RACCONTANDO- Francesca Eleonora Capizzi: E’ accaduto in aprile

le vie di dacca -bangladesh

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Sono arrivata a Savar, un sub-distretto nella grande area di Dacca. Mi hanno detto che avrei potuto trovare un lavoro. Mi muovo per le strade camminando in moto accelerato. La testa mi pulsa dolorosamente. Provo un impaurito disagio a muovermi nella confusione a cui non sono abituata. Sono nata e cresciuta in un villaggio non proprio vicino a questa capitale. I miei genitori vivono ancora lì. La mia bambina e io viviamo in un altro villaggio meno lontano da questa città. Mia figlia oggi è restata coi nonni e con altri bambini figlie e figli di nostri parenti. La condizione in cui viviamo è di estrema povertà. Ci manca l’occorrente per sussistere. Non abbiamo nessuna risorsa oltre quella di noi stesse a cui dobbiamo dare nutrimento per restare nei nostri corpi. Questo è il motivo per il quale oggi mi trovo qui. Mi hanno assicurato che in città si trova un grande edificio con alcune fabbriche tessili dove “prendono” donne e uomini per lavorare nella produzione di capi di abbigliamento. È li che sto andando. Ancora pochi metri di strada e arriverò. Da lontano vedo già la sua pesante mole. Eccolo: il Rana Plaza. Una struttura davvero mastodontica per i miei occhi non abituati a simili costruzioni. Entro dentro.
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 bangladesh- .rana plaza- e interni di lavoro marzo 2010

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È affollatissimo. Ci sono molte donne e uomini che lavorano, credo siano più donne che uomini. Una fitta vicinanza di corpi compie movimenti precisi, ritmici, automatici, in moto perpetuo. Ho l’impressione che stiano per una legge di compressione, grazie alla quale si sostengono a mezza aria senza che il pavimento possa essere né toccato né visto. Ma, simultaneamente il mio sguardo si focalizza su una bambina sdraiata per terra, dormiente con le braccia scomposte e il viso di una anziana. Riesco a parlare con un uomo che mi assume il mattino stesso per iniziare a lavorare immediatamente.

Cosí sarà ogni giorno. Quasi sempre porterò con me mia figlia Reshma. Anche lei, quando sarà troppo stanca, si stenderà come la bambina che vidi la prima volta. Anche lei apparirà una persona vecchia, rattrappita come fosse contratta e non potesse più sciogliere quella rigidità. Voglio dare una possibiltà a mia figlia. Vorrei mettere da parte qualcosa per lei. In un mese si ricevono all’incirca quaranta dollari di stipendio e le ore di lavoro sono infinite. Siamo cosí stanche, Reshma e io, che appena ci fermiamo ci addormentiamo abbracciate.

Sono numerosi e internazionali i brand che spostano la loro produzione qui in Bangladesh.
Per esempio: Matalan (Uk), Bon Marche (UK), Camaieu (Francia), Carrefour (Francia), Benetton (Italia), Manifattura Corona (Italia), Yes Zee (Italia), H&M (Svezia), Cato Fashions (USA), The Children’s Place (USA), Wahmart (USA), Mango (Spagna), El Corte Ingles (Spagna), Texman (Danimarca), Joe Fresh (Canada), Kik (Germania)… e altri marchi, sigle, catene umane di forza lavoro. Noi lavoriamo per una produzione che verrà esportata, venduta a prezzi non confrontabili con il nostro lavoro e la nostra retribuzione. Offriamo all’Occidente, tanto industrializzato, la nostra manodopera così disperatamente resa tenace e a basso costo dalla miseria.

Un mattino, sparse nell’edificio sono evidenti alcune crepe. Guardo la facciata del palazzo. Mi scuote una similitudine o una allegoria: oscilla tra il regno animale e quello vegetale. Sono sensazioni forti che mi spingono a fermarmi, riflettere, non muovere un muscolo oltre quelli involontari. Qualcosa di tentacolare fuoriesce dagli abissi marini innescandosi a ramificazioni con veloci radici simili a ventose. Sento le mie arterie ricevere sangue che non scorre, sangue che si rapprende. Conto i piani dell’edificio. Sono otto: quattro dei quali sono occupati da banche e negozi; gli altri quattro, nei piani superiori, sono stati costruiti senza un permesso; non erano comunque progettati per ospitare fabbriche, non potendo reggere a lungo le pesanti macchine tessili. Oggi stesso vengono chiusi i quattro piani inferiori facendo evacuare le persone che li occupano. A noi, che lavoriamo nei piani alti, ci intimano dispoticamente di ritornare a lavorare anche il giorno seguente. In caso contrario non ci pagheranno lo stipendio per un mese. Devo staccarmi, devo concentrarmi, devo sentire cosa dovrò fare. Devo scegliere. Non ho possibilità. Sento la vigliaccheria in ogni scelta che immagino di compiere. Comunque io mi rigiri tra i cunicoli del labirinto non sento l’avvento del coraggio. La prima cosa che farò sarà ciò che non farò: non porterò Reshma con me. Domani lei sarà fuori dall’edificio. Quei soldi ci servono. Domani, anima infranta, corpo obbediente, come un’automa andrò dentro la costruzione. Così ho deciso.

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 bangladesh- rana plaza- prima e dopo il crollo del 24 aprile 2013

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Dopo qualche ora di lavoro, il più grave incidente mortale in una fabbrica tessile è vissuto da tutti noi. Il crollo. La sentenza dopo l’annuncio. Fui ritrovata sotto le macerie dopo giorni dal disastro avvenuto in quel giorno di aprile. La gioia che mi sostenne in quella pre-morte fu quella di sapere che, in qualsiasi modo fosse andata la mia vita, Reshma sarebbe stata fuori da ciò che stavo vivendo. Pensare a lei fu un pensiero di luce in grado di concedermi momenti di grazia durante un tempo non quantificabile. Vivere l’immanenza senza poterla trascendere. Restare incredula e sentire la beffa della stessa vita. Appartenere all’universo e non poterlo esprimere. Sentire la sofferenza di chi è oppess*, di chi non può difendersi fu una sensazione che si impadronì completamente di me, senza distinzione tra stato di veglia e sonno. Noi sopravvissut*, insieme ai parenti delle vittime, protestiamo, lottiamo per avere i risarcimenti e ottenere la chiusura di fabbriche clandestine, senza sistemi di sicurezza, sovraffollate, non protette da nessuna norma. Alcune aziende, tra cui Benetton, Yes Zee e altre, non vogliono darci i risarcimenti richiesti. La Yes Zee ha partecipato alla Campagna

“Abiti puliti” spostando l’attenzione sull’impegno sociale, civile; negando ogni coinvolgimento con la fabbrica del Rana Plaza. Quando, fra le macerie, sono state ritrovate etichette con il suo nome ha negato furiosamente, minacciando un’azione legale contro coloro che avessero fatto un qualsiasi collegamento con la fabbrica crollata. Il cinque giugno, durante una manifestazione, la polizia spara su noi manifestanti. Non ci vogliono neanche riconoscere le perdite di vite umane, le ferite, le ingiustizie, le violazioni… subite. Anche Reshma, nella sua fanciullezza, ha colto il significato di certi comportamenti del mondo adulto legati alla violenza del potere economico.

Noi partecipiamo a una lunga marcia.

Francesca Eleonora Capizzi

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Nota al testo

Ringrazio personalmente Andrew Morgan per il suo documentario: The True Cost

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