RACCONTANDO- Francesca Eleonora Capizzi: La mia amica K.

daria petrilli- silent dialogues

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Le sue mani erano così piccole che tutte le volte che le guardavo mi veniva da pensare a una bambina. Una bambina invecchiata. Una bambina che non aveva avuto altre fasi nella propria vita. Una bambina che continuando a vivere non era cresciuta, non si era estesa nel corpo, e ora quello stesso corpo aveva ammucchiato un bel po’ di ricordi. Ricordi che la sigillavano in una statura di piccole dimensioni. Portava i capelli lunghi e neri con riflessi rosso mogano. Quando li scioglieva, i suoi capelli le ricadevano lungo la schiena inondandola di sofficità. Un giorno allungai una mano per l’istinto irrefrenabile di poterglieli toccare. Fu un attimo. Mi ritrovai una tale morbidezza sotto le dita da non volere più lasciare andare quella materia. Mi venne voglia di buttarmici di faccia per ampliare quella sensazione. Non lo feci perché lei rimase così stupita del mio primo gesto da bloccarmi nell’esecuzione del secondo. Ho contato i giorni in modo nuovo: da quel gesto, come se fosse una data dalla quale fare partire il mio calendario. Poi i giorni sono diventati anni e ho smesso di contarli come giorni. Non li ho considerati sempre come atti unici, rari, insostituibili e mai intercambiabili. Siamo diventate amiche. Due donne che si raccontano, che vogliono imparare a ridere, a smettere di buttarsi via come avevamo sempre fatto. Lei mi chiede di raccontare la sua storia, anche solo qualche episodio qua e là; di scrivere le parti che non si vorrebbero mai rivivere per lasciare un segno, per depositare ancora un’altra prova. Scrivere di lei, se un giorno mi riuscisse.
Appena si comincia, si avvertono errori, malintesi, pregiudizi, superficialità, dolore. Si comprende che non saranno sufficienti le numerose parole che ci approntiamo a mettere sulla carta o da qualsiasi altra parte. Credere di compiere una narrazione esaustiva è presunzione. Le cose non combaciano come presupponevamo e, allo stesso tempo, ora, si materializzano sentieri, i quali sono comunque un invito a percorrerli. Non riuscirò mai a racchiudere la sua storia, o una sua parte, nella scrittura di un testo. Vi sono episodi inalterabili. La scrittura si ritira. La scrittura non carica con aggettivi; esclude per trattenere i lamenti inascoltati. L’avere ammesso, ora mi permette di continuare a scrivere. Una sera, senza sonno nel suo letto, K. pensa di scendere giù in cucina e mangiare una pesca succosa e odorosa. Non é certo un’azione di cui provare vergogna pensa lei, pregustandone la polpa. K. scende gli scalini uno per volta coi suoi piccoli piedi dentro le delicate pantofole di velluto verde. I suoi passi, scendendo, si fanno sempre più incerti finché scorge senza più incertezza una luce in cucina. Si accorge che ci sono altre persone. Anche loro: suo padre e due suoi amici, la vedono.
«K. cosa ci fai qui, sveglia, a questa ora?»
«Papà non riuscivo a dormire»
«Avresti potuto chiamare tua madre»
«La mamma dormiva, non volevo svegliarla»
«K. K. avresti potuto startene a letto e ti saresti sicuramente addormentata»
«Va bene papà, ritorno a letto, bevo un bicchiere di acqua e vado»
Lei sale le scale con la sensazione che le fosse accaduto un fatto brutto. Gli occhi di uno dei due amici del padre le si ripresentano nella memoria. Quella notte fatica per dormire, sente di essere stata squadrata, osservata. Le permane la sensazione di un male fisico diffuso in tutto il corpo fino a impadronirsi di ogni altro pensiero. Il giorno seguente rivede lo stesso amico del padre a casa sua. Lo sguardo è il medesimo della prima volta. Si sente soffocare. Si continua a chiedere: “Perché mi fissa in quel modo?” Dopo una settimana lo vede da lontano, all’uscita della scuola. Anche lui, probabilmente, va a prendere una figlia, un figlio in quella stessa scuola. Se ne sta quasi immobile a fissarla per non farla andare. Una sorta di magnetismo o incantesimo, pensa lei. K. non vuole restare lì a farsi guardare, è infastidita, le viene da piangere. Lo rivede per cinque mesi circa, sempre a una certa distanza, sempre con lo stesso sguardo privo di movimento, sempre con quel temperamento apparentemente casuale, sempre prepotente e perfino violento anche se non compie altre azioni oltre il guardare. In uno di questi momenti K. chiama sua madre per mostrarle l’uomo che con tanta ostinazione la fissa, ma lui si dilegua, si rende assente. Questo periodo ebbe fine: K. non lo vide più; riprese a giocare, a mangiare con appetito, a vivere con tranquillità. Una parte di lei però non viveva pacificamente. Questa parte le faceva sognare mostri che la agguantavano, occhi fuori dalle orbite che lesionavano la sua pelle, mani che volevano toccarla, voci che le sussurravano parole incomprensibili… Nei sogni lei correva, correva fino al desiderio di volare. Una sola volta le riuscì, nel sogno, di volare. Dopo anni, in un tramonto invernale così buio da sembrare notte fonda, K. esce dalla casa di un’amica per ritornare nella propria. Deve percorrere una strada stretta, poi una via più ampia e lunga, e ancora una strada più affollata che infine la condurrà nella tana. Nella prima strada stretta sta un uomo alto, sulla quarantina, con un cappotto beige e un basco in testa. È l’unico passante in quella stradina, oltre K..
«Ciao piccola» dice l’uomo con voce scandita. K. prova una paura istintiva così forte da tremare in tutto il corpo.
«Perché non mi saluti? Potremmo giocare insieme» La sua voce allusiva, viscida dà i brividi a K.,
che non può parlare e come nei suoi sogni sente di volere correre. Corre tanto forte che non vede un gradino e inciampa. L’uomo la raggiunge. Ha lo stesso sguardo di quell’amico del padre, la faccia è un’altra. K. non capisce. L’uomo l’aiuta a rimettersi in piedi.
«Ti sei fatta male? Fammi vedere»
K. non ci crede alle sue parole. Quando sta per assecondargli la fiducia lui la guarda con occhi che non le piacciono, le incutono una paura ancestrale, un qualcosa che lei non ha mai vissuto ma sente fortemente come se le fosse stato tramandato. Un dolore le si scatena, lei si paragona a un animale prigioniero nell’atto di soffrire per qualcosa che le altre persone non vedono, non percepiscono.
Esita solo apparentemente perché dentro di sé c’è forza necessaria per gridare con voce possente. Basta. Dargli le spalle velocemente, riprendere la corsa. Una corsa divenuta allenamento costante nel corso degli anni a venire. Una notte-o-sera-che-sia, quattro uomini la circondano chiudendole le possibilità di fuga in direzione degli angoli, delle linee, dei segmenti che rigidi si erigono sbarrandole il passo. Il teorema di Pitagora con la somma dei suoi cateti, la sua ipotenusa non può offrirle soccorso in un momento simile. Lei é spaventosamente sola. Distanza incolmabile.
Differenziare: vivere nel proprio corpo-immedesimarsi in un altro. Comprensione della parola sacrilegio. Ferita privata del destino di cicatrizzazione.
Qui il racconto non tira fuori le parole per scriverle. La narrazione compie una ellissi.
Il dolore è troppo.
K. denunciò ogni uomo, ogni azione, ogni ombra di quella notte-o-sera-che-sia-stata.
K. compì un atto di coraggio

 

Francesca Eleonora Capizzi

 

 

 

NOTE RELATIVE ALL’AUTRICE

Nata il 7 novembre 1963 a Catania, ha conseguito la maturità linguistica.
Scrive dal periodo della fanciullezza anche se avrebbe voluto fare l’attrice.
Non ha completato i corsi di teatro frequentati a Bologna, all’università del DAMS.
Ha quattro figli e vive a Sasso Marconi. Scrive poesie, racconti, testi teatrali. Fa parte de Le Voci della Luna.

 

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