agostino arrivabene-scenografia sansone e dalila di camille saint saëns
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Tutto dipende dal modo in cui si gua(r)da il mondo. Qualcuno vuole a tutti i costi at-tra-versarlo, altri per-correrlo senza poi non trattenere nulla di quanto è stata la relazione con l’istante del viaggio, che dentro ognuno di noi apre gli avamposti delle ore o delle ere di cui il mondo e anche il modo sono fatti.
Intendo dire che i milioni di anni con cui s’è impastato l’universo e questo pianeta in esso, continuamente germogliano non solo come erbe fiori animali astri vento acque fiamme…In ciascuno di noi esistono duplicazioni esemplari, molteplici che negli scritti dei poeti o nelle opere mirabili della narrativa espandono i cicli della loro riproduzione, come da ovari fantastici e semenzai che, normalmente, la gente non è abituata a vedere e cogliere.
In Sundara, di De Candia, la visionarietà è la modalità per dare aria, respiro a quei corpi a cui ci abituano a guardare dentro gabbie visivo percettive che non fioriscono nei nostri sensi e tutti gli organi, in noi, non mettono in risonanza le stanze e i territori che pur con-vivono in noi e per noi. I testi, spesso molto lunghi, danno proprio l’idea di attraversamenti e sconfinamenti territoriali interiori che dipingono delle loro sostanze le stanze degli occhi.
Forse la gente ha paura, teme che camminare su suoli come vetrerie frangibili si rischi la salute mentale. Basta un passo falso, un colpo di vento o un assetto di volo non adeguato e trac, si è perduti nei meandri di un labirinto dove il nostro Minotauro ci ingoierebbe irrimediabilmente.
La mente, mirabile appassionata giocatrice d’azzardo, fautrice di tutti i sogni che vediamo e viviamo deve essere mantenuta sotto controllo, mentre nella realtà di tutti i giorni, se ben guardiamo, in salvo non lo è nessuno e niente. Basta un fruscio finanziario o politico di sottofondo e tutto appare in una nuova veste. Il sole divora, la notte è oceanica e muta, una muta di cani che ti divora. Tradotto: un crack finanziario fa crollare le borse del mondo, una pandemia mette a morte milioni di persone, un terremoto deflagra intere metropoli…
Basta un tic e da una sponda si passa ad un’altra, imprevista. E tutto apparirebbe quale sempre è stato: sur-realtà, una realtà sotto-sopra l’altra. Ma quale è l’altra? Non sono mai abbastanza differenti i sogni dalla realtà.
Basterebbe guadare quel luminoso fiume e rovesciare le sillabe consuete in quelle acque magiche per trarne pesci lucenti, ambre, arpe, gusci di viaggi galattici, incontrare i bacilli e le cellule di un non ancora descritto inizio. Non è forse così che accade già ora? Tutta la teoria su cui la fisica contemporanea, l’astrofisica e la chimica s’imperniano, per comprendere il mondo e il modo con cui si è evoluto, ci mostra in ogni ambito un vasto intricato reticolo di un sogno che non ha radici ma peduncoli, non sempre aggrappati ad un suolo, ma aerei, che s’intercettano in aree mai abbastanza franche, senza sbarchi aeroportuali ma attracchi l’una sulla sponda della teoria dell’altra, sempre nell’atto di essere cancellate e così scomparire.
Guardare è mettere in viaggio sé stessi senza paura di non poter tornare, per scrivere serve slacciarsi da qualsiasi identificazione consueta, serve perdere l’individualismo di cui molti vanno fieri, serve invece scomparire per prendere il corpo coro di tutti gli altri esseri e delle loro mutazioni, trasmigrazioni, proprio come accade in molti di questi testi, tesi a spalancare le modeste dimensioni di un mondo rinchiuso, non dal covid, ma dentro voci inascoltate che abitano dentro di noi e sono eco di tutti i luoghi in cui ci si può mettere in navigazione per infiniti riconoscimenti.
Fernanda Ferraresso
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agostino arrivabene-dante divina commedia
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Da Sundara di Mauro De Candia
Profondità
Nei sotterranei di un mare selvatico,
la scorza dell’acqua,
il calore,
la schiuma.
Porgemmo tutti la gola silenziosa
agli esseri dal volto più mammiferino:
gli ippocampi.
Eravamo, noi, il siero mitologico del mare.
Cavalcando sottilissimi cavalli argentati
sovrastammo i semi dei cannoni e dei fucili,
sciogliendoci e ricomponendoci
nella notte sottomarina.
Era questa la nostra genetica nuova:
farci arcobaleni acquatici,
coloratissimi eptapedati.
Le città sul fondale, piegate in ginocchio
su possenti quadricipiti di rame,
rievocavano la purezza di una vita puntiforme,
trascesa in una roccia,
gelida e spessa come la neve di tre giorni,
silenziosa,
invisibile,
muta.
Sullo sfondo dell’abisso:
i rumori delle lavatrici,
le pulsazioni metalliche dei frigoriferi,
gli effetti nauseabondi dei sonniferi.
Abbiamo ormai dimenticato la lingua
(scivolata in qualche cavità interiore),
il suono, il colore delle parole,
e le grafie sono diventate
solo ciò che a noi apparivano
(e come li chiamavamo?):
i pregrafismi, scarabocchi impagliati.
Abbiamo ridisceso le alture
come fossero lunghissime ciglia di fango.
Anarchici dello spirito,
immaginammo, dopo la morte,
non un’ascesa,
ma la discesa ai mari.
Su un isolotto oceanico,
una ragazza giapponese
disegnava geometrie liquide:
tra le sue mani, forbici per capelli,
tenaglie e lame da samurai
e tutte quelle cose di cui oggi
nessuno fa più uso,
tranne quell’umanità
che si fa nicchia nei mestieri
tramandati dai padri.
Una coppia di lacrime le sciavano sul viso
per terminare nel mare,
imprigionate come gli insetti
nelle ambre millenarie.
Così l’eccesso di iridi restò a galleggiare
nelle ambre,
a fissare affamato,
nel vuoto,
le lune a vapore,
aspettando la caduta
dello yukata impolverato d’azzurro,
svuotato del suo corpo di ragazza giapponese,
dalla cima dell’isola mai più vista.
Corremmo all’improvviso lontanissimo,
sguaiata macchia color salmone,
e io piccola fibra di pesce,
perso in un magma di volti erosi,
in questa enorme caverna umana
misuravo, con l’impeto dell’ossessione,
lo spazio, il calore e il tempo.
Sulla terraferma
avevamo creduto di essere la Y,
ma eravamo sull’asse sbagliato,
e credevamo di essere la X,
ma eravamo ruotati
di un quarto di cerchio.
Della civiltà allo sfacelo,
con la bocca sepolta dall’acqua,
inutilmente protesa agli ippocampi,
razza estinta di uomini:
che cosa racconteremo?
Che cosa racconterai?
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La mia testa è una stanza larghissima
La mia testa è una stanza larghissima,
un bestiario di arazzi interiori.
Tu, vieni.
Bussando sulla porta di ogni occhio
si spalancano,
fiammanti come anemoni di mare,
pop-up di nervi cerebrali.
Così eccoci nell’angolo destro, in fondo:
la prospettiva della mia stanza si arriccia
velocemente come un gatto
sotto una lampada chiamata Bluette.
Ora proseguiamo,
nell’angolo sinistro.
Divano, palla di luce,
tenda, un quadro color seppia
che ritrae Leningrado
(quando ancora si chiamava Leningrado).
E il tuo viso che tuona,
Jennifer.
Tu che calpestavi
le luci minori di Harlem
avevi in realtà un altro nome.
Tu eri di certo la protagonista
di qualche thriller psicologico
(di certo anche un po’ noir):
qui sono rimasti i tuoi occhi
a galleggiare
nelle liquide camere dell’eternità.
Tutto sopravvive,
in questo eterno presente.
Ma a mezzanotte,
nella parte più lontana di stanza,
si fa rumore.
A mezzanotte,
gli Inesistenti
– i mai venuti al mondo,
i mai pensati –
scuotono mani di fiaccola
e con gli occhi piantati nella nebbia
fanno i gesti ampi dei mulini a vento,
scuotendo il grigio fumo
del crematorio di ciò che non è stato.
La mia stanza è un ventre di nuvola,
un frappè di vacillanti fuochi.
Se smettesse di girare vorticosamente,
lo spazio accanto a quel dipinto
di Keith Haring
mostrerebbe il Vuoto.
Ora che ho fermato con la mano
il vortichìo della stanza,
dalla mia testa larghissima
volano fuori come frecce
cartaplani e aeroclowns.
D’ora in poi, tutto il resto,
non so più descriverlo.
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agostino arrivabene-profumo dello spirito
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Un giorno avrai
Un giorno avrai
le mani profonde dei saggi
e un gorgo di silenzi scompigliati,
dentro.
E col silenzio
inventerai la talpa-sirena
e la volpe-gabbiano,
cavalcherai la falena testa di morto
superando il sempiterno macramè
della Tour Eiffel,
e guarderai la vita
come la guarda la sirfide
dalla faringe di un fiore di carne,
e ti incarnerai
in milioni di finestre e vetrine,
urbano spettatore rupestre
di un’umanità sbilenca,
che ciondola le gambe avanti e indietro
sulle strade.
E all’ombra del silenzio
te la ricorderai quella scena?
I dispersi leccavano con le pupille
l’ossigeno del diavolo
e li ritrovarono sfocati,
trafitti da impetuose spade chimiche:
gelavano in stormi plastici,
dipingendo, cadenti,
le anagrafi di rosso.
Per questi non c’è stato tempo
per un vero giorno.
E per questi è rimasto
solo un attimo disordinato,
il fischio sacrificale di un treno tagliente,
un diluvio di furgoni screziati di sangue,
feroci barricate notturne.
Un giorno
– più fiero, non migliore –
completerai la metamorfosi
dei capelli bianchi
nel guscio roseo di una casa di labbra.
Quel giorno
un coro canterà:
«È volato sul pendio magico,
ritratto con inchiostro di miele,
in vita ci ha affollato la bocca di parole.
Ci ha seminato girasoli nel cervello:
è già rinato».
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Tre scene del XXI° secolo
Alla maggiore età del secolo
ho raccolto,
sradicandoli da terra,
tre frammenti.
Nel primo,
tra i fantasmi olivastri
delle Twin Towers,
nel madrigale dei tuoni metallici,
restavano uncinati a pezzettini,
rampicanti su cespi di fiamma,
i versi a capo chino
di Wisława Szymborska.
Tra fiordi rossi e magri
allevati col sangue di settembre,
facevano capolino paradisi di semi.
La gente, a casa,
ripuliva dal fuoco le televisioni.
La seconda scena era a Mumbai.
Uomini neri ringhiavano ai tabernacoli
e volava una kippah nei cieli indiani,
facendosi larghissima
in testa al Taj Mahal.
Stregoni sulle altalene
trafiggevano agnelli.
La terza, a Paris.
Tremavano le sillabe di Offenbach,
crollando in tre tronconi:
Ba\rbarism
Ta\chisme
Clan\destin.
E per destino,
staccatesi da terra,
voleranno le scene in un dipinto,
abbracciate su locomotive di mandorli,
appese sulla stecconata magiara
che gela i migranti del Secolo Ventuno.
Così noi, affacciati
sugli angolini delle antologie,
scivolando con gli occhi
a centro pagina,
come levrieri a vela torneremo.
Ritorneremo incastonati al centro
a esser parte di qualcun altro,
se ognuno è sempre,
in parte,
un altro.
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Asylum (molteplici relitti)
Come spiego queste cose
trasparenti e in girotondo
che sgorgano morbide
dalle finestre
degli ospedali psichiatrici
come leggende incastonate nei castelli
(normanni, angioini, federiciani)?
Esondazioni cardiache,
decorazioni di sbarre.
Hai dovuto sradicare
calendari d’infanzia
e stanze ricolme d’occhi,
per metterti a fuoco meglio.
Si intrecciano le frasi
sulle sbarre:
«Ha bevuto un litro di diavolo,
si crede libellula».
Troppo lontani,
loro,
per sbalzo di colore,
troppo trebbiati di cuore.
Il giorno
– e ogni giorno –
stilla
denso come yogurt
che cola lentamente
sul dagherrotipo
di una lamiera,
e lascia rievocare
(sangue bianco):
che ne hanno appesi tanti in Massachusetts,
che ne hanno rinchiusi tanti,
che scrivevano parole di porcellana
– la traversata ginnica dei nodi in gola –
che avevano la seta confissa tra le costole,
ed erano una e due e tre,
e il maschio
e anche la femmina,
e il vecchio
e la bambina.
Flotsam, jetsam,
lagan and derelict.
Così si sparge ovunque
e con ogni accidente possibile,
l’alito smisurato del Caos.
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Go Gaugin
Scavando nel velluto
di una sera primordiale,
angeli polinesiani
raccolgono i cocci
dei loro occhi,
grappoli di spettri
infranti sulla sabbia.
Lui ha il sangue incendiato dal fuoco
e un circo itinerante in ogni vena:
si piega a cogliere,
come fossero margherite,
tutti i sogni ingialliti
appiccicati sulle carni dorate.
Lui ha l’accento marino nella voce,
corre ad arroventarsi di gambe.
D’ovatta è fatta,
una ragazza:
cambierà presto piumaggio,
e intanto nevicano ostriche,
in regalo da Paris
(calano anche panchine, dal cielo).
Corre Gauguin,
si inoltra nello zolfo delle cose ultraterrene
per metà,
sale in alto
e mezzo corpo è parigino,
nel cielo percosso dagli occhi ferrati:
ma crolla in basso l’altra metà,
si innalzano dal suolo mani selvatiche
ad avvelenarlo di guance,
e poi l’unzione,
lo scampanellare del corpo
nelle serate acquatiche.
Caro Mondo Nuovo,
di là perdiamo tutti i dettagli civili,
ci deformiamo
come animali nelle camere emozionali
scarnificati e incorniciati
nelle caverne editoriali
di un National Geographic Magazine,
là dove ci dipingono ad acqua,
sfocherellati,
secchi e leggeri,
sulle tele,
o su fogli di carta
o nei deliri digitali,
ridotti a insipide ombre elettroniche.
Tu vai Gauguin,
seppure inerte,
ma più forte della morte.
E noi invece da dove veniamo?
Chi siamo?
E come cadremo?
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Una pandemia
Accadde in un’altra era geologica,
in un altro alveo spazio-temporale,
quando ci proibivano di passeggiare.
Le giornate si gonfiavano come palloni,
fino a pesarci sulla schiena,
lo sterno teso al limite della frantumazione.
Le parole si agglomeravano informi,
fermentando dietro le maschere e,
furtivi come esotici animali lacustri
– salamandre acquatiche,
testuggini,
carpe Koi –
sbadigliavamo haiku elettronici al mondo
con un pezzo di grafite in bocca:
recitavano, quindi,
le matite, divincolandosi
e fuggendo guardinghe dalle case
col nostro stesso volto ligneo
intagliato,
mungendo il sangue,
con smorfie, alla paura.
In volo di pupille acrobatiche
su letti e divani senza tempo,
diventava liscio lo spazio,
liscio il respiro,
liscissimi pure noi,
insacchettati nel silenzio sottovuoto
delle confezioni urbane.
Per le strade, rara gente.
Mongolfiere umane con le traiettorie
semanticamente regolamentate
per non irradiarsi troppo,
tutti stretti nel divincolarsi della primavera.
Abbiamo camminato
nelle umide interiora di un sogno,
dirompenti come i riccioli dell’edera,
animali frugivori d’un frutto estinto.
Infine giunse un uomo su una bicicletta di seta.
Lo seguiva il figlio, a cui disse:
«Non te li ricordi più, vero, i tempi della scuola?».
Sparirono entrambi, sobbalzando come merli.
All’orizzonte, lontanissime,
straripavano di arcate di fiori,
antiche necropoli.
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Note relative all’autore
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Mauro De Candia, Sundara-Edizioni Ensemble 2021
molto belle tutte, ma specialmente La mia testa è una stanza larghissima, già fin dal titolo, una promessa felicemente mantenuta