estefania mejía negrete
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Ogni mattina, prima della quarantena, venivo svegliata puntualmente dall’ossessivo trapanare proveniente da un cantiere in costruzione. Gli operai iniziavano i lavori di mattina presto, prima del sorgere del sole, e terminavano quando le prime sparute stelle erano già spuntate in cielo anche se spesso coperte da una nebbia fittissima. In tempi record, sono riusciti ad
innalzare undici piani di infissi e cemento, a cui se ne sarebbero dovuti aggiungere altri e alla fine sarebbe sorto un nuovo grattacielo, simile a tanti altri che ricoprono densamente il
departamento di Miraflores, nel cuore pulsante di Lima. Un moderno formicaio umano, imponente, neutro nei colori e povero di originalità. Probabilmente, ad oggi, starebbero realizzando le ultime finiture e in poche settimane sarebbe stato pronto per l’inaugurazione. I laboriosi e sottopagati operai avrebbero lasciato il posto ai nuovi inquilini, quasi sicuramente delle famiglie borghesi e benestanti, e si sarebbero trasferiti in un altro cantiere. Trovarlo non sarebbe stato difficile in una megalopoli tentacolare che sembra voler fagocitare ogni zolla di
terra, inghiottendola nel cemento.
Il cantiere è però fermo, ormai da più di un mese, come tutto intorno ad esso. Sembra lo scheletro di un progetto che forse mai si compirà e si staglia dinanzi alla mia finestra come
metafora di questi tempi desueti. Spariti gli operai che non hanno avuto neanche il tempo di finire di cingerlo con dei teli neri, lasciando scoperti gli ultimi due piani. Forse qualche gatto
randagio lo avrà scelto come rifugio. Di certo conferisce alla capitale latinoamericana un’apparenza ancora più spettrale. E anche se le mie orecchie si stanno godendo un rigenerante periodo di riposo, lontane dal solerte martellio a cui erano sottoposte, non posso fare a meno di pensare agli stomaci degli operai, forse a digiuno, quasi sicuramente insoddisfatti, senz’altro in rivolta. Gli operai, invece, non hanno nessuno contro cui rivoltarsi. Essendo questa una delle avenidas più trafficate di Lima la lista dei rumori che sono
scomparsi è però ancora lunga e molti di essi, sono sincera, non li rimpiango. Non rimpiango assolutamente il rumore delle automobili né lo strombazzare degli automobilisti che spesso e
volentieri rimangono bloccati in interminabili ingorghi. Né l’urlo dei cobradores (dipendenti che vendono i biglietti ai passeggeri) di combi (gli autobus peruviani formali ed informali, spesso colorati e sempre affollati) che elencano a gran voce le prossime fermate e invitano i passanti a salire al volo sul loro sgangherato veicolo. Meno che mai mi mancano le sirene
delle volanti della polizia e quelle del camion dei vigili del fuoco, le più chiassose che io abbia mai sentito. Di rado si avvertono quelle delle ambulanze, anche se non si capisce bene
che funzione svolgano in delle strade deserte, dove non ci sono più altre macchine a sbarrargli il passo. Deve essere la forza dell’abitudine.
La città, però, non è affatto silenziosa come uno potrebbe aspettarsi. I rumori metallici artificiali sono stati sostituiti dai suoni della natura. Questi suoni c’erano anche prima, ma venivano soffocati prima di giungere al nostro udito, mentre ora riemergono trionfanti. Non ho mai visto tante specie diverse di uccelli come da quando sono arrivata a Lima. Si discostano assai dal tipico passerotto che vive tra gli alberi europei o dai piccioni che siamo abituati a vedere nelle piazze e sotto le tettoie. I loro piumaggi sono sgargianti e variopinti.
Non sono un’ornitologa e non so dirvi i loro nomi. Durante il confinamento, però, ho imparato a distinguere i loro modi di cinguettare. Ognuno ne ha uno caratteristico. Ce n’è uno buffissimo, per esempio, che fischia proprio come se stesse ammirando le gambe di una bella donna in minigonna. Mi fa quasi arrossire. Un altro ha lo stesso timbro cupo di un gufo, anche se per cantare preferisce le ore diurne. Alcuni hanno un repertorio più variato e melodico, altri si limitano ad un’unica e ridondante nota.
Quello che più mi mette di buonumore è però un loro (un uccello esotico simile al pappagallo) che abita in un appartamento del palazzo dirimpetto. Suppongo sia sempre stato lì ma solo ora ho scoperto la sua presenza. Un giorno mi ci sono messa di impegno e l’ho scovato in mezzo a tutte le finestre che ho passato al setaccio con lo sguardo. È tutto verde, con il becco arancione e alto come tre palmi di una mano. Dal nulla, sprigiona degli urli che fanno sobbalzare e, tra una vocale e l’altra, infila anche qualche parola. Da dietro le sbarre della sua gabbia, strilla: “Mami!” oppure “Mamita!”. E anche se fa sorridere, non posso dire di non capirlo.
Estefania Mejía Negrete