TOREKE- Loretta Emiri

toreke- foto di carlo zacquini

.

Ragioni socioculturali possono determinare che una donna yanomami soffochi il suo bambino al momento della nascita. Nel caso di Toreke, i missionari dissero che la mamma non avrebbe potuto allevarlo perché allattava ancora il primogenito. Quando potetti comunicare con gli indios, seppi che la ragione vera della programmata eliminazione del bimbo andava ricercata
nel fatto che era frutto di relazione extraconiugale avuta con l’uomo di fatica della missione, un indio di altra etnia che, atteggiandosi a bianco, otteneva prestazioni sessuali a buon mercato.
L’arrivo di una donna nella missione permise di avviare un esperimento lungamente accarezzato dai religiosi che vi operavano: fra i bambini destinati ad essere soppressi, avrei allevato quelli che i nonni o zii si impegnavano a reinserire nel gruppo quando non avessero più avuto bisogno di latte in polvere.
Una volta a settimana, a volte più spesso, per quattro anni e mezzo dalla foresta ho scritto
a mia madre: un registro minuzioso di emozioni, eventi, dati etnografici, intuizioni antropologiche; materiale da cui oggi si sarebbero sprigionate scintille di ispirazione, se non
avessi bruciato una ad una, fino all’ultima, le lettere inviatele in quell’epoca. Esaltante, ma
conclusasi in modo traumatico, affidai alle fiamme la memoria scritta dell’esperienza, pensando che le ustioni che mi devastavano l’anima sarebbero cicatrizzate più in fretta se avessi eliminato tutto ciò che mi ricordava l’esperienza stessa. Sento la necessità di recuperare quelle lettere; sento la necessità di elaborare un brano che simbolicamente ne riscatti i contenuti. Ho tanto freddo in questo soffocante giorno di maggio, rimuovo la cenere, mi ammiccano minuscole braci, riuscirò con esse ad accendere un nuovo fuoco?
Era tutto pronto. Avevamo comprato biberon, latte in polvere, pannolini. Aspettavamo
che ci mandassero a chiamare quando fossero iniziate le doglie. Non essendo il primo parto, la donna si inoltrò da sola nella foresta. Qualcuno corse ad avvertire. Il missionario arrivò appena in tempo per vedere lei accovacciata e il piccolo raggiungere il suolo. Evitò di guardare e toccare il figlio, per non dover fare i conti con le emozioni che tali gesti avrebbero suscitato; si alzò e andò al fiume per lavarsi. Con uno stelo, spezzato e offertogli da una india, il missionario tagliò il cordone ombelicale; avvolse il piccolo in un asciugamano e si mosse alla mia ricerca. Mi ritrovai con un fagottino in braccio, dal quale spuntavano folti e neri capelli e due occhioni sgranati. Lo sguardo che ci scambiammo penetrò la carne e, nell’intimo di noi stessi, decifrò le già incise premesse che avrebbero trasformato la nostra relazione in opera d’arte. Coniammo un nome che potrebbe essere tradotto come “colui che si arrampica”, perché gli fosse di buon auspicio nello scalare la vita. Gli indios lo chiamarono Testapiatta, come piatta era quella del padre, di cui chiesi la testa esigendo l’allontanamento dalla missione dato che l’idea di prendermi cura dei bastardi che avrebbe continuato a mettere al mondo non mi entusiasmava proprio.
Infelicemente sposata, non avevo avuto figli. Infelice, avevo coltivavo la morte nel cuore.
Morta dentro, avevo fatto questione di non prendere in braccio la vita degli altri. Il contatto con il corpicino di Toreke provocò un maremoto. Il terremoto sottomarino produsse un violento scuotimento delle acque morte dei sentimenti, singhiozzi mi percorsero, gigantesche ondate di lacrime mi si riversarono sulle guance. Le conseguenze furono tutt’altro che disastrose. Quando le acque primordiali si ritirarono, io ero un’altra, ora capace di tenere un bimbo in braccio e di amarlo come se mie fossero state le acque rottesi al momento del parto. Non ricordo il grado di disagio che le alzatacce notturne per alimentarlo possono avermi provocato. Ricordo quanto era piacevole contemplarlo, toccarlo, sentirselo in braccio.
Porako era il più vecchio del villaggio, e anche il più scaltro, sempre disposto al gioco, ironico, simpatico. Il volto era una maschera sorridente dagli occhi furbi, perfetta rappresentazione della sua stessa indole. Contrapponendosi al gruppo, che vedeva con scetticismo l’esperienza, aveva deciso di allevare Toreke. Eravamo d’accordo che sarebbe venuto tutti i giorni alla missione per familiarizzare con il bambino, ponendo le basi per il suo
tranquillo inserimento nel gruppo. Arrivava sorridente e se ne andava raggiante. Una strana
diapositiva ritrae un vecchio guerriero yanomami disteso nell’amaca, con accanto arco e frecce, che dà il biberon ad un neonato; la luce che si sprigiona dagli occhi del vecchio offusca le immagini del guerriero e del bastardo, e mette in risalto la struggente bellezza di una relazione fra nonno e nipotino. Mi torna in mente come un vecchio guarda un bambino in un quadro conservato nella pinacoteca del Museo della Città di Rimini, e che riprende un noto dipinto eseguito da Guido Reni. Quando andò a vivere nella maloca, Toreke aveva undici mesi, Porako era ringiovanito di dieci anni, io ero ormai capace di toccare bambini e divenire amica di vecchi.
Giorni fa, prima di iniziare questo brano, la figlioletta di una coppia di amici è caduta dal
tavolo sul pavimento della cucina, è rimasta a lungo senza dare segni di vita, ha quasi fatto
morire di crepacuore la madre. Ascoltando lo svolgimento dei fatti, mi tornava in mente di quel giorno che Toreke cadde, rimase steso a pancia in sotto con la schiena arcuata, rigido, non dando più segni di vita. Credetti di morire di crepacuore. Riuscii a gridare. Eravamo davanti alla cucina della missione. Coincidenza volle che nelle adiacenze si trovasse il marito della mamma di Toreke, un rinomato sciamano. Con professionale prontezza di riflessi afferrò il piccolo per i piedi, lo mise a testa in giù, lo scrollò energicamente, gli affibbiò decisi colpi alla spina dorsale e me lo riconsegnò sano e salvo. Da quel giorno dovetti convivere con l’idea che, di nuovo, la morte avrebbe potuto tentare di strapparmi Toreke, magari quando non avessi avuto accanto qualcuno capace di neutralizzarla.
Trascorsi dieci mesi e mezzo in foresta senza sentire l’esigenza di fare puntate in città.
Pratiche burocratiche da risolvere mi stanarono per qualche giorno. Venne assunta una donna per sostituirmi. Quando tornai c’era ad aspettarmi un Toreke imbambolato, che non cambiò
espressione alla mia vista, né alle mie parole e moine; che però si avvinghiò a me come il
naufrago allo scoglio. Mi avrebbe fatto comodo la collaborazione della donna, dato che i
bambini da svezzare già erano due. Il fondato sospetto che avesse imbottito il piccolo di chissà quali porcherie per paralizzarne la vitalità, mi convinse ad invitarla a prendere posto sulla camionetta con la quale ero tornata e che faceva immediato ritorno in città.
Come Porako era venuto tutti i giorni alla missione per accompagnare la crescita del bambino, così io andavo tutti i giorni a trovarlo nella grande casa comunitaria per accompagnarne l’inserimento. Iniziò così il mio inserimento nella vita degli indios.
Allontanandomi dalle strutture che facevano parte della missione, e sottraendomi alle spesso
cretine attività che ne derivavano, mi avvicinai alla vita e cultura yanomami. Venne il giorno che il gruppo decise di trascorrere un periodo in foresta per cacciare, pescare, raccogliere materie prime e cuccioli di animali. Trascorsi questa nuova separazione da Toreke pensando al rincontro, immaginando come sarebbe stato. Qualcuno percepì che gli indios stavano tornando. Sentii il cuore balzarmi in gola e le gambe balzare in avanti. Corsi emettendo grida tipiche di richiamo e sbracciandomi per dare il benvenuto al gruppo. Travolsi la zia di Toreke nell’attimo in cui lui si tuffava dalle sue spalle per immergersi nel mio mare. Lo ritrovai ingrassato, abbronzato, dipinto e profumato di urucu, spumeggiante nella sua vitalità.
Porako arrivò un giorno dicendo che aveva fatto confezionare un cinto di cotone per il
nipotino; cresciutello ormai, era ora che, indossandolo, esprimesse il senso del pudore. Il primo cinto di Toreke è l’oggetto più prezioso facente parte della mia collezione di cultura materiale yanomami. Una foto registra il rito di passaggio da una fascia di età all’altra del bambino; vi è focalizzato un orecchio bucato, con inserito un filo di cotone ad evitare il richiudersi del foro prima della completa cicatrizzazione; qualcuno ha detto che è artistica, per me è foto di famiglia.
Dopo una riunione alla quale non mi fecero prendere parte, il vescovo stesso, un piemontese falso e cortese, mi comunicò che alle prime luci dell’alba sarei stata caricata su di un camion e allontanata dalla missione. Credetti di morire di crepacuore. Era già buio. Raggiunsi l’abitazione indigena e chiesi di tenere Toreke un po’ con me. Tornai nella mia casetta di legno, mi sdraiai e feci giocare il bambino sul mio corpo. Giocavo e ridevo con Toreke per
neutralizzare la morte nel cuore. Il suo corpicino nudo mi fece pensare alla spudoratezza che può celarsi dietro abiti talari, e mi fece sentire il desiderio di fondermi con lui in quello che sarebbe stato l’ultimo abbraccio. Mi spogliai. Al contatto fisico affidai il compito di far sentire a Toreke che eravamo una sola carne. Nel suo sguardo colsi sorpresa, un ché di interrogativo, a dirmi che sentiva che qualcosa di strano stava accadendoci. L’ultimo sguardo che ci scambiammo penetrò la carne e, nell’intimo di noi stessi, incise messaggi indelebili, definitivi.
Quando riportai il bimbo nella maloca, non confidai niente a nessuno perché, per non
impazzire, volevo credere che la chiesa gerarchica sarebbe rinsavita e tornata sui suoi passi. Non solo non mi ripresero a far parte dell’équipe di lavoro, ma, fino a che Hitler si mantenne
vescovo, mi fu proibito rimettere piede nella missione. Mi ci vollero quasi tre anni per tessere
quella ragnatela di amicizie, contatti, articolazioni che mi permise di ottenere tanto di
autorizzazione del governo brasiliano ad operare su tutto il territorio degli Yanomami, e di
recuperare lo spazio fisico-geografico fra di loro. Raggiunsi una località vicina alla missione.
Stavo per accingermi a percorrere l’ultimo tratto di strada, quando un prete dai capelli biondi e squallidi occhi celesti sbarrò il mio cammino. Divaricò le gambe, appoggiò le mani ai fianchi e ruttò l’ordine di non metter piede nella missione. Minacciosamente aggiunse che, se avessi
tentato, me lo avrebbe impedito per rispettare la volontà del vescovo. Questo momento fu più
doloroso della deportazione, del lungo esilio. Senza anestesia, con un bisturi da macellaio, mi
veniva estirpato l’utero della speranza. Volevo solo rivedere bimbo e comunità cui sentivo di
appartenere; volevo solo dare loro la mia versione dei fatti; volevo solo demolire la sensazione di abbandono che devono aver provato vedendomi scomparire su due piedi senza dare spiegazioni; volevo solo cantare loro una nenia che parlasse della disperazione di una mamma: dell’intero ceppo famigliare, unica sopravvissuta a un campo di sterminio nazista.
La prospettiva di ricevere nuovi rifiuti paralizzò la mia volontà; neanche in epoche molto
successive chiesi più di entrare nella pretesa area di giurisdizione della missione. Agli
Yanomami che venivano in città, o che incontravo in altre regioni del loro territorio, non chiesi
mai notizie di Toreke per non correre il rischio di sentirmi dire che era morto. Soffro di incubi;
sogno spesso di raggiungere un villaggio che sistematicamente incontro vuoto, perché gli indios sono tutti morti durante un’epidemia di morbillo, o si sono trasferiti nella favela alla periferia di Boa Vista; di fronte alla percezione che non potrò vederli, il sogno si trasforma in incubo, il lamento in grido.
Ho trascorso recentemente un periodo in Roraima. Ho fatto visita al nuovo vescovo. È un
brasiliano schietto e cortese. Non ha giurato fedeltà alla chiesa romana, ma al popolo di Dio.
Non usa il pastorale, perché dice che il suo potere lo ha già diviso con i poveri. Ha sostituito la
mitra con un copricapo indigeno. Non ha anello da far baciare, perché accoglie i visitanti a
braccia aperte. Mi ha fatto pensare a Oscar Arnulfo Romero e Juan Gerardi, vescovi morti ammazzati. Mi ha invitata a trascorrere qualche giorno nella missione. Una sua collaboratrice mi ha detto che Toreke è un giovane uomo robusto e tranquillo.
Sto preparando la valigia. Regalerò a Toreke due immagini mentali nitidissime. Gli
ricorderò di quando lo trovai che saltellava e cantava, pancia in fuori, muovendo le braccia come fossero ali; la grazia dei suoi movimenti mi fece pensare al più bello fra gli uccelli che popolano la foresta amazzonica. La seconda immagine vede i suoi parenti tornare dalla caccia e lui gridare “è frutta, è frutta”; ammiccandogli con i suoi occhi furbi, Porako gli aveva dato il segnale di prendere in giro il gruppo facendogli credere che gli uomini stessero riportando frutta, quando in realtà si trattava di prelibata carne di tapiro. Insieme alle due immagini consegnerò a Toreke il dipinto iniziato alla nascita e ultimato il giorno in cui ci separarono, quando lui aveva tre piccoli anni e mezzo; vi appare come io l’ho sempre visto: in tutta la sua grandezza di intelligente, compiuto essere umano.

 

Loretta Emiri

.

Glossario
Maloca: grande casa comunitaria o villaggio indigeno.
Urucu: materia colorante estratta dall’omonimo frutto.

1 Comment

Rispondi

Inserisci i tuoi dati qui sotto o clicca su un'icona per effettuare l'accesso:

Logo di WordPress.com

Stai commentando usando il tuo account WordPress.com. Chiudi sessione /  Modifica )

Foto Twitter

Stai commentando usando il tuo account Twitter. Chiudi sessione /  Modifica )

Foto di Facebook

Stai commentando usando il tuo account Facebook. Chiudi sessione /  Modifica )

Connessione a %s...

Questo sito utilizza Akismet per ridurre lo spam. Scopri come vengono elaborati i dati derivati dai commenti.