla linea del traguardo
Oggi guardo la morte del mio Sud/col sudore del tedio che rovista il coraggio/ a palmo a palmo/Oggi tutto sa di ingiuria e insufficienza/ E io non so infoltire nell’ardore che corrusca tra i castagni/Ho solo convocato qualche voce dal consiglio dei secoli/Ma la desolazione non passa/non passa la bestia che ci spinge alla deriva.
Gaita piega lo sguardo e spiega la sua visione del mondo attraverso una lingua polisemica che attraversa la soglia individuale per raggiungere un ascolto intimo, profondo in cui chi si racconta è l’umano.
Fernanda Ferraresso
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joanna concejo
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Testi tratti da Non ho mai finto, di Monia Gaita
Nessuna titubanza
Guardare schiudersi la porta del mattino,
le nuvole e le loro succursali
confondersi alla ruggine dei rami,
il vaso del basilico
infilato nella giacca dell’autunno.
Avverto un lieve capogiro
a estrarre come un foglio dalla tasca
questi anni:
non ho nessuna voglia di indossarli,
mi stringono sui fianchi
stupiti di trovarmi ancora in piedi.
Ignoro a quanto ammontino le perdite.
Vorrei cospargerle di nafta, farne fuoco.
Ma a regolare i conti con gli sbagli
declina la ragione e il vuoto sbocca
dove i perché affondano in un solco.
E intanto vivere
nella coscienza mezzo fradicia dei giorni,
le gambe sciolte del non più sperare
e al punto in cui la scelta si biforca
—nessuna titubanza—
percorrere una strada.
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Sono partita
Sono partita,
ho fatto scorta di verde e sono andata.
Ora m’immergo nell’emicrania dei montaggi,
dei contafili azionati dai pulsanti.
Quando ho riavvolto la storia dei miei anni,
gli esami, lo studio, le rinunce,
avevo l’amarezza di un cratere dentro il petto.
Non è servita la mia laurea.
Ha traslocato di ripostiglio in ripostiglio,
in molti vuoti navigabili,
nella peluria del soffione quando vola
e si disperde.
Sono partita, ma non dimentico l’Irpinia.
Resto ancorata all’utero dei campi,
covo la prole delle spighe, la proteggo
fino al millimetro finale della schiusa.
L’Irpinia mastica i suoi figli e li sospinge
dove si ingrossano gli ovari della nebbia
e il traffico del centro
s’attacca con l’uncino dei rumori
sulla pelle.
Sono partita, ma non dimentico l’Irpinia.
E mi strofinano gli omeri delle vigne,
la cartilagine del vento e delle piante.
E quando il forno pone a bollore
l’acqua dei ricordi,
estraggo dall’archivio gli annegati,
corazzo le mie gambe col tronco dei castagni.
Sono partita, ma non dimentico l’Irpinia.
L’Irpinia delle chiese e delle volpi,
l’Irpinia delle pale, dei carpini, dei faggi,
l’Irpinia con le tempie corrotte dal moderno.
Io non dimentico l’Irpinia,
l’Irpinia di mio nonno con gli occhi da brigante.
Irpinia madre, Irpinia del mio sangue.


Monia Gaita, Non ho mai finto (poesie)– La Vita felice 2021