laurent kronental- complesso residenziale a noisy-le-grand- arch. ricardo bofill, edificio postmodern (archdaily)
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L’idea di essere un turista mi ha perseguitato per anni. Togliersi dalla maledizione del turista. Chi è un turista? Uno che è obbligato a vedere strade, piazze, opere, monumenti che milioni hanno ammirato prima di lui. È uno spettatore televisivo, uno che si stupisce a comando, uno che fa foto prima ancora di avere visto con i suoi occhi. Parigi poi, figuriamoci. Chiamiamola “la ville obscure”, allora, ed elaboriamo strategie e tracciati per quanto possibile alternativi alla mappatura dei luoghi celebri. Ho provato in questi anni a mettere a fuoco Parigi spostandomi ai margini della metropoli, visitando i quartieri periferici, le banlieue, anche vivendoci un po’. Sono queste le zone che a suo tempo il potere gollista lasciò, per una ragione di spartizione del potere e di controllo sociale, alla gestione del PCF: classi popolari, facinorosi, extracomunitari clandestini o no, tutti disposti intorno, sul bordo ben delimitato e croccante della torta, quando tutti sapevano che la farcitura più golosa e dolce si trovava al centro. Sono sobborghi i cui palazzi di edilizia popolare e i cinema sono titolati a Maximilien de Robespierre, lì ci sono state le rivolte degli ultimi anni e si sono alzate le barricate – mettere a fuoco, ho scritto -. Montreuil, ad esempio, dove Victor Hugo ha ambientato “Les Misérables”, stesso titolo di uno straordinario e corrosivo film di Ladj Ly, enfant du pays, su cosa significhi essere un bambino povero oggi. Gavroche maghrebini e senegalesi.
Quest’estate sono stato a Noisy-le-Grand, Valle della Marna, a est come Montreuil. Appena più in là c’è la gigantesca bolla di Disneyland, fastidiosa escrescenza da cui mi sono sempre tenuto lontano anche quando avevo una figlia in età arruolabile dai giganteschi pupazzoni adescabambini, lontano dalle file interminabili per accedere all’attrazione, dalla catena di montaggio del divertimento. Con mia figlia ormai adulta invece, salendo sulla RER che è la metropolitana delle banlieue, sono arrivato a Noisy-le-Grand. Volevamo vedere da vicino come è Abraxas, viverne l’esperienza. Inutile negarlo: sempre alla ricerca della meraviglia, anche se di grado diverso. C’è chi si stupisce davanti alla Gioconda e chi davanti ad Abraxas. Non sono abbastanza sincero con me stesso per capire se si tratti veramente di un tentativo di analisi sociale o semplice snobismo.
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laurent kronental- complesso residenziale a noisy-le-grand- arch. ricardo bofill, edificio postmodern (archdaily)
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Ci sono scale che dalla RER sotterranea ti conducono alla superficie. Si esce su un terrazzamento progettato da architetti votati alla pietà estetica nei confronti della periferia degradata. Cercano di rendere decenti questi non-luoghi – Marc Augé docet – che avrebbero probabilmente più dignità nello sprofondamento totale, al posto di uno stucchevole ritocco di ambiente, di un tentativo assai poco riuscito di recupero e riqualificazione. Fortini di cemento, giochi per bimbi ispirati all’Art Brut di Dubuffet, vasi di fiori che vorrebbero ritornare sterpaglia. Al bar sottostante dove ci fermiamo per pisciare e chiedere indicazioni, c’è una gentile cameriera cinese che non sa e un esercente algerino subito pronto a spiegarci come ci si arriva, ad Abraxas: attraverso il centro commerciale e poi sino in fondo al parcheggio. Non riesco a contare bene le monete per pagare i caffè, mi areno sugli spiccioli, mi imbarazzo. Un gallo dagli occhi celesti sporgenti e dalla pelle rossastra smette apposta di bere la sua birra e mi ridacchia in faccia. Meglio andare via in fretta.
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espaces-dabraxas-noisy-le-grand-in-paris-france-by-instabruijn
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Il centro commerciale che occorre attraversare si chiama Les Arcades e qui da Parigi accorrono tutte le famiglie più o meno borghesi per acquistare i prodotti che certifichino il loro stile di vita. Lacoste, Sephora, Swarovski, Zara, Fnac. Corridoi, vetrine luccicanti, ristoranti e bar. Sorveglianti neri enormi, ma elegantissimi, in posa militare e mani dietro la schiena. Si potrebbe essere alle Galeries Lafayette o da Bon Marché, anche se là il colpo d’occhio è più spettacolare e più alti i prezzi. Usciti si attraversa un parcheggio vasto e anonimo con auto dalle carrozzerie lucide e dai bagagliai capienti. Infine, quasi veramente come in un incantesimo, ecco di fronte a noi Abraxas. Le torri, le colonne, le finestre squadratissime, i templi distopici. Qui Terry Gilliam ha girato “Brazil” e in tempi più recenti vi è stata ambientata la saga fantadolescenziale di “Hunger games”. Il progetto risale ai primi anni Ottanta. L’architetto spagnolo Ricardo Bofill fece costruire tre unità architettoniche, Arc, Thèâtre, Palacio, in stile eclettico postmodernista o se volete in un neoclassicismo surreale. L’idea era di creare uno spazio di integrazione totale fra ricchi cittadini metropolitani attirati dalla proprietà in una lussuosa stravaganza abitativa e inquilini che invece vi avrebbero avuto accesso attraverso un piano di occupazione popolare. Gli stessi palazzi, le stesse scale, lo stesso spazio ricreativo sottostante. L’esperimento ha avuto un esito fallimentare perché invece di creare spazi vitali di scambio e aggregazione, si è addensato a ridosso dei palazzi il blocco consumistico del centro commerciale. Il verde è sopra i tetti, inaccessibile, visibile solo attraverso gli occhi dei droni, giocattolo o militari. I proprietari potevano togliersi ogni voglia accedendo con la carta di credito a Les Arcades, gli inquilini poveri stare a guardare e a schiattare dalla rabbia per la negazione del loro diritto al consumo. Leggo che forse vogliono abbattere tutto e il mio cuore da teatrante ha un’accelerazione non giustificata, sfuggita al controllo del mio innervamento politico ed ecologista. La scenografia è straordinaria e straniante. Non c’è nessuno. Entro nell’enorme peristilio deserto. Ora una donna col bastone arranca sulla scalinata. Un’altra africana dell’assistenza sociale annota su una cartellina, accanto alla pulsantiera di uno degli ingressi. Alzo gli occhi e vedo affacciarsi a una finestrina lontana un ragazzo nero. Conto diciannove piani. Hanno promesso una magia. La formula è Abraxas. Hanno costruito un gigantesco tempio semicircolare con colonne dai fusti di vetro e migliaia di finestre, i frontoni, l’anfiteatro. Là, sotto i palazzi olimpici, si organizzano i giochi della fame. Ci va a vivere il ragazzo arrivato dal mare. Si affaccia dal balconcino e sventola uno straccio giallo, ascolta i motori spegnersi nel parcheggio, spinge gli occhi verso le enormi arcate addossate al palazzo, il centro commerciale grandi firme, lui sans papier. Senza parole, senza espressione. Entrarci lo può già fare ora, ma come guadagnare in fretta per comprare, comprare tutto? Abraxas. Qui sotto entrano in campo altri ragazzi neri che controllano il territorio, fanno i duri, mi interdicono, proibiscono di scattare foto al mio stupore già a fuoco. Se tutti aprissero le finestre ai diciannove piani e iniziassero a urlare! Questo silenzio irreale…se tutti noi dalle nostre capanne di carta recitassimo i versi babelici che custodiamo nel nostro reliquiario personale! L’elargizione dei nostri io…sarebbe una rivolta e le parole andrebbero a segno come sassi colorati piuttosto che alzarsi come palloncini o mongolfiere.
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Arrivato a casa consulto Wikipedia e leggo che la parola Abraxas nella mitologia persiana simboleggia l’unione/totalità fra Ahura Mazda e Angra Mainyu. Ossia il bene e il male. Ovvio. Banale. Forse vero.
Paolo Gera
RIFERIMENTI IN RETE:
molto interessante anche questo reportage, spero ne seguano altri!
Impressionante quadro di una Parigi poco conosciuta.