ASPETTANDO UN NATALE CHE RITARDA – Iniziativa Cartesensibili 2011

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Riproponiamo l’augurio di allora perché ancora ci pare non si sia compresa quale sia la reale ricchezza e la sostanza di cui tutto e tutti siamo impastati. Gli uomini pensano di poter governare la Terra che invece ha un ‘Anima altissima, inafferrabile, antichissima comprende ogni altra piccola forma dalla più modesta alla più spettacolare e mirabile, compresa anche la nostra, in un continuo in cui nulla è definitivo, tutto tra-scorre.

Quando dicono che abitiamo sulla terra si sbagliano. Noi abitiamo il cielo. Qui, dove siamo ora, mani piedi cuore pancia e cervello: è luogo dei luoghi, l’antico paradiso, il RE-CINTO di meraviglia. A questo phil(os) di nebulose e galassie, a questa bocca che tesse vita e morte, che non può essere che di stupore costruita, improbabile  proprietà di chicchessia  tra noi reclami un qualsiasi primato, noi siamo legati. Di questa girovaga bellezza che si mangia la coda e si rinasce in armonia noi siamo corpo partecipante. L’oriente è soltanto un nome e una memoria – brevemente chiara– ma il resto, tutto il resto, che è infinito intatto,  è testo.
Un testo ricco e suggestivo che ha ritmo intenso e nessuna altra voce narrante se non queste: esplosioni di magnificenza che di sé impressiona ogni essere. E’ come  un gioco permanente , una schermaglia amorosa, una seduzione lenta in cui nessuno è fuori dalla relazione. Il sospetto, anzi la convinzione è che sia il nostro, mondo concreto, anzi di creta , quello illusorio e che vi sia un altro mondo, meno aleatorio di questo, che ha la stessa doviziosa generosità di luce ma non il buio che costruisce sbarre al passo verso una verità complessa. E’ un paese di silenzio il nostro, per le nostre modeste orecchie ma ogni millimetro di pelle del nostro corpo è di questo che vive, è di questo che illumina il nostro stare qui, tra queste zolle, che vorremmo fossero di zucchero, evitando gli strapiombi e le voragini di tanta ingovernabile purissima e ordinaria bellezza. Per questo, nel percorso proposto per Natale, raccogliendo tutte le voci che ci hanno raggiunto, si è volutamente contrapposto lo sguardo in terra, ricca di incredibili universi e mondi e modalità in cui l’essere si moltiplica e crea, all’alto, il profondo, l’inesauribile cosmo. Tra questi due immensi noi viviamo, raccolti da un soffio che è il respiro di  tutti.

Con questa pubblicazione in rete, ASPETTANDO UN NATALE CHE RITARDA,  volevamo portare il territorio impossibile dei sogni a domicilio, la soglia che poesia apre in ciascuno di noi con precisione incorrotta, e qualsiasi pianura o montagna o anfratto in cui si vive in solitudine, spesso immersi nella paura che ci s(r)tinge la mente, si apra verso l’oltre che già è nostro, lo è sempre stato, senza dover reclamare proprietà o diritti, addirittura nemmeno doveri!

Capitale? E’ questa appartenenza che smisura e mette una co-meta sul tetto come a dire che sta là, dove stiamo anche noi, tutti, la vita, la ricchezza.

AUGURI DI BUON NATALE E DI UNA FESTA CHE VIVA IN CIASCUNO OGNI GIORNO PERCHE’ OGNI GIORNO SIAMO IMMERSI IN QUESTA MERAVIGLIA CELESTE.

Tutto il gruppo di cartesensibili e tutti i collaboratori del blog. AUGURI- Natale da allora fino a questo ora.

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IL CIELO HA SEMPRE SETE

si cade in basso, mondo,
si cade giù
costellazioni a parte, la verità decade
e lascia appena il sangue per vivere sperando
un passo dopo l’altro

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radici sulla luna, visioni tramandate
accordano la grazia
per trascinare il senso che offende le stagioni

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missioni derubate,
ipocrisia sovrana e luci in astringenza
bendate d’illusione

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che cosa ancora noi, chi e quando la ragione
il cielo ha sempre sete di lacrime incompiute
sbocciate ovunque in pegno
all’essere mai noi,
mai vento servo al grano, mai lode sotto il sasso
mai florida umiltà – il fossile smarrito

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scaviamo il nostro canto
l’eterna umanità che forse potrà alzare
un giorno come il pane

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un giorno mai iniziato
potrà resuscitare la gloria del respiro
che ieri era l’amore

MARINA MINET

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LE ALI

Bel carnivoro oculato le ali
di poca resa disarticola a strappo
dal corpo grasso come si deve
fare puntando subito al sodo

Tolto l’inutile il resto non pone
grosse difficoltà si fa in un attimo

(Il piccione fatto a pezzi da un gatto
sul marciapiede le ali staccate
un po’ di carne evito passando
di guardare per schifo ed esatto presagio)

MAURO SAMBI

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nascita che ritarda, ancora
grido che non raggiunge
eppure ogni istante si rompono le acque
ovunque il diluvio
(le colombe hanno ali atterrite
le foglie di olivo marcite)
nascita che ritarda, ancora
ibrido che stenta a farsi mosaico
un’ultima perfezione  intatta nella foresta
(uomini rossi fanno segno alla civiltà
di non passare, all’occidente di non diffondere
il suo senso del tramonto
senza rinnovo di alba)
ibrido sarà il profilo di chi si guarda accanto
si curva “dall’altra parte” del pianeta
ibrida è tutta la materia terrestre
stanca di attendere l’urlo del risveglio
(gli agnelli hanno occhi diffidenti
e paura delle madri clonate e del barbaglio
di micidiali fuochi intelligenti)
siamo arrivati alla grotta, ciechi
senza nessun pastore, nessun dio
dei rimproveri, degli aggiustamenti
a chi portare in dono il nostro cesto
effimero di voci, di monete
imbrattate di petrolio-sangue
eppure è a pochi passi l’albero della vita
che ha frutti di parole dense
e  rami lungo i continenti
e radici negli snodi del cuore
nascita che ritarda, ancora
eppure ancora una cometa guida
la testa curva sulla coda
ostinata di luce disegna un cerchio
via dell’abbraccio
avvento

ANNAMARIA FERRAMOSCA

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Raccolgono le mani un regno
di  zolle e nuvole più vicino d’ogni dimenticanza?
Esita la parola che nasce nel corpo
e sfanta poi nell’incerto o resta
lontano accento tra il calore
delle mani e la voce “io è un altro”
a cantare
“ad adorare –per primi! –  Natale sulla terra!”
a sussurrare  io ti amo A.R.

FABIA GHENZOVICH

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Questo Natale

tutti i natali
allaccio nastri di raso ai rami e
piccole ghirlande d’ agrifoglio profumate
d’ inverno
e di rinnovata speranza

questo natale
ecco
questo natale
ho appeso ai rami
lunghe spine rosse
piccole croci d’ argento

per ricordare il dolore che spacca la carne
all’ atto di ogni nascita
la miseria dell’ anima
la melma impietosa che
impantana il piede

in cima un’ unica luce breve
che
illumini il buio nel profondo
del petto.

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This Christmas

Every Christmas
red satin ribbons I tie to the branches and
small holly chains
winter – scented
and of renewed hope fragrant

this Christmas
well
this Christmas
I ‘ve hung up the branches
long red thorns
small silver crosses

to remind the pain splitting the flesh
at any birth
the destitution of soul
the merciless filth which
traps the foot

let the only light on the top
so short and sparkling
enlighhten the darkness around
deep to
the bottom of the breast.

DANIELA MANZINI KUSCHNIG

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Siccità imperdonabile che sboccia fiori color sangue
mentre si finge primavera.
Alberi controvento, piegati come giunchi da diluvi incompresi,
che cercano con le poche foglie rimaste di cancellare scie di cielo alterato,
di nuvole stramate che comprendano lo sforzo di un riequilibrio.
E tutto ritarda.
Ritarda il treno dello sciopero, del pane, delle certezze.
Precarietà è la parola abusata, abusato il tempo, le madri.
Arriva tardi la comprensione di un mondo
dove l’agrifoglio graffia di punte velenose
la meraviglia del suo aprirsi,
dove il succo dei melograni ha color pallido il gusto,
come sbiadisce il verde del rosmarino
e le piante perenni annegano sotto provocazioni
di urina di belve, la notte.
Ritardano i passi un tempo svelti di donne acute e certe
di un corpo generoso, colmo di doni,
ritarda il ticchettio di scarpe consunte,
di abiti lisi e rivoltati, un briciolo di dignitosa presenza.
Davanti al crollo che non è appartenenza voluta.
Ritarda l’orologio di stragi del pensiero e di vite,
infrangendosi come risacca malvagia
su coste indifferenti ed ancora balneari.
Ritarda, ritarda un tempo, non un giorno di festa.
Davanti al granito secolare di gesti ottusi
l’eco acutissima di un rifiuto
che non può perdersi nelle pieghe di un maestrale
convinto del suo potente soffio
nel trasportare voci, umori, lamenti
a cui nessuno può dirsi sordo, escluso, lontano.
E nei regni di signori dimenticati si mormora
in gramaglie e veli di pizzo antico,
eredità della nonna, lavorato col terrore di inferni
a punto basso e di paradisi,
con punti ombra di cui non si può dire il segreto.
Il maestrale, si dice, duri tre giorni.
Poi sei, poi nove…arriverà
a soffiare sopra finti presepi ed alberi
ingannati dentro pareti di case sbarrate.
Lui sarà puntuale, non si ferma
nelle strade fredde e vuote
dove luci sfolgoranti illuminano, irraggiungibili,
solitari passanti e ponti e moli di rifugio,
grate cementate su terribili inconsapevolezze.

API

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/  il camino /

hanno sparato ai piedi
mentre gli orli ninnano
una cometa il grembiule
stracciato

e

un bottone
di pan_cotto imbandito
sulla tavola dopo il canto
era a foderare dagli occhi

/ il camino

DAITA MARTINEZ

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Natale è una parola impronunciabile.

Oggi mi sento quasi disperata
i quarti d’ora di consolazione hanno perduto
e
non ho più voglia di pensare
__troppe cose da niente__
divino o tutto umano il senso
restituisce con azioni sconce
attraversando secoli d’amaro esistere
i baratti tra uomini e l’eterno
una promessa mantenuta mai

il caso o la necessità
dubitativa locuzione, siamo presi d’assalto
dalla vita
ci troviamo perdenti
davanti a un simulacro antico
se mai sarà avvenuto quanto dicono
e l’uomo ebbe un giaciglio nella paglia
e croce poi

basta guardarsi in giro, oggi
mangiatoie dappertutto
e non di quelle riscaldate a fiato
forse piuttosto truogoli
per musi duri all’abbuffata
e vengono pastori ciechi
che sentono belati e non salvano più
quelle che sui dirupi
perdono lana e sangue.

È solo e nudo
chi nasce nelle strade
chi s’aggira furtivo alle vetrine
guarda
e sgomento torna nella stalla
salvandosi dai corvi
neri
che l’hanno becchettato fino a morte.

CRISTINA BOVE

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Invecchiamo di tassi e spread
di borse a picco invecchiamo
rugosi e sterili – dove lo stupore?
senza stimolazione ormonale
di silenzio e meditazione
no che non nasce
se non si scava una culla
spalando nei nostri miasmi di putridi
sguardi opachi e avido sfacelo
a invenire (inventare) un punto
che intimo arde e germoglia
no che non nasce se non
covato nel fondo del ventre
nutrito di speranze e doglie
lo sforzo di ripartorircelo
lacerando ogni carne
e dargli le parole e il mondo
perché rinasca una scommessa d’amore
sarò più attenta questa volta all’ascolto
mandami ancora l’angelo – Signore-

ANGELA CHERMADDI

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Pietre e lenzuola
                                                                       Ah Negri, Ebrei, povere schiere

                                                                                                di segnati e diversi….

                                                                                                                                                   …condannati
                                                                                                   a essere atrocemente miti, puerilmente violenti…

  Pier Paolo Pasolini

                                                                                                                               

E compro anch’io una cintura da un ragazzo africano, uno
dei cento della fila distesa sulla Riva di bianche
lenzuola, infinita di fughe e fatica, di rapide occhiate,
marocchino del Ghana, del Mali o della Costa d’Avorio,
che tu sia libico ivoriano o senegalese
tu qui non conti, non importa qui il tuo paese,
qui tu sei marocchino, ‘vu cumprà’ e sai che è vietato
il tuo mercato di borse marchiate col segno
di improbabili Gucci, Armani, di Dolce e Gabbana,
è vietato fermare la gente, fermarsi a parlare,
tu da qua, lo sai bene,
te ne devi andare.
Sei iscritto da sempre all’anagrafe degli abusivi,
dei clandestini, battezzato nel gregge degli ultimi
da pietà cristiana, i primi da braccare nella caccia
quotidiana dell’odio ancestrale che qui si scatena
rabbiosa all’ultimo anello della catena criminale,
quello che non tiene
che ci vuol niente a spezzare.
E’ vietato e ti do i soldi che chiedi, non voglio,
ragazzo, tirare sul prezzo, mi bastano
i tuoi occhi inquieti che gettano lampi all’intorno
a spiare gli appostamenti, i segnali
dei tuoi nemici, i mastini
feroci di voci e di mani,
i miei veneziani.
Tu prendi i soldi veloce e mi tieni forte la mano
che mi fai quasi male, mi fai così bene,
marocchino troppo nero e straniero, troppo
ingombrante, da rimandare alla tua fame
da schiavo, vittima sacrificale del nostro nuovo
antico e globale,
impero coloniale.

FRANCESCO SASSETTO

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Aria nero china

Schiaccio sui passi le ombre nerochina
di questo impulso lacrimevole
e la bocca trattiene un chicco di zucchero
per non stridere sui cardini
-le porte e la neve, nelle pozze fangose
portano al petto schegge acuminate,
un lento smettere gli abiti, trascorrendo
l’inchiostro che muore,
affrettarmi per non perdere la presa,
le tue guance nei profumi che mi spalmavi addosso
e quell’impasto di fame notturna
le santa lucie sperdute – con i natali
spirati, come fuoco spento
siamo tardivi, nelle briciole che l’onda avvolge
una barca dimessa con un groppo di nodi
a graffiare le mani vuote
io che di te non scorderò nemmeno il sospiro.

[a te, a quest’aria, diventata pesante
da quando non sei più con noi]

ANTONELLA TARAVELLA

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La messia

Il trentadue dicembre
di un anno non perfettamente circolare

nacque inaspettata e incredula
una bambina nitida
rotonda e querula
niente di vagamente messianico
né di metafisico-trascendentale.

Sbagliò giorno dell’anno
e su quel ritardo imperdonabile
anche le comete gelide e lontane
non seppero scrivere in cielo
auspici ottimi e frasi arcane.
E le cassandre dimenticarono
di entrare in trance occhi rovesciati in bilico
per salutare l’avvento ultimo e salvifico.

Nella perfetta luce della natività
la mamma e il papà
così poterono essere liberi
di sentirla interamente figlia
senza l’impegno oneroso
di sacrificarla in questo orrendo parapiglia.
Se la godettero tutta.
In tutta la sua fragile
e intrinseca rotondità.

FRANCESCO TONTOLI

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la speranza (era)
lì davanti
un berretto di lana
oltre la febbre
tavola rossa
a un brindisi
lacrimando il poi
che puntuale compare
passerà anche l’ultimo

MARIA GRAZIA GALATA’

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Abete di natale
Ora diffondi
il tuo ultimo respiro
nelle case surriscaldate
in un burka
di lustrini
e palline.
Tra breve
ti vedrò defunto
al cassonetto.

GRAZIA CAPPELLI

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Al suo paese Aziz è un ingegnere.
Qui fa il lavavetri a un incrocio,
ai semafori di via regina Margherita.

E’ abituato ai dinieghi Aziz, li scorge
oltre i parabrezza, a volte
somigliano a minacce.

Nessuno gli ha mai detto:  Buongiorno ingegnere !

Del resto non è scritto
sulla bottiglia con l’acqua e con la schiuma,
sul raschiello, sulle mani e nemmeno
sul viso in bilico tra il sorriso e la disperazione.

Però nessuno gli ha neanche detto:  Buongiorno Aziz !
A pensarci bene nessuno gli ha mai detto:  Buongiorno.

PAOLO POLVANI

 

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Nord-Est (Dopo il 31 Dicembre 2010)

Il traliccio
spezza
uno specchio d’acqua livido,
quanto questo cielo.

Puro
è il degrado dell’amore.

L’inverno scorre su rotaie
che misurano la sera
il talento delle donne di strada,
o l’emissione di anidride carbonica
dei senza tetto,
dei senza contratto.

E intanto un altro soldato muore.

Cattedrali industriali
assordate dalla pioggia,
come uteri in affitto
rimaste
ischeletrite dalla speculazione…

…La conta dei danni,
dei ricavi,
di chi non torna.

E intanto un altro soldato muore.

ALBERTO BARINA

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Natale 2011

 

Se Cristo nascerà, ci troverà avviliti
in orizzonti di brina e di ferocia
nei quali concepimmo ogni nostro peccato.
Ci troverà stremati, il vecchio Dio bambino

aggrappati al passato, a promesse infrante.
Saranno tepori di minestre e di veleni
le cene dei poveri nelle città gassate
e luci ammutolite e storia che si arresta

trattenendo il fiato innanzi al baratro
della nostra pervicacia – questo invocare
notti di luci e di fasti e il rimosso massacro
d’ogni pietà nel massacro delle regole

per cui poveri nuovi siamo e già colpevoli
davanti al giudizio della storia
ci troverà a grufolare fra avanzi di sapienza
che hanno smarrito le radici dell’umano.

Sorriderà il vecchio Dio bambino
con occhi lustri di cera e di nenia
leverà a benedire la manina
sorridendo grazioso e giustiziere
al tuono che s’addensa brontolando
e sempre più vicino ci introduce
a quel barbaglio di fine che traluce
dai nostri deschi poveri e festosi.

GIANMARIO LUCINI

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Wo ist mein Anteil, Herr, am Licht ?
Ich will doch auch nach Hause kommen !
Mein Blindenstock ist weggeschwommen
unzeitig sank das Mondgesicht
Bergrücken wachsen mächtig.
Längst bin ich übernächtig
und überreif vor Müdigkeit
sooft der Atem in mir schreit
könnt ich den Tod gebären.
Laß das nicht ewig währen !
Verschaffe mir mein Heimweglicht
auch wenn es grell den Traumstar sticht
und mein Gedächtnis peinigt.
Du weißt, ich brauch kein Himmelshaus
zeig mir das Obdach einer Maus
bevor der Tag mich steinigt.

Dov’è la mia parte di luce, Signore?
Anche io voglio arrivare a casa!
Il mio bastone da ciechi è andato alla deriva
la luna piena è calata intempestiva
possente cresce il dorso dei monti.
Da lungo tempo passo notti insonni
e, frutto ormai andato per stanchezza,
potrei mettere al mondo la morte
ogni volta che il respiro grida in me,
Fa che non duri in eterno!
Dammi la luce che mi porta a casa
pur se acuta trafigge il cristallino opaco
e la memoria mi affligge.
Sai che non mi serve una casa celeste,
mostrami il rifugio di un topo
prima che mi lapidi il giorno.

 

CHRISTINE LAVANT  traduzione A.M.CURCI

 

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Trauma

“Anche no”: sbotta a ritmo di polka
l’occhio stanco di spoglie schermate.
Prende in prestito sciatta prontezza
garanzia di pareggio coi tempi.

Dove è luce?  E mi basta un bagliore.
Dove è luce, che imbocco il sentiero?
Ora aspetti che sorga parola
a curare tuoi gelo e miopia.

Puoi aspettare in eterno se lasci
che sia moda tuo asfalto e tutore,
se a stupore precludi il respiro.

Fatti luce che accoglie la luce,
che la scova dove è sofferenza,
che la svela nel gesto che chiama.

ANNA MARIA CURCI

 

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Notte di Natale

Aspetto che il silenzio
fermenti il suo liquore
oscuro dentro me,
mentre fuori è una città che muove
l’orbita delle ultime luci, io mi sento

respirare dalla notte sul cuscino
l’insonnia di tutte le notti, recitate nel sapore di un addio.
Attraversando il distacco
della menzogna condivisa,
parole troppo buie per venire al mondo
la notte di Natale, traboccano come musica alcune ombre
la calca delle occasioni perdute
nell’inverno dei pensieri

tutti questi viaggi senza nessuna spiegazione,
questi palazzi che si accendono e si spengono
a intermittenza con una felicità da poco
o forse niente, tutto questo
nella fitta del dolore che ritorna
con il verso di una canzone: No alarms
and no surprises, please.

PIETRO PISANO

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 … Natale è il venir
di un chiaro disciplinare d’amore
una regola antica
legge per il passo e la parola
nella Notte oscura

I

il prologo è monco
l’antefatto è un’assenza
al Pleroma Indistinto mancava l’esperienza
di creatura
mancavano i piedi e le mani e
il tatto sensibile delle dita
mancava il rischio tremendo del fiuto
mancava il corpo
per riconoscere lo Spirito
mancavano la fame e la sete
che distinguono giustizia da ingiustizia
e di assenza in assenza
e per assenza
a quel prologo solingo e monco
montava il desiderio
il Pleroma cercava Vita Amore e Morte
e chiese un SI’
intorno all’equinozio
che gli partorisse una luce
nei giorni del suo solstizio più buio
non fu coniunctio
fu purissima esasperata intentio

II

ecco: il bambino
è generato già prima dell’incontro
dei gameti
nutrito da un vecchio testamento
un bambino offerto alla sua infanzia
più anziano di millenni
eppure un bambino
un germoglio
un desiderio rivestito della carne
che si chiama figlio
“…E, purché sia,
purchè la verità sorga dalla terra,
anche in una stalla”
urlava l’Indistinto,
“purchè avverta l’Odore e il Pizzicore
della paglia!
E odore e pizzicore non siano solo parole”.

III

tua madre, l’Assenziente
(il quarto indispensabile elemento
perchè lo spasmo della Trinità
si distenda a formare
dolcissima la pena della croce)
guarda le tue braccioline
già aperte a una trista profezia
e le si amara il cuore
ma offre all’Indistinto quello
che a lui manca e va cercando:
il senso acuto del dolore
“Secondo l’ordine della terra
secondo l’ordine del cielo
per luogo  regola  misura
tutto questo è troppo”
dice
“E’ una ferita
E’ UNA FERITA
e non ha ragia l’albero
del balsamo
a quale ordine altro
volgerò gli occhi per
intravvederne un senso?
A quali sensi
mi è chiesto di affidare
la ricerca?
Eppure non riesco a smettere
di magnificarlo”

IV

che cosa passa
dal vaglio dell’assenza?
è il niente che sostiene
la dolcezza del tuo peso
e il tuo futuro
un niente desideroso
scagliatosi (nell’incrocio delle ere)
al centro della Storia
e vi si avvolge
permanendo nel sopra nel sotto
nel prima nel dopo
un niente che per vastità
vien da chiamarlo IL TUTTO
formato da mille sottrazioni
un niente Uno
che avrà infiniti nomi
e intanto vengono
vengono in processioni di polveri di luce
dietro luminarie di altri cieli
vengono a rimirarti

V

a un cielo inclinato
è incardinata la tua culla
pare che dondoli
ma è per meccanica
ultraterrena che oscilla
e oscilla e oscilla e
oscilla e ti richiama
a un sogno
il sogno di colui che è
dice ciò che dice
è l’Indistinto
che scalpita e pecca di impazienza
tu obbedisci
e mediti un testamento nuovo
un balsamo di consonanti
e di vocali che racchiudi in un calice

VI

e mentre fiocca
la neve fiocca sulle capanne dei nostri presepi
tu piccolo figlio di un sì
tenero giglio fiorito
al coraggio di una sillaba
ti lasci vestire
come ciascuno ti vuole:
Bambin Gesù delle brave bambine
Monte e Cammino
bambino dei bacini e dei fioretti
tutto ricciolino
bambino Pastore dei pastori
(…rallegrasi il mio cuore)
Agnello
bambino che hai  fame
(…e al freddo di più)
bambin di latte e pane
bambino sacro e profano
davvero non c’è scusa per nessuno

VII

com’è reggere il cielo
e succhiare un seno di donna?
com’è essere fonte
e avere sete?
essere la potenza e farsi debole?
è questa l’anatomia amorosa
incisa nei legni di culla e di croce?
lasciami indugiare intorno
alle tue giunture
come intorno a una catena
di premure e domande
lasciami iniziare sul tuo piccolo
corpo il mio
ad pedes
ad genua
ad manus
che troverà compimento
sulla tua facies di morto
ora capisco la gloria cantata
quella festa di angioli
sopra
capisco il de profundis
dal quale obbediente sei partito
capisco TUTTO
e poi capisco NIENTE

FIAMMETTA GIUGNI

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Migranti

mi condusse un angelo di farina–
ne feci pane, oro– lo mangiai…
riposai sotto il suo ritratto
djavas– lucerna indoeuropea
“Non dimenticare” levitò
il migrante israelita
“Non dimenticare” lievitò
il frumento d’Abissinia
“Non dimenticare” levitò
la segala siberiana dal Danubio
alimento nero, sguardo bizantino–
mi condusse un angelo di farina–
ne feci pane, oro e tempo– lo mangiai…
–poi continuò a dominarmi domineddio

NINA MAROCCOLO

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salendo la montagna ascoltavamo il nostro fiato tra il canto delle pietre
e la bocca dei vecchi mentre la sera tagliavano il pane per tutti in parti uguali

dite agli altri che custodisco ancora l’ostia del natale perfino nell’orrore

nevica in me

                        il mio silenzio è chiarissimo

ANNA MARIA FARABBI- da “dentro la O”

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I

Porterò la tua collana al collo – l’ho fatta di rame e ferro

l’ho fatta

quando stavi morendo e non sentivi la bocca
battere come il buio
batte la pietra.
Come una scure colpita dal lampo, nominerà il mio
corpo
mentre la battaglia alzerà la muta dentro la pietra che è la tua
lingua, la mia

improvvisa.

lasciando cadere. vengo

da te     come un
sasso

che rotola

ed è perché

ho questo cuore nelle narici
e un favo ficcato nel cervello, una
specie di atlante
delle forme umane e disumane dove ci sono alberi che
diventano gambe
lunghissime sinuose che invitano a salire e mai
scendere mai

e

vorrei scrivere parole che diventassero una foto
in bianco e nero con
quel senso di vero e povero e sporco
che a volte viene da quei luoghi
dove le donne
si muovono dentro la terra che è rovesciata e le prende

come una mano o una bocca e loro
hanno gli occhi aperti e il volto
infiammato e toccano
l’aria come toccassero l’amore

tu      la puoi vedere?

 

II

C’è la soffitta – si comincia dall’alto – con legni a vista;
c’è una volta fatta di pietre , piccole, grezze,
staccate dalla montagna prima di lei; c’è il muro
a mostrare dove finisce l’ombra del larice; c’è
la curva dentro la strada, due sedie sul prato,
una finestra aperta alla neve – perché d’inverno si fanno case;
ci sono la pioggia, un tavolo, un pane spaccato a metà.
Sicuro, ci sono due voci che stanno distese, vicine.
Tutto lì.

IOLE TOINI

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Ho raccolto alle tue tante foci
voci
come si raccolgono i sassi per strada
le conchiglie sulla riva dell’onda
le ho strette nella luna rotonda
e degli occhi nella mandorla sommersa qualcosa si è mosso
forse era un tuffo o
semplicemente il cuore ha saltato tutta quella vecchia muffa
che mi impediva di vedere
perché   ci sono vertigini e forre nascoste
tra le righe dei palmi
e nel fondo dei cesti  ci sono alberi e bestie
che camminano
camminano sotto e dentro il celeste
le terre
incolte non hanno sbarre o recinto
a contenere il loro astrale mai astratto
sottile movimento.

C’era anche una luna antichissima in fondo al campo e dal cielo
come nuova scalzava aggirandola la rigida pietra del pozzo.
Un tuffo nel profondo del buio e tutto  per un attimo
ha trovato la forma di un volto.
C’erano uomini senza lavoro
e donne curvate ad allattare capretti e vitelli
c’erano giovani e vecchi seduti ad un tavolo già senza capelli
e avevano il bianco più denso della luna stampato sul vuoto del volto
avevano

un profondo silenzio

tra la gola e il respiro fattosi ancora più spento.
A morsi e a spintoni entrava loro nel corpo il tempo
e gli strappava dal ventre l’oriente gli scriveva nel polso
la fine del mondo. Con rami e con vento con fogli e canzoni
con salti e sussulti con risa e con pianto con sputi e più lucida piana parola
con grida con strazio di morte con urla la donna ferita con un soffio di bianco
calava la neve sul dorso dei monti sulla pelle dei morti e piano
più piano la muta del tempo scendeva in frammenti di caglio
sul collo e sul dorso sul poco e sul tanto

lasciandoci esausti di tutti questi giorni
armati di rostro

di questi perduti  a(r)mati argonauti
viaggiatori  per sempre e

natali in uno schizzo colostro.

.

Ancora per strada e di nuovo un anniversario.

Anche quest’anno
natale è  un bicchiere di macerie
sollevato tra bambini adulti che non sanno più
il gioco
hanno dimenticato  la festa
e dei colori non ricordano che quelli della carta
frusciante
usata per accendere candele
su un tortino di azioni
in percentuali d’interesse variabile
dipende dai succhi che si ottengono mescendo
l’arancia concentrata in proporzioni
definite di lavoro minorile e sapori come
sfratto, assenza di contratto, la genuflessione dei meno abbienti, i piedi gonfi

e la superbia

la toccante superbia dei ricchi

in opere di carità per la propria cattiva coscienza
dove tutti cantano e ballano e sprizzano felicità da cabaret
e conversano in una gelatina d’animi i minuti
pretesti per un clic d’avamposti di fotografia.
Poi tutti in uno solo
in un attimo il tempo non c’è più
via         scomparso in milioni di vite perse.
E resta
questo piccolo piacere del silenzio
una scarpa premuta all’angolo della porta
un abito strappato dalla fretta un pianto uno schermo rotto
per terra uno schizzo di sangue o forse solo un po’ di tinta  il pavimento
di cemento e una bottiglia rotta che sgocciola acqua per l’ultima volta.

Guardo qui davanti a me
cose da nulla
soltanto resti
nemmeno gli avanzi per i cani
solo una storia senza pagine di testo.

FERNANDA FERRARESSO

.

Ti ricordi a Natale? Scendeva dalle stelle
un bimbo in una grotta, carbone, caramelle
tra il letto e il davanzale, dalla scaletta rotta
s’intuiva un candore lontano, oltre il grigiore
della piazza perduta nel buio delle stelle.
Luminarie, banconi di semi e lupinelle
e il presepio che aiuta santi e costellazioni
a indovinare un filo che guidi ad un asilo
oltre la radura
delle inesistenze.
È la fioritura
di fatue evidenze:
l’alcol per i geloni, le montagne fatate,
a legna casalinga, le vetrine incipriate,
la ruggine ai ramponi, gli effluvi dell’aringa
nel crollo indefinito di un tempo incustodito.
Troppo lenta la neve scende sui teleschermi:
scomparendo riappari per noi attoniti, inermi…
– non ti tradì la neve! – …Natale! Tra gli alari
le inobliate essenze tramano trascendenze
naturali, al fuoco
calmo di un camino…
forse…appena un poco…
ti vedo in cammino.

PAOLO OTTAVIANI- Treccia dei paesaggi natalizi  (Per Andrea Zanzotto, in memoria)

.

– dichiaravamo giusto il fingere
che non sfianca

fiaccati dall’attesa non restava
che mentire semina
allora la tua ascesa
dissolse in veglia lo stupore
e incespicò incubi lunari
nell’arsura di chi non beve
pioggia da sempre animale
consortile all’addiaccio
di non sapersi che solo

 

– Se il cantico valesse il disamore
degli avanzi

il verme patito di poi corruga
il fianco alla tavola
dove è appena toccato
il corpo oculato dalle parvenze
un vitalizio aromatico
confidente verzure sottili
a rimandi di continuo visitati

VIVIANA SCARINCI- inediti da Calende del disordine

.

.

 

Anche a natale succede di

morire nera in un documentario

stesa su un fianco a feto
in tremori, piccoli scatti netti
per le membra stecchite
senza clamore quasi in pudore
e poi l’ultimo
più tenue lieve quasi delicato
e lei immobile finita

cosa vedevi, bambina,
dietro gli occhi chiusi via
così sola
senza mano di madre sulla testa
senza occhi a testimoniare
la tua morte nuda
se non la cinepresa
che ti ha portato nelle mie preghiere
a farmi vergognare di pregare
qualsivoglia bisogno che ti escluda?

MILENA NICOLINI

.

Insiste la piaga
Che non si trovano cardini
o mani pulite a cui stringersi
Dal rimbrotto al tetro biasciare
Nel rifiuto di non avere briciole
né pani da dividere o moltiplicare
Seduta sulla sedia che dondola
La donna pensa
Di quanti colpi ancora le sue armi
a salve potranno fiorire
Senza mai legare i chiodi al cuore
Presa come morsa la fede nel freddo
Di giorni spesi senza denaro o grano
Tramortita nel ventre per i piccoli bisogni
Sono come piccole luci di feltro quelle storie
sugli occhi
Come digitali sul fiato
(così purpuree e fioche)
La donna pensa
Che se le piaghe si allargano
il suo petto le divorerà
in un solo famelico imbuto
e sarà come se speranza volesse
dire di più per non tradire
le opere quotidiane del crescere
a grandi passi i figli del tempo
così piegato
in mille pezzi di noia e abbandono
per ciò che ci resta
nel crogiolo più stretto
Perché son volati via,
i nostri cigni.

FEDERICA GALETTO

.

 

I

Vengo dal paese dell’attesa
vagito più lungo del respiro
vetrine stellate e candeline accese
vite targate a numero zero.
Vivo nel paese dell’attesa
volte, passaggi caudini, legulei occhi,
vischio, sfrattati, fornaci, noci, natale,
sogni schiacciati da pneumatici serali.
Vago nel paese dell’attesa
con comete, pioggia e pantana
a ricongiungere terra a cielo.
Veglio questo paese e sfuma il
verso sull’orizzonte mielato del tempo e ho
sempre addosso lo stupore dell’attesa.

Lo stupore ell’attesa testo inedito)

II
da ‘Quel qualcosa che manca’, ed. Le Voci della Luna 2009

Arrivasti giusto per Natale
con l’eccitazione della prima volta: Voglio
far bene, sai, mi sposo l’anno prossimo in aprile.
Avevi la bicicletta nuova – di un rosso, lo ricordo,
da fornace vera – risparmi forzati di tua madre.
Venisti con fiducia in quell’ambiente
che a me pareva sempre inferno e tu ci
rilucevi il tuo avvenire. Andavi e venivi
pronta a qualche ora di straordinario
e di straordinario, o cara, c’era
solo che eravamo tutti ben sfottuti.
La luna la vedevamo quasi mai
e il sole ci bruciava le narici;
tu dimagristi così improvvisamente
che un giorno ti coprimmo in una bara.
Fu quel lavoro maledetto
quell’abbracciare la produzione
e noi giovani vecchi
ti guardavamo increduli lottare.
Lì nell’erba fredda quei colori
non sanno di vegliare la tua stella
che prima di quel sognato aprile
ebbe il bacio tuo di terra.
La bici la riportammo quella sera.
Tua madre la ripose nella tua stanzetta
e più non smise di aspettare alla finestra.
Tuo padre rimase spento a fumare
seduto abbandonato all’onta della sera
e tutte le stelle attorno che stavano a mirare.

ANNA LOMBARDO

.

.

Mi sono svegliata nella città di un paese straniero
nella stanza d’un albergo sconosciuto
dalla finestra della stanza
si vedeva una stazione dove passavano
treni sferraglianti di addii

Sono scesa per le strade
di quella città di cui non conoscevo
nè il nome nè la lingua
nel giorno di un Natale abortito
uguale ad un giorno qualsiasi

Straniera in un paese straniero
sperduta in terra metafisica
ho provato lo scollamento dell’anima
chiamato da molti distacco

Ho percorso le vie fervide
le piazze affollate e vivaci
di una comunità inesistente
nessuna parola era in grado
di giungermi per aprire un varco
nel silenzio della mia vita

Sono entrata nel giardino
di un grande ospedale di marmo
ho camminato sotto le arcate vuote
di porticati deserti
guardando le rigide lucide scure
aiuole di bosso le fontane chiuse
luogo di passi perduti

Ho visitato la cattedrale
ho ammirato il suo splendore
ascensionale di pietra
la sua magnificenza il suo sfarzo
le sue statue scolpite da mani molto abili
i suoi quadri dai colori pastosi
ma non sono riuscita a pregare

Sono entrata nel museo
della città (il cui nome non conosco)
e percorrendo vaste sale in penombra
ho osservato i ritratti
dei notabili d’un tempo che fu
chiusi in neri abiti da cerimonia
scarafaggi sinistri con grandi occhi sbarrati
su un presente che non c’è

E mi sono ricordata d’un tratto
che in quella città in quel paese
ero nata e che il mio non sapere
non era stato altro che un dimenticare

LUCIA GUIDORIZZI

.

Sono già duemila anni
che aspettiamo il natale.
Quello vero, quello annunciato
con gli uomini tutti uguali,
stessi diritti, stessi doveri,
con il prossimo come amico
e l’amore più forte del male.

Nel frattempo ci siamo ammazzati
razziati, violentati.
Abbiamo sfruttato fucili e cannoni
contro archi e frecce,
abbiamo distrutto etnie e rubato ricchezze
lasciando il diritto alla fame.

Nel frattempo abbiamo inventato
bombe atomiche per finire una guerra,
per finire, dicevano, le guerre.
Abbiamo perfino inventato nemici
per massacrarli in fosse comuni.

E milioni di morti benedetti da tutte le parti
e marmi con decine e decine di nomi citati
e cerimonie vestite di raso impudente
per dire che il sacrificio inutile
è il meglio che, in vita, possa capitare.

La ricreazione è finita
ma stiamo ancora aspettando
il natale che tarda.

LORENZO POGGI

.

Canale  d’Otranto – Notte di Natale

 

“M’addormento. Mi sveglio di colpo.
Paura, paura in questo barcone
che cerca nel buio l’Italia.
Ho incontrato mio padre nel sonno
(teneva in mano le sue gambe,
le reggeva per le caviglie;
me le offriva tieni, figlia,
che ti portino lontano da qui).
Nel mio villaggio la vita
è stata un nevicare
di bombe e una semina di mine
un lancio di gambe artificiali
paracadutate sull’ospedale da campo
una tariffa altissima per pagare
il passaggio fino al mare e l’imbarco.
Forse mi sono addormentata di nuovo,
perché ho parlato con mia figlia
(ho paura, mamma,
gli Orchi stanno masticando
la mia scuola e le mie bambole.
Ho paura anch’io, figlia non ancora
nata).
Lumi davanti a noi?
È Natale in Italia e,
dicono, niente polizia stanotte.
Luci dei paesi lungocosta?
Le stelle sono tristi
qualcuna geme qui nel barcone
ed ho pensieri d’odio per chi ha portato
guerra nella mia casa
e rancore per chi mi farà la carità
d’un lavoro senza dignità
ma che dovrò mendicare
perché io so che cosa mi sta
davanti
– e non posso scegliere
(nessuna scelta per me,
se non quella di fuggire).
(Non ho un nome).
Bagliori a prua?
Sento dire che gli scogli s’avvicinano.
Badisqu – Badishqu – Badís
è nome di stella? che ripetono
ossessivi e ci sta di fronte”

ANTONIO DEVICIENTI

.

.

E continuano a violare.
Era d’estate
e in pausa pranzo
eri lì seduto
con gli amici di sempre
e si parlava di solitudine
e delle mode del momento
ti piacevano le mie pashmine
e gli accessori di bigiotteria
eri un creativo
e disegnavi sui tessuti
minuzie
con abilità straordinaria
accettavo la tua diversità
quella sensibilità speciale
mi faceva tenerezza
quell’espressione di dolcezza
nei tuoi occhi sognanti
tra la gente
un giorno
mi precedevi avevi fretta
eri lì  alla cassa
impaziente
collanine colorate
ti agghindavano
tristemente
Era d’estate
eri abbronzato: dove sei stato?
in Thailandia
è stato bellissimo
hai aggiunto.
Mi è sembrato di cogliere un guizzo negli occhi.
No non fermare il sorriso di un bambino
non servono collanine colorate
per carpire la fiducia
il suo mondo conosce la violenza
come sopravvivenza

tu vieni da qui, dal nostro mondo,

non rubare un attimo di felicità
non ti appartiene.
Ogni tanto mi sembra di vedere quello strano guizzo negli occhi
una piccola cometa,
vicino mi immagino
un bambino dagli occhi neri, grandi e profondi
che tiene in mano una collanina colorata
e spero  lo spero sempre
che non sia  la sua vita ad essere violata.

CETTINA LASCIA CIRINNA’

.

Mi sono decisa
ti scrivo una lettera perché voglio
sì voglio ancora Natale.
Alla grotta ho guardato
ma non ti ho veduto.
Vedo invece bambini

che rincorrono scalzi i loro giochi

fantasmagoria di tecnologia e oggetti sospetti
E li vedo
con languidi occhi chiedono amore
e io non mi sazio di stelle filanti o canzoni
E’ la mia anima
che senza vergogna ancora ti aspetta
aspetta quel tenero abbraccio dell’ atteso.
Eppure indignata
ho chiuso la finestra. Non volevo vedere.
Non volevo guardare chi non vuole sentire
chi non vede chi non sa avvicinare il dolore
per la miseria che ha in cuore e sta dentro casa sua
non la povertà degli altri, i meno abbienti, i disgraziati
i poveri cristi che si fanno in quattro tra casa e lavori
perché uno non basta
per far quadrare i conti
loro i notabili fanno la guerra con i tasti e i guanti bianchi
e della gente proprio non gli importa
Promesse, sempre e solo promesse
Che ora stanno attaccate al calcagno
e nella calza solo il buco già sfondato
Ancora scorre sangue
tra fanatici e poveri diavoli dismessi
non certo lesti come quelli che corrono al forziere.
A volte mi capita di piangere e poi immediatamente rido
perché significa che ancora sento, non mi è cresciuto il marmo dentro
e la libertà so che ha lo stesso odore del pane fresco
appena uscito dal forno
ha odore di bambino appena nato
è la luce di un cristallo che riverbera la neve al sole
Tutta un’altra cosa da un falso d’autore
In questo vuoto mondo dei balocchi.

FEDERICA CABIANCA

.

Notte di Natale

Aspetto che il silenzio
fermenti il suo liquore
oscuro dentro me,
mentre fuori è una città che muove
l’orbita delle ultime luci, io mi sento

respirare dalla notte sul cuscino
l’insonnia di tutte le notti, recitate nel sapore di un addio.
Attraversando il distacco
della menzogna condivisa,
parole troppo buie per venire al mondo
la notte di Natale, traboccano come musica alcune ombre
la calca delle occasioni perdute
nell’inverno dei pensieri

tutti questi viaggi senza nessuna spiegazione,
questi palazzi che si accendono e si spengono
a intermittenza con una felicità da poco
o forse niente, tutto questo
nella fitta del dolore che ritorna
con il verso di una canzone: No alarms
and no surprises, please.

PIETRO PISANO

.

.

” il processo di crescita dell’uomo moderno deve avvenire attraverso tre fasi:
parlare con i morti, parlare con i vivi, parlare con se stessi”
Graciàn

Attendiamo il Natale, quello dei bambini.
E’ un Natale distante, rimane dietro le vetrine
producendo un Dio nascosto: dietro le copertine
dei libri sacri; dentro le cifre di libri contabili;
dentro la montante onda che tracima gli argini:
dietro una foschia traboccante dimenticanza.
E’ un Natale che vede crollare, in abbrivio,
muri antichi e porti sicuri sferzati
dalla tempesta che scava tumori di fragilità.
Attendiamo il Natale – disperato segnale –
Malgrado il sangue impotente consumi
CONSUMI
C O N S U M I
l’attesa tra scherni e scommesse.
E’ notte di piena, quaggiù, il calore decresce
nelle quotazioni di mercato e nei magazzini
di luci tristi, spinto dall’aria di festa.
Malgrado il rito imponga consumi
CONSUMI
C O N S U M I
Attendiamo il Natale, quello dei bambini

STEFANO GIORGIO RICCI

.

terra terra terra
grido
e una colonna si alza alta
acqua che dal niente  brilla   e brilla
con energia che si perpetua in esseri e millenni
cedendo senza sosta scorza e scintilla.
Anche lei, la terra, ebbe un natale.
C’è scritto sul manuale!
Nacque dal ventre del cosmo ma nessuno di noi conosce le sue origini
le vicissitudini che l’hanno plasmata   ingrossata
scuoiata e irrigidita fino a queste forme tondeggianti.
Le teorie  diffuse sono sempre solo ipotesi,  congetture vi dico, nessuno sa
nessuno può dire con certezza da dove venga
quanto resisterà e se resterà sospesa o
esploderà del suo stesso contenuto. Basta un niente, l’han detto  i profeti,
un attimo di collasso e il pianeta, dentro un anello di fuoco,  sarebbe solo
uno sciame di esplosioni e noi gente futura saremo
atomi. Né più né meno di minuscole palline di energia.Invisibili.
Se ci penso ora, da qui, a cosa potrebbe diventare la nostra vita
trovo che il nostro assurdo affannarci e tradirci l’un l’altro per squallidi problemi
disumani l’oggi così tanto che non c’è più bisogno di futuro. Siamo già
oggi scomparsi. Siamo pallini, di mitraglia, siamo biglie di contabile. Siamo
l’economia dello spazio finanziario.
Eppure la vita non fa economia di nulla
sperpera per avere la miglior forma, la miglior sostanza
e si dimentica, si dimentica sì,
di presentare  a ciascuno  ogni volta il conto,
l’esatto dispendio di risorse che le costa tenerci tutti in sella  e
tutti in corsa  dentro un immenso mondo in una sola stella.

ANDREAS MOLCH

.

Non ho mai smesso di piangere
dubitare disperare
mai mi sono lasciata andare.
Quante volte ho chiuso
gli occhi per immaginare
il buio assoluto
per farmi trasportare nel vuoto.
Una luce una fiamma una stella
mi hanno sempre illuminato
la strada.
Una voce
lontana e antica mi diceva
nel silenzio piu’ assordante:
“La vita e’ una -la vita e’ tua – la vita e’ bella”.
Non ho mai smesso di sognare
un mondo migliore
per questo nel mio cuore c’e’ ancora
tanto vuoto da riempire
tanto spazio per l’amore.

BEATRICE IMPRONTA

.

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E’ Natale da fine ottobre. Le lucette si accendono sempre prima, mentre le persone sono sempre più intermittenti. Io vorrei un dicembre a luci spente e con le persone accese. – Charles Bukowski

‘J I H I’

Un lampo di luce, nella notte.
E’  cronaca di tanti silenzi , di urla viscerali
non è eccezione che faccia differenza.

Me lo dicono gli indifesi, donne, bambine, bambini, cuccioli.
Quel che non si vede non corrisponde al non sentito.

Un’attesa che ritarda, quella della giustizia.
L’orologio del tempo segna che la vita è soverchiata da atti d’indifferenza
indefessa brutalità,
ma non ho mai sentito che un inverno non si trasformi in primavera,
gioiendo per quel che c’è da gioire, soffrendo per quel che c’è da soffrire.

E il segno del soffrire, mi dico, è il condividere la sofferenza,
un atto detrattivo di chi detrae dalla nostra e dalle nostre moltitudini.
Vita , gioia, speranza, corpo, gesto che segna una a come amore.

Anche ora, che ora la ruota dell’ora ritorna
e sembra attardarsi nella speranza che non ci sia lei, speranza,
attendo le mie sorelle e i nascituri
in quel circo di luci evanescenti, rumorosi fuochi fatui.

E’ :

una nebbia del cuore che non riscalda la vita ladra e avida
di amore
amore
amore
amore, ti aspetto, amore,

in quel Natale – che triste il Natale –
che piange dolore d’inattesi silenzi
e di sorrisi d’ebano all’angolo della strada
che non conoscono freddo,
riscalda il lessico di una geografia basculante,
incerta, disumana, matrigna.
Sorride, lui, coi denti bianchissimi.
No, madre, attardati,
madre, no, ritarda l’attesa, ritardala.

La distanza e la tua assenza non può declinare
il verbo di un eterno ritorno, ripetiti in cosa?
nella vita che non sa di te, madre?
del tuo pianto che piange le tue creature
abissali e immobili, viscere sprofondate
nel gelido mare dell’omertosa vita
serena, quella dell’Ovest?

Non venire, fatti desiderare, madre,
nel pianto e nell’incertezza
del vuoto disumano del gesto umano.

E una mano rieducala, ri-abilita anche due dita
la mano paraplegica
alla semplicità di una carezza,
un gesto, un solo colpo d’iride infuocato
d’amore
amore
amore
amore mio, ti aspetto.
Dove vuoi tu, sarà sempre troppo tardi.
Non attardarti nel desiderio di una enne come il nulla.

Il vuoto, amore, conosci, ma dimmelo che non è così,
Madre.
Ti aspetto nel Natale che vedrà.

AGNESE GATTO

.

La morte aspettava da tempo
appoggiata al tuo letto
Aspettava il momento,
l’ora giusta

Parlavamo di lei:
sarebbe arrivata
avrebbe lasciato il tuo corpo
composto, come tu lo volevi,
tenacemente.

Con gli occhi chiusi
mi hai detto, esausta,
io me ne andrò
prima che sia Natale..
mi sto già incamminando
…”

Sono uscita guardandoti
sempre, fino a che gli occhi
che mi cercavano
han detto  “vai”

Quella sera
tua figlia ti accarezzava,
sussurrava parole d’amore.
Non avevi paura.

Aspettando Natale
te ne sei andata.

Il tuo spirito è in noi,
nell’universo,
é nei fiori che amavi,
nei ciclamini che ti mandavo
in quelli che nasceranno
nei prati della terra.

“Lasciate andare le lacrime,
non tenetemi stretta
per troppo tempo…”

.

VITTORIA RAVAGLI- Natale 2011 – Dedicata

.