lima- ragazze ospiti del centro di accoglienza residenziale ermelinda carrera
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Di Daisy mi colpì la sua esuberanza e il suo affetto. Quando tornai a visitarla per la seconda volta mi chiamò col mio nome e lo fece con una tale felicità che intuii che mi stava aspettando. Mi sentii in colpa per non ricordarmi il suo, ma in seguito lo imparai in un modo in cui non penso riuscirò mai a dimenticarlo. Di Laura mi colpì la sua maturità, la sua logica. Le piace la matematica e dare buoni consigli alle persone che sanno ascoltarli. Di Roberta, la sua innocenza e il suo talento per il perdono. La persona che più ama è la stessa che un giorno le causò la più grande delusione e non credette ai suoi occhi limpidi. Di Elena, la fede che ha in sé stessa, la lucidità con la quale protegge i suoi sentimenti. Di Esther, invece, la sua sincerità, il suo modo franco di parlare. In un tono assai ponderato mi rivelò che una volta pensò di fuggire. Per fortuna, cambiò idea.
Maltrattamento, abbandono, abusi, violenza. Sono alcuni dei motivi per cui queste ragazze, adolescenti, si trovano tra le quattro mura del Centro di accoglienza residenziale Ermelinda Carrera di Lima, lontano dalle loro famiglie, dalle famiglie che non seppero come proteggerle. Fino a che, un bel giorno, lo Stato decise che prendersene cura era suo dovere. Quando per la prima volta si mette piede in un albergue (rifugio), si ha come il sospetto che queste ragazze stiano espiando una colpa. Per un lungo tempo anche loro stesse ne sono convinte. Non si capisce bene se le sbarre che le separano dal mondo servano a impedire a qualcuno di entrare o di scappare. Se servono a proteggerle da ciò che c’è fuori o da loro stesse.
Se hanno perso la loro vita di prima è perché non hanno saputo cogliere il valore di ciò che possedevano, dicono. Nessuna che dica che ritrovarsi lì significa che è stata lei quella non amata e apprezzata come invece meritava. Forse è troppo presto per accettarlo. Forse gli risulta più facile pensare che se questa volta si comportano bene, se seguono tutte le regole alla lettera, non dovranno mai più affrontare il dolore e la solitudine.
Queste ragazze che hanno tutte le ragioni del mondo per essere arrabbiate con la vita, ti accolgono sempre con grande gioia. Se la tua pelle è chiara e i tuoi capelli castani, ti domanderanno se sei straniera e si entusiasmeranno ancora di più. Là da dove vengono, le persone che loro conoscono si assomigliano tutte: sono di carnagione scura, hanno i capelli neri e lisci e occhi marroni. Perché la povertà non è solo una condizione sociale ma possiede un colore di pelle e un domicilio. Se sei straniero, cominceranno dunque a fantasticare sul tuo luogo d’origine. Più lontano è, meglio è. Vorranno sapere come si parla, come si mangia e come si vive in quel posto. In quel momento, tu non sei solo il loro punto di contatto con la realtà esteriore, ma anche una finestra su un mondo parallelo nel quale, immaginano, sarebbero state più felici. O nel quale potrebbero avere un nuovo inizio. E quando glielo descrivi e dici loro che anche quel mondo è disastrato, ma un po’ meno, loro esclamano: “Come mi piacerebbe abitarci!”
Si interessano a te e in te cercano tutto l’affetto che sei in grado di dare, perché quello che loro hanno ricevuto non è stato mai abbastanza. E se tu ti interessi a loro, diventano voraci, quasi ingorde. Aprono gli occhi, le mani e le braccia più che possono per riuscire a contenere tutto l’affetto che sei disposta a regalargli. Ti chiedono qualunque cosa: un abbraccio, un bacio, un anello, affinché possano rimanere con un qualcosa di tuo nel momento in cui te ne andrai. E ogni persona è per loro come una fugace stella cadente che illumina la loro routine. Una persona in più che forse sarà capace di amarle.
Stupisce pensare che queste ragazze possano aver così tanto bisogno di un qualcosa che conoscono a malapena, qualcosa come l’amore. Roberta dice che i suoi problemi cominciarono quando il suo patrigno si “innamorò” di lei. Aveva solo dodici anni. E adesso che ne ha quindici non ha ancora compreso che il letto dove è stata derubata della sua infanzia era, in realtà, la scena di un crimine.
Vengono definite “ragazze di strada”. Beh, è aberrante che essendo solo delle bambine arrivassero a pensare che la strada fosse un luogo più sicuro, o meno pericoloso, della loro stessa casa. Quella casa di cui adesso hanno nostalgia, perché si accontenterebbero del fantasma dell’amore di una famiglia, delle briciole che scivolano dalla tovaglia. Si afferrano a pochi ricordi di carezze e scordano volontariamente le percosse di cui ancora portano i segni. Il mal di schiena, ad esempio, più visibile e sopportabile della loro anima malconcia. Preferiscono ricordare le volte in cui andavano al mare. Daisy lo faceva ogni fine settimana, assieme alla mamma. Il mare stava a pochi isolati dalla loro casa ed è quello che più le manca. Adesso il mare ce l’ha ancora più vicino, può ascoltare il suo canto ma non può vedere i suoi flutti.
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lima- ragazze ospiti del centro di accoglienza residenziale ermelinda carrera
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Tuttavia, il passato non le consola. È dai sogni che loro traggono la forza per vivere nel presente. L’unica ragione per cui non scappano, per cui Esther, quando era sul punto di saltare dall’altra parte del muro, decise di fermarsi. Lo stesso motivo per il quale accettano di mangiare il fegato, seppur turandosi il naso. E mille altre regole che rispettano per poter continuare a godere di diritti che fuori non avrebbero, come quello di andare a scuola o di ricevere cure mediche quando si ammalano. Sono piene di gratitudine e cercano di vedere quella vita senza libertà come un’opportunità. L’opportunità di fiorire il giorno in cui usciranno da lì, al compiere la maggiore età. Sperando che quella data così agognata e temuta non arrivi troppo presto, che gli conceda almeno il tempo di ottenere il diploma. O sapere sotto quale tetto finiranno a vivere. Se qualcun altro si preoccuperà per loro.
Estefania Mejía Negrete
Molto interessante, grazie per queste testimonianze piene di partecipazione e di passione, ci portano più vicino un mondo che in realtà non è poi così distante, io penso che le periferie di città come Napoli, Milano, Palermo, Genova, conoscano storie simili, ed è bello sapere che in un paese lontano c’è chi si prende cura delle persone ferite e sfortunate.
Grazie a te, Paolo.
Sì, in effetti penso che siano delle realtà ancora troppo diffuse, in ogni dove.
Lo Stato evidentemente se ne prende cura e anche alcune ONG. Purtoppo, non potranno mai sostituirsi al calore di una famiglia.