FRANCESCO SASSETTO E L’OIKOS DESITUATO- Recensione di Lucia Guidorizzi

enrico cortesano- venezia

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Gransi

Quanti ani xe passài su i to cavèi e su le me man
quanti fóghi destuài e che vódo desso
in fondo a le cale, tante robe fate e desfàe
come i casteléti de i putèi davanti al mar
co riva l’onda più longa che tuto destìra
e covérze de sal.

Semo gransi rampegài a fadìga su un tòco
de barena, tiremo el còlo a sercàr el cielo
alto
sora l’aqua che sbrìssa per i ghèbi
avanti indrìo a rosegàr la tèra
che ne tien a gàla.

A ogni spunciòn de pièra se branchémo
a tuto se tachémo
co le sàte e ‘l cuor

Sbrissémo pian nel pòcio che ne ingiòte.

 

La poesia di Francesco Sassetto, generosa ed attenta nel cogliere le dissonanze del vivere, si avventura sempre lì dove le crepe dell’esistenza si aprono per portare luce. Rileggendo il suo ultimo e intensissimo libro “Il cielo sta fuori”, Arcipelago Itaca 2020 che costituisce una sorta di “summa” della sua poetica, ho trovato delle interessanti affinità e corrispondenze con la silloge “Historiae”, Einaudi 2018, di Antonella Anedda. In questi due libri gli autori alternano il dialetto, il veneziano per Francesco Sassetto, il sardo per Antonella Anedda, alla lingua italiana. L’uso del dialetto evidenzia sempre il forte legame con la lingua materna e pertanto diviene il veicolo privilegiato per esprimere le emozioni più profonde. I due autori sanno legare magistralmente la storia collettiva a quella individuale, esprimendo una sensazione di doloroso spaesamento, sono attenti esploratori del territorio in cui vivono e celebrano nei loro versi aspetti la quotidianità, interpretandone gli enigmi e le manchevolezze, i dolori e le assenze. Il linguaggio di entrambi riesce a raccontare la fragilità del vivere, l’indifferenza della contemporaneità nei confronti delle persone più deboli ed esposte, le dissonanze e le cadute esistenziali, le perdite e gli abbandoni individuali senza esprimere alcun giudizio morale, ma indagando su quella che Gadda definisce la cognizione del dolore. Il senso di precarietà pervade le pagine di questi due intensi e profondi libri di poesie, unito ad una consapevolezza della profonda solitudine che accerchia ogni individuo tormentato dalle sue memorie e dai suoi smarrimenti. Tornando a considerare le poesie della raccolta “Il cielo sta fuori” di Francesco Sassetto, si comprende come esse siano pervase da un continuo senso di “déplacement”. Cifra di questo spiazzamento continuo è la dimensione della contemporaneità, raccontata come un groviglio inestricabile di contraddizioni che rende gli individui fragili ed esposti. Oikos in greco antico vuol dire casa, famiglia e costituisce l’unità base della società, ma in senso più ampio si riferisce alle dinamiche presenti nei gruppi sociali e al loro modo di relazionarsi. I moderni oîkoi, nella sociologia moderna, definiscono persone che condividono una sorta di interazione ed appartenenza. Ma il tempo presente è un tempo in cui ogni individuo si sente sradicato, o meglio desituato, al di fuori di ogni contesto sociale e urbano. Gli individui sono soli, oppressi dall’insignificanza, espulsi da un tessuto sociale che li butta via quando diventano inutili e improduttivi.
Il linguaggio sorvegliato di Francesco Sassetto, mai intimistico pur nella sua profondità, riesce a cogliere le sconnessure insite nel vivere, l’inconsistenza dei rapporti, e sa intrecciare nella tessitura dei suoi versi i destini individuali con quelli collettivi. Spesso si è parlato della poesia di Francesco Sassetto come di “poesia civile”, ma non mi stanco di sottolineare come questa definizione sia riduttiva, in quanto la sua visione del mondo comprende una complessità ben più ampia. Il nucleo centrale della sua poetica è legato ad un continuo spostamento del punto di vista, che coglie perfettamente lo spaesamento dei luoghi e degli individui. La stimmung del poeta è caratterizzata da uno sguardo partecipe, ma al tempo stesso estraniato, che indaga i drammi solitari e silenziosi che travolgono la vita delle persone. I suoi versi narrano di eventi rimossi dalla cronaca, ci parlano di dispersione, sia in riferimento ad un territorio urbanizzato in forme ipertrofiche, sia in merito a persone che hanno perduto le loro radici e la loro identità. La sua ricerca indaga sui luoghi, che divengono emblema di questo spaesamento, come in “Miranese”, la poesia che apre la sezione che prende il nome dal titolo del libro “Il cielo sta fuori”:

Si sta qua, in questo recinto di case e avanzi
di un tempo contadino, terra e immobili
sempre all’asta, il prezzo cala e risale

Non si vive male, si vive e basta, le macchine
in riga, appiccicate tra lampi abbaglianti e
clacson a esigere il passo, tentare il sorpasso

stridori di freni, scatti d’acceleratore, brucia
l’aria e l’asfalto, la vita s’ingrigia,
nell’assenza d’ogni appartenenza.

Formicaio umano, occhi di sopportazione
integrazione per necessità, qui da tempo sbarcata
una folla di migranti d’ogni migrazione

cittadini d’una città senza nome né confini, confusa
più che diffusa, periferia infinita, genti
nuove mischiate a gente di laguna arrivata

negli anni cinquanta a respirare per prima
il cloruro di vinile a Porto Marghera

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Si rincorrono le spire della Miranese senza fine
dalle ultime case mestrine si sparpaglia
una galassia avvelenata di grovigli pseudourbani

cresciuti a grumi, una nebuolosa di sobborghi
senza inizio e senza conclusione, prodotti e servizi
in perenne girotondo, Eurospar, Grand Prix, Alì,

Ikea, il Mercatone, si va con devozione
alle cattedrali del consumo, processione
di carri da colmare. In questa ammucchiata

a buon mercato si parcheggia auto ed esistenza,
si va avanti, in tanti, si procede forse in direzione
del futuro forse ad un girone più feroce, si vive

in sospensione, stazione o prigione poco importa,
si galleggia inerti,
………………………affiancati e distanti.

Sta scritto qui il presente, marchiato col colore del vuoto
……………………………………………………………..il fuoco del niente.

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enrico cortesano- Venezia

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Lo sguardo su questa inquieta morfologia di luoghi e individui che hanno perduto l’anima, asserviti dalla logica del profitto, a tratti però è capace di una pietas, che esula da ogni forma di denuncia o giudizio.
I temi cari a Francesco Sassetto sono le riflessioni sulla condizione umana, sulla fragilità degli affetti e della vita stessa e si sofferma sull’impermanenza che caratterizza le relazioni umane. Nei suoi versi si celebra la tragedia del quotidiano: un susseguirsi di vicende e d’immagini che si srotolano come in una moviola per portare alla luce quanto non si vuole vedere perché considerato scomodo, doloroso, irritante. La sua poesia non giudica, racconta. Racconta anche di amori effimeri che si perdono, di tentativi di costruire qualcosa insieme e dell’arrendersi davanti alla difficoltà insita in ogni relazione, lasciando spazio solo alla luce fredda e abbagliante della solitudine.

L’ultimo tuo regalo

andando via, è stata una lampadina
al fosforo per la notte.

……………………………L’accendo
ogni sera, bianca, immobile, da corsia
d’ospedale. Diecimila ore e il corridoio
dalla camera al bagno da fare senza timore.

Quando passo in quel gelido chiarore
s’illumina ancor più il vuoto, ansima
una vertigine.

Spengo l’interruttore.

Meglio il buio, meglio camminare a tentoni
urtando gli spigoli dei muri
………………………………..meglio andare alla cieca
come si va nella vita.

 

La poesia di Francesco Sassetto racconta anche la reificazione dell’individuo che riguarda sempre il soggetto più debole e più fragile, causata da uno sfruttamento senza scrupoli.

Mani di rosa

Le ragazze cinesi stanno là, notte e giorno
Chiuse nel semibuio delle camerette,
prigioniere di un congegno di mercato,
obbedienti al padrone.

Le ragazze accarezzano la pelle del pagante,
con cortesia sorridono, sfiorano gli occhi
del consumatore ad intuirne il consenso
il grado di appagamento.

Matteo dice che nel regno dei cieli loro
andranno avanti, intanto annegano
le mani nel sudore e negli umori del cliente.

Il cielo sta fuori, in alto
……………………………….e non dice niente.

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andrea segre- io sono li 

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In fondo, come dice nella bellissima postfazione Stefano Valentini, “Tutta la poesia di Francesco Sassetto, con la sua scabra eleganza descrittiva, sarebbe molto piaciuta a Danilo Dolci, grande pedagogo e sociologo e attivista ( e grande poeta) che proprio contro l’ignoranza, come male tra i più dannosi, lottò tutta la vita.”
Funzione della poesia è consolare quel vuoto, ricomporre quella frattura che un’umanità disorientata e confusa si porta dentro. Se non si può guarire dal dolore, forse conoscerlo ci permette di resistere all’ingiustizia e ai soprusi che colpiscono l’umanità sotto un cielo distante ed indifferente.

Lucia Guidorizzi

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Francesco Sassetto, Il cielo sta fuori -Arcipelago Itaca 2020