william-adolphe bouguereau
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Andava a parare le pecore. Si svegliava da sola e correva nell’aia. Non le costava alzarsi presto, perché dell’alba sapeva cogliere bellezza e magia. Attinta acqua dal pozzo, girava l’angolo del casolare per mettersi al riparo dagli sguardi della tribù famigliare. Si lavava con scrupolo e lentezza. Quando particolarmente fredda, l’acqua le provocava fremiti che però recepiva come fossero scariche d’energia. Alla luce poetica del primo mattino, ancor più lunghi, lisci e neri i suoi capelli apparivano. Il badare alle pecore non le impediva di guardarsi intorno e dentro. Ricercava quegli steli d’erba che tanto le piaceva succhiare. Interagendo con gli odori, conturbanti in certi momenti, spesso si divertiva ad inspirare a fondo, trattenendo l’aria nei polmoni fino ad avvertire uno sbandamento, un principio di svenimento. Evitava al massimo di stare con gli zoticoni dei suoi famigliari: femmine atroci sempre lì a spettegolare; maschi rudi e bestemmiatori. I membri della sparpagliata comunità rurale cui apparteneva non erano certo diversi dai suoi famigliari; per cui, quando non poteva fare a meno di partecipare a momenti di aggregazione sociale, era sempre colta da una sensazione di solitudine che la faceva star male.
In occasione della Prima Comunione, non senza qualche sacrificio i suoi erano riusciti a farle confezionare un bel vestito di cotone damascato. La gonna lunga era guarnita da dieci piccole costine verticali che, interrotte a mezza lunghezza, producevano una leggera svasatura. Tre piccolissime balze sovrastavano l’orlo, foderato con un tessuto rado e leggero che però gli dava consistenza. Veramente prezioso era il corpetto. Sei minuscole costine lo percorrevano dal collo alla vita; da ogni spalla partivano altre quattro fini cuciture; due strisce di stoffa, ognuna con tre costine e un delizioso merletto, coprivano l’attaccatura delle maniche e scendevano a forma di “v” fino alla cintola. La parte posteriore non era meno lavorata dell’anteriore. Tutto foderato e stretto in vita, il corpetto si allargava poi a ormare una svasatura sotto cui spariva la parte alta della gonna. Più stoffa del corpetto stesso avevano richiesto le maniche a sbuffo, l’esuberante arricciatura delle quali confluiva in polsini alti e stretti, a loro volta guarniti da pizzo. Il colletto, anch’esso alto, stretto e con pizzo, sembrava ideato per dare rilievo ai tratti del viso. Le piacque tanto quel vestito che non se ne disfece mai; anzi, lo conservò così amorevolmente che alla sua morte, animato e intatto, saltò fuori da un cassetto.
Le cose di cui avrebbe volentieri parlato erano considerate strambe e non interessavano a nessuno. Sentendosi diversa, rifiutata, fuori posto, nella civiltà orale contadina imparò a tacere. Il contatto solitario e costante con la natura la introdusse al gusto dell’osservazione. Un giapponese che vive nell’Amazzonia brasiliana ama ripetere che una sua sorella è stata così protetta e viziata dai genitori da divenire come “una pianta senza midollo”, di quelle che non servono a niente e si afflosciano al caldo e al vento. L’intimo della pastorella umbra divenne duro come il più stagionato dei legni, ma ciò non le impediva di sentire tenerezza nei confronti di quanti, a loro volta e in qualche misura, erano emarginati dalla comunità. Ad essi regalava qualche attenzione e un po’ del suo tempo, sapendo che erano sufficienti per mitigare i dolori degli animi loro. Nella società yanomami il nome attribuito a una persona ne riflette la somiglianza con animali o altri elementi della natura, oppure caratteristiche fisiche e tendenze comportamentali e, nel corso della vita, può anche variare; in nessun caso il nome viene pronunciato in presenza dell’interessato. La pastorella era stata battezzata con il nome di Letizia, termine che non venne mai modificato, nemmeno quando risultò evidente che sarebbe stato più consono chiamarla Mestizia. Il saper tacere ed osservare in lei si trasformarono nell’arte dell’ascolto, ma anche nella capacità di cogliere a volo aspetti molto intimi dell’essere umano. Analfabeta, le bastava uno sguardo per leggere dentro le persone con cui entrava in contatto. Con lo stesso slancio con cui si prendeva cura degli esclusi, cominciò a prendere in giro “i normali”. Se individuava un vizio, una tendenza, una debolezza, forgiava un soprannome tremendo, di quelli che fanno rizzare i capelli all’interessato.
Testo tratto da QUANDO LE AMAZZONI DIVENTANO NONNE di Loretta Emiri
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Loretta Emiri, Quando le amazzoni diventano nonne- CPI-RR 2011.
molto belli i tuoi racconti Loretta, complimenti e grazie!