silvestro lega
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Leggere La famiglia Aubrey di Rebecca West può diventare un’impresa faticosa o una compagnia irrinunciabile, tutto dipende dalla tenacia con cui si affrontano le prime decine di pagine per immettersi nel “passo” di scrittura che ha voluto imprimere l’autrice.
Scritto a fine anni Cinquanta, però ambientato nei primi anni del Novecento, racconta le vicende di una famiglia inglese di ceto borghese, resa povera dalla precarietà degli introiti. Il padre, di origine irlandese, è un apprezzato giornalista ma « detestava a tal punto la situazione ingenerata dalla logica degli eventi che aveva bisogno di ignorarla facendo appello al caso». Infatti gioca in borsa perdendo ingenti somme in speculazioni sbagliate. La madre, di origine scozzese, valente pianista nei suoi vent’anni, ora insegna musica alle figlie in vista di una loro attività professionale nel campo.
Cordelia è la primogenita, senza alcun talento musicale, a detta della madre e delle sorelle gemelle Mary e Rose, ma si impegna e ostina a studiare violino, supportata da una professoressa che crede nel suo presunto talento. Rose è la voce narrante del romanzo, lei e la sorella studiano pianoforte con profitto, orgogliose della loro predisposizione, mal sopportando gli sforzi e gli atteggiamenti della sorella maggiore. Il più piccolo dei figli è Richard Quin, così chiamato in ricordo di uno zio paterno, è di buon carattere e il preferito dal padre, non si impegna né nello studio né nella musica.
I figli sono molto vicini ai genitori e, a parte Cordelia, riescono a trarre il meglio dalla loro situazione, nonostante l’emarginazione dai compagni, a scuola, i vestiti logori e l’assedio dei creditori alla porta. È la madre che affronta le situazioni imbarazzanti, il padre preferisce sottrarsi uscendo dal retro della casa o rintanandosi nel suo studio. Questa immagine è emblematica della coppia genitoriale: madre presente e multitasking, padre assente o assorto nei suoi studi, scritti e progetti. Ma da questo apparente schematismo ci mette in guardia Rose che meglio racconta la complessità delle relazioni familiari, comunque governate dall’affetto, declinato in vari modi. Il padre, benché privo di slanci affettuosi, è amato dai suoi figli e, da parte sua, nutre il loro immaginario costruendo giochi complicati e fantasiosi, rendendo indimenticabili le feste di Natale.
Questo libro è il primo di una trilogia che vedrà la crescita e la maturazione dei figli, attraverso il “cuore della notte” della Grande Guerra e l’affermarsi come pianiste di Mary e Rose. Non è romanzo di eventi, colpi di scena, rivelazioni o altro, la trama è esile, l’intreccio pressoché inesistente, segue una linea temporale che marca i tempi delle stagioni, della scuola, della crescita, dello studio e della musica. Le riflessioni di personaggi e personagge usano proprio la musica come termine di paragone per contenere i fatti della vita, spiegarne le cause e gli sviluppi.
Il racconto di Rose mostra un microcosmo in cui l’infanzia guarda al mondo degli adulti, al di fuori della famiglia, con sorpresa e persino inquietudine, tollera la sua indifferenza e maleducazione e si protegge nutrendosi di letture, fantasie su animali e piante immaginarie, osservazioni della natura, brevi viaggi in una Londra molto diversa dall’attuale, con vaste zone boschive e quasi selvagge vicino ad aree urbanizzate. E naturalmente musica, tanta musica, studiata, eseguita, al punto che pare di ascoltarla leggendo.
Molte le note di costume disseminate nel romanzo, come quella sulla servitù: «A quei tempi anche le famiglie più povere avevano dei domestici, e condividevano la loro povertà con qualche ragazza indigente». In casa Aubrey c’è Kate, la tuttofare dotata di grande sensibilità a cui le ragazze raccontano le loro esperienze, ma la madre, in controtendenza con i tempi, si dedica, per necessità, anche alla cucina e ad altre incombenze e alle ragazze non sfugge la sua aria affaticata e la trascuratezza con cui si propone, a differenza delle altre madri.
In famiglia aleggia un certo orgoglio di appartenenza che funge da corazza verso l’esterno e colpisce la sottile differenza che sottolinea Rose nel confronto con altri a proposito di: «Persone che in quei giorni venivano definite “ordinarie”. Bambini più fortunati di noi avrebbero potuto chiamarli poveri, ma noi sapevamo bene come andava il mondo, perché la maggior parte di queste persone non erano più povere di noi. Erano persone che vivevano in case brutte in strade brutte tra vicini che si ubriacavano il sabato sera, e che non leggevano libri, né suonavano qualche strumento, né visitavano musei ed erano scortesi gli uni con gli altri senza motivo […] Non provavamo disprezzo per persone come queste, semplicemente intuivamo che non passavano il tempo in maniera divertente quanto noi e ci eravamo rese conto, dal momento stesso in cui avevamo cominciato a capire le cose, che potevamo contare solo sui nostri sforzi per non ritrovarci a vivere a quel livello».
Le gemelle Mary e Rose avvertono la morsa della povertà che le minaccia, ma non se ne curano più di tanto, tutte tese nel progetto di costruirsi un futuro come pianiste, a differenza di Cordelia che soffre dell’eccentricità della famiglia e anela alla normalità che vede nelle sue compagne di scuola, disposta a tutto pur di essere accettata da loro. E quando le gemelle cominciano a studiare con il miglior maestro di Londra, capiscono di essere entrate in un mondo di pari in cui poter parlare la stessa lingua anche se: «Dicemmo addio per sempre agli elogi, che sono la prerogativa dell’amatore […] un insegnante si deve soffermare sui difetti e non sulle qualità».
Sono ragazzine con un grande senso della disciplina, come appunto presuppone lo studio della musica, ma stupisce cogliere tanto senso pratico in giovane età.
Rebecca West (1893 – 1983), nom de plume di Cicely Isabel Fairfield, è stata un’affermata scrittrice e giornalista, molto importante nella sua epoca e poi, come sovente succede, quasi dimenticata. La sua vita privata non fu meno interessante della scrittura, si avvicinò giovanissima al femminismo e al socialismo e si legò, appena ventenne, allo scrittore H.G.Wells, di molti anni più grande di lei, senza mai sposarlo ma dando alla luce un figlio. Sposò poi un amico ma altri legami le furono attribuiti, tra cui quello con Charlie Chaplin.
La critica ritiene che questa trilogia sia ampiamente autobiografica e sicuramente lo è l’ispirazione ma fino a che punto non è dato sapere. È più semplice affidarsi alla prosa lenta, alle analisi delle relazioni, alle sue dettagliate descrizioni della natura e delle persone, senza interrogarsi su quanto sia verità e quanto sia invenzione. Le ragazze Aubrey incantano per come sono, per quello che dicono e per quello che sognano, per la loro capacità di cogliere le contraddizioni dei loro genitori eppure amarli teneramente.
Laura Bertolotti
Immagine dell’autrice
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Rebecca West, La famiglia Aubrey – Fazi Editore 2018