neil moore
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Un grido, nella sua terribile necessità organica, nella sua impellenza di manifestare il dolore, non può essere diviso in parti. Può avere semmai un inizio e una fine, ma nelle estreme lacerazioni neppure quei limiti valgono. Il grido di Cristo rivolto al Padre sul Calvario riecheggia sino ad oggi anche per coloro che non credono e non hanno abbracciato la fede. È il sigillo della solitudine più estrema, dell’abbandono più completo, della consapevolezza che più si ha sete di vita, più questa diventa fonte inattingibile. È la condizione dell’assurdo che hanno denunciato nei modi a loro propri Rimbaud, Nietzsche, Kafka, Sartre. Se si annuncia che il grido sia composto da parti, come sostiene a cominciare dal titolo della sua opera Lorenzo Chiuchiù, si abbraccia una prospettiva di analisi che non può essere altro che esistenzialista: capire il grido, suddividerlo, pesarlo, da espressione di sofferenza farlo diventare impossibile incitamento alla ribellione, alla cattura del fuoco sacro. Sul suo essere udito e compreso, non si può nutrire la minima speranza, ma il grido continua a prorompere e rimane come scandalo estremo, come fulmine che di tempo in tempo illumina il buio del nulla. Non si può far a meno di riflettere sulla condizione alienata dell’uomo, la sua caduta dall’Eden nella storia e, fusa insieme a questa, la costatazione della sua origine divina. Proprio dalla sua terrestre sofferenza sorgono le insegne araldiche, riconoscibili, anche se smembrate e sbiadite, della sua linea dinastica: il cosmo, le galassie, l’infinito. Lorenzo scrive nelle sue poesie di “dolore intrico del cielo” (p.9), di “arteria stellata con la storia” (p.10), di “arteria astrale” (p.17), di “cuore siderale” (p.19), di “luce in vena” (p.37). Il dolore non è solo umano, ma radice di ogni cosa terrestre e celeste:” i cieli sono tutti scritti/feriti a morte e ancora sacrificati come, /soldati.” Il sigillo prometeico dato una volta per tutte alla poesia italiana è quello di Ugo Foscolo ne “I sepolcri”, con versi necessari, assoluti: “Rapìan gli amici una favilla al sole/a illuminar la sotterranea notte, /perché gli occhi dell’uom cercan morendo/ il Sole e tutti l’ultimo sospiro/ mandan fuggenti alla morente luce” (vv.119-123). Non credo possa esserci constatazione più dolente e nello stesso tempo più forte tensione agonistica. Per Chiuchiù a volte la prospettiva si ribalta ed è dalla luce comune che occorre fuggire per trovare riparo nella consolazione di un occultamento non visibile, ma pulsante: “noi tutti abbiamo/il sangue senza livore degli amanti/: separati scampati/alla luce come animali santi.” (p.21). È come se la luce per tornare ad essere salvifica debba prima a impastarsi della carne viva del creato, della sua caducità e della sua gloria. “Come se la vita fosse intera/illuminata, ferita e per te.” (p.10) o “(…) la stella/ che contiene tutte le notti/ e tutti gli accecanti battesimi/non rivorrà la tua ombra.” (p.16)
Il mito che continua a essere fondante per questa poesia, quello di Prometeo ci conduce alla figura dell’uomo in rivolta di Albert Camus, che ha il volto fisso sulla sofferenza degli uomini e che pure è catturato dalla inestinguibile bellezza del mondo. Scrive Camus a proposito della poesia di Rimbaud, uno dei punti cardinali di Chiuchiù: “Prorompe nell’attimo in cui, dando alla rivolta il linguaggio più stranamente appropriato che le sia stato conferito, dice ad un tempo il suo trionfo e la sua angoscia, la via assente al mondo e il mondo inevitabile, il grido verso l’impossibile e la realtà ruvida da stringere, il rifiuto della morale e la nostalgia irresistibile del dovere.” (A.Camus, L’uomo in rivolta, in Opere, Bompiani Milano 1987, p.717). Chiuchiù vuole rendere feconda la crasi e impiantarla in un nuovo linguaggio che non concilia il dissidio tra ideale e reale, ma edifica la barricata su cui ci è stato dato per sorte alzare canti e fiamme: “Così inizia e così finisce,/con il disprezzo infisso nel fianco/come una cesoia primordiale/o come se la rosa regredisse/ nel rosso della gemma/nella tempia terrestre/nel sogni di un dio:/ è la fuga dall’unico all’unico/e ora chiudi il pugno -/ e colpisci.” (p.26)
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Il luogo dove si svolge e si riavvolge la poesia di Chiuchiù è il deserto bianco della pagina entro cui si aggirava nomade Edmond Jabès e si procede a un’identificazione per me essenziale tra i fenomeni e le parole, intrecciate in modo che non si possa tracciare una linea demarcatrice tra la realtà e ciò che viene indicato come suo significato. È la parola stessa oggi a essere ferita oppure “la sillaba scava come il bisturi”( p.27):“Vuoti e frontali come i sogni dove si muore/volete la vostra illusione, la vostra bellezza santificata/la parola niente ripetuta e divorata dalla gioia:/anche voi siete parole/ e avete il vostro turno in una notte finita.”(p.32) o ancora: “ Verso lo stile distruzione/fogli che ricoprono la terra-/qualcuno li ha scritti per te/e per te li ha mandati fuori/ come soldati essenziali, e se è stato sarà per le rivolte/e le interferenze: il salto/non ritrova terra.”p.25. L’altro elemento jabesiano è l’impostazione dialogica del tracciato lirico: l’altro non c’è materialmente, non intreccia colloquialmente le sue riflessioni con il poeta, ma è comunque presente come “tu”: è, come per Pascal, un tu riferito alla coscienza, ma può indicare un soggetto particolarmente vicino nell’esperienza del vivere, un compagno nella morte come indicava Ungaretti, sino all’identificazione totale con l’ ‘essere accanto’. Si allunga una mano e si tocca se stessi.
La traccia da cui parte il percorso è subito inserita sulla copertina e replicata prima che le poesie abbiano inizio: sono immagini della partitura iniziale del “Prometeo” di Luigi Nono, che diventa, immagino, una specie di icona devozionale a cui si rivolge il poeta prima di intraprendere il cammino. Tragedia dell’ascolto, arcane dissonanze, isole sonore sganciate dagli ormeggi, viaggio in terre e spazi incogniti. La cifra sonora di Nono diventa in “Le parti del grido” stesura di parole lontane dalla chiacchiera, la cui cifra trasuda attenzione disperata a cogliere un loro improvviso affioramento. Ci sono poeti per cui la relazione con i lettori vive nel metterli a parte di una lucida deriva, da cui farsi trascinare nel momento stesso in cui scatta l’interpretazione dei versi: penso a Celan, ad esempio. Occorre leggere e rileggere per essere messi a parte. Si elabora un alfabeto segreto ma incendiario in cui l’esperienza personale trascende nella cosmogonia, un corto circuito di senso comune che si appella a un’interpretazione medianica eppure disperatamente umana. I deragliamenti di senso di Chiuchiù sono cuciti da una fibra viva che percorre tanto l’uomo quanto la natura.
L’ultima parte dell’itinerario sono le prose fulminanti di “Stella ascetica”, che mi riporta alla mente “Lichtzwang”, “Luce coatta”, di Paul Celan. Stilisticamente non si può non riferirsi alle illuminazioni del ragazzo di Charleville, ma qui viene innestata una radice messianica che mi fa pensare all’ “Angelus Novus” di Benjamin o ancora ai libri di Jabès, – sto parlando non a caso di scrittori di origini ebraica – in una prospettiva in cui ancora nomi e oggetti si confondono, in cui Storia, destino e natura si intrecciano. La vita è il Libro, popolato da immagini, che, a sorte, possono nascere, sorgere, scomparire.
“E’ tutto scritto nel libro con le pagine ancora da tagliare. Ascoltami, dici, scegli una tempesta a caso, sono io; scegli una tempia, quella sono io; accetta la morte perché anche quella sono io” (Stella acetica, XIX, p.44)
Nel suo Tagebücher , il 12 giugno 1923, Franz Kafka scriveva: “Immer ängstlicher im Niederschreiben.” “Sempre più angosciato nella stesura di queste note.” Ma subito dopo aggiungeva: “Mehr als Trost ist: Auch Du hast Waffen.” “Più della consolazione è: anche tu hai delle armi”. Sono le ultime parole scritte nel suo taccuino. Abbiamo l’angoscia e abbiamo le armi. Di questa condizione il libro di Lorenzo Chiuchiù è testimone e apostolo.
Tu entrerai nell’arteria stellata
con la storia, i chiodi piegati e
le stelle filanti che ardono ancora:
sei entrato nell’arteria
e sei sempre qui, per le nostre antiche
vite illuminate e per il ferro
battezzato che fonde la neve, come
se la neve e il nero mentale
fossero la terra
per la quale hai scommesso.
Come se la vita fosse intera
illuminata, ferita e per te.
(Le parti del grido, p.10)
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Lorenzo Chiuchiù, Le parti del grido- EFFIGIE edizioni 2018
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Altri riferimenti in cartesensibili: https://cartesensibili.wordpress.com/2019/10/28/istantanee-anna-maria-farabbi-le-parti-del-grido-di-lorenzo-chiuchiu/