agitu ideo gudeta (foto ansa)
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Ho pensato più volte in questi giorni ad una donna, Agitu Ideo Gudeta, etiope trapiantata in Italia, in Trentino da alcuni anni che, con lucida determinazione era riuscita a portare avanti, con passione e competenza, il suo sogno di imprenditrice, vivere in armonia con la natura e recuperare 11 ettari in abbandono per far pascolare il suo gregge di capre, non un gregge qualunque ma di camosciata delle alpi e di una bellissima razza pezzata, la capra Mochena, autoctona e molto rustica, adatta a una agricoltura sostenibile. Aveva studiato sociologia a Roma e a Trento da dove, conseguita la laurea in sociologia, era poi tornata in Etiopia, infine era ritornata in Italia a causa delle guerriglie etniche che dilaniano la sua terra, dentro una grave crisi umanitaria e a causa di una minaccia sempre più stringente per la identità e libertà della popolazione contadina.
I media ne hanno annunciato variamente l’uccisione il 29 dicembre e l’anno 2020 si è chiuso con la notizia dell’ennesimo ed esemplare delitto, perpetrato da un uomo verso una donna. Un uomo che era dipendente della azienda agricola fondata da Agitu e che aveva ricevuto questa opportunità da una donna che ce l’aveva fatta, che aveva avuto successo, se per successo intendiamo portare avanti un sogno, anche a costo di grandi difficoltà, ma portarlo in salvo, realizzarlo. Infatti Agitu Ideo Gudeta era in Italia per le minacce di morte ricevute in quanto aveva denunciato le politiche di land grabbing, cioè l’occupazione e l’accaparramento di terre da parte di aziende o governi, senza il consenso delle comunità che le abitano o le utilizzano per la loro sussistenza, sopravvivenza, vita dignitosa. Dunque lei era una donna che aveva chiaro il sentimento e l’idea di libertà, di cittadinanza e convivenza civile, di rispetto dei diritti umani, di lavoro e realizzazione, e si era fatta oppositrice di pratiche di sopraffazione violenta o fraudolenta. Lei aveva tentato di difendere gli interessi dei contadini, la loro storia, la storia dei loro avi, che era anche la storia di Agitu.
Penso ancora alla sua figura e alla sua storia di donna che, anche una volta trasferitasi in Italia, aveva dovuto affrontare il pregiudizio, il sessismo, il razzismo, certamente di un suo vicino che la chiamava con il dispregiativo ‘negra’ e a cui aveva dovuto rispondere, anche mediante azione legale per stalking, a causa di ripetute minacce e offese.
Immediatamente dopo la sua morte la narrazione di un femminicidio da parte di diversi media si colorava di un razzismo democratico, cioè attenuato, cioè mistificato da alcune aggettivazioni a dir poco inopportune e improprie.
agitu ideo gudeta -valle dei mocheni
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Ragazza, rifugiata, invece che pioniera delle Alpi, pastora in val di Gresta, allevatrice e produttrice di formaggio assolutamente biologico, perché ‘a latte crudo’ cioè senza fermento industriale, da latte da animali che sono al pascolo, dai 200 mt a 1200 mt, e dietro questo progetto tanto coraggio.
I media, in men che non si dica, invece che raccontare di un uomo che aveva ricevuto la possibilità di lavorare presso la sua azienda e forse di riscattarsi da un passato di marginalità, ignoranza, violenza, si preoccupano di sottolineare che si tratta di un ghanese, il quale avrebbe reclamato il pagamento di un rateo stipendiale. Tutto da accertarsi, ma certo quel che si scopre dopo poche ore è inquietante. Dall’esame del corpo della donna e da una ricostruzione plausibile dell’accaduto pare che l’uomo, dopo essere entrato in casa di lei, la minaccia, l’aggredisce, la colpisce violentemente e mortalmente e mentre lei agonizza non si ferma, la stupra. Vi è una sorta di storytelling, nella sproporzione raccapricciante di una dinamica conflittuale, con drammatico epilogo.
Cosa fanno i media? Come raccontano Agitu? Che cosa resta di una combattente? Forse l’icona di una giovane donna rifugiata, probabilmente inadempiente nel pagamento di un rateo stipendiale, in tempo di Covid-19, quando si sa, si può immaginare che anche la più solida azienda è in crisi, figuriamoci un’azienda agricola portata avanti solo da una donna. Tutto qui. Nessun ritardato pagamento giustifica un simile delitto. Qui finisce la triste povera cronaca di un fatto di cui ci dimenticheremo presto. In fondo sembra qualcosa che si risolve tra due extracomunitari, qualcosa di sopportabile. Una storia che però diventa anche spia di uno sguardo impietoso sul mondo, perché ogni narrazione è il frutto di una cultura massificata, evidentemente, di un pensiero unico, pervasivo, di cui siamo tutti portatori sani, con un livello di avvertenza sulla questione delle differenze, molto bassa, bassissima. Ma la narrazione continua. Le differenze sono valore. Agitu aveva dato anche il nome dei suo avi, contadini nomadi, alla sua azienda, aveva lottato per i diritti dei contadini nella sua terra, era venuta in Italia per realizzare lo stile di vita che amava, vicina alla natura, e in quel suo strenuo intraprendere, si era formata adeguatamente, prima di assumere un rischio imprenditoriale.
È bastato un insulso uomo a ucciderla. E prima a stuprarla. Lei che aveva combattuto per tanti. Lei che aveva combattuto anche contro la devastazione ambientale dei poteri forti e dimostrato qui, con entusiasmo, fatica, determinazione, che si può vincere se si crede e si vuole. È seguita una divulgazione della notizia superficiale, con qualche particolare e aggettivazione parziale. Non si dovrebbe cedere alla tentazione di superficialità in questi casi e mai comunque. Non ce lo possiamo permettere. È un fatto di civiltà. Certamente ci si aspetta che la giustizia faccia il suo corso. Ma la speranza è anche che non si chiuda la riflessione sulla questione di genere nella narrazione mediale, nonché sulla questione delle libertà umane.
Maria Grazia Palazzo
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agitu ideo gudeta