callisto piazza-gruppo di musici (1524-1561)
.
Mi suona sempre bizzarro che, quando si cita il Rinascimento, si parli della meravigliosa fioritura artistica nei campi della letteratura, della filosofia, dell’architettura, delle arti figurative, e si trascuri la musica. (Del resto, l’educazione musicale in Italia è da sempre ritenuta un passatempo più o meno ozioso, come testimonia lo spazio ridicolmente esiguo concessale nei programmi scolastici; ma chiudiamo qui la parentesi).
Eppure, il periodo che va da metà Quattrocento al tardo Cinquecento vede nel nostro paese una concentrazione inaudita di geni musicali: nomi nostrani (Giovanni Pierluigi da Palestrina, Luzzasco Luzzaschi, Andrea e Giovanni Gabrieli, Carlo Gesualdo da Venosa, fino a Claudio Monteverdi che già apre la strada al Barocco), ma anche stranieri, soprattutto francesi e fiamminghi che venivano a lavorare nelle corti della penisola (Johannes Ockeghem, Guillaume Dufay, Josquin Desprez, Orlando di Lasso, Phillippe Verdelot, Adrien Willaert, Jacob Arcadelt, Cipriano de Rore, solo per nominare i più celebri).
Tra le forme musicali praticate nel Rinascimento – messa, mottetto, frottola, villanella, ecc. – il
madrigale fu forse quello che più caratterizzò quest’epoca. Presente già nel XIV secolo presso i compositori dell’Ars nova fiorentina, fu però nel Cinquecento che esso venne portato a livelli di raffinatezza mai più raggiunti.
Il madrigale è sostanzialmente una composizione musicale profana polifonica, di solito a quattro o cinque voci (che potevano all’occorrenza essere sostituite da strumenti), basata su un testo poetico preesistente. Su di esso si esercitarono tutti i maggiori compositori del Rinascimento.
Il bresciano Luca Marenzio (1553-1599) si pone proprio all’apice di quest’evoluzione. I suoi
madrigali sono considerati, insieme a quelli di Gesualdo da Venosa e di Monteverdi, fra le vette più sublimi mai toccate dalla musica rinascimentale. La produzione di Marenzio si colloca in quella che viene detta musica reservata, ossia un genere prezioso, destinato a un pubblico di intenditori capace di apprezzarne i più sofisticati dettagli.
Con lui, viene portata alla perfezione anche la tecnica del “madrigalismo“, che consiste in una serie di espedienti con i quali il compositore cerca di rappresentare, nella maniera più fedele e iconica possibile, il significato del testo poetico.
Quello che vi presento oggi è un madrigale basato su uno dei più celebri sonetti del Canzoniere petrarchesco, libro che fu la principale fonte d’ispirazione per i musicisti del Cinquecento.
Un’esposizione dettagliata dovrebbe scendere in dettagli tecnici che, in questa rubrica, di solito cerco di evitare. Mi limito a farne notare due, facilmente percepibili anche a chi non sia in grado di seguire lo spartito.
Sui due versi iniziali (“Solo e pensoso i più deserti campi / vo’ mensurando a passi tardi e lenti“) il soprano, ossia la voce più acuta, procede per note lunghe, ognuna delle quali dista dall’altra semitono, vale a dire il più piccolo intervallo che, nel sistema musicale occidentale, può separare due note. La linea melodica del canto prima sale dal Sol fino al La dell’ottava superiore, per poi ridiscendere lentamente fino al Re: un modo straordinario per raffigurare icasticamente i “passi tardi e lenti” descritti da Petrarca.
Il secondo esempio è sul terzultimo verso,”ma pur sì aspre vie, né sì selvagge“(da 4’56″a 5’18”), dove la musica, sino ad allora agile e scorrevole, si addentra all’improvviso in un denso e inquietointrico di cromatismi, rallentando il ritmo, a simboleggiare i sentieri erti e intricati percorsi dal poeta.
Buon ascolto a tutti.
Sergio Pasquandrea
.