mario monicelli- padri e figli
.
Il tema è quello dell’incomunicabilità fra un padre e un figlio, del loro amore impossibile, della loro distanza incolmabile. Vari potrebbero essere i riferimenti, per approssimazione, a esperienze poetiche analoghe, dal padre prematuramente scomparso, percepito come assenza traumatica, di Pascoli, a quello di Sbarbaro in “Pianissimo”, dichiarazione di attaccamento incontaminato, alla figura paterna che diventa città di odori e ombre di Giorgio Caproni, al “Padre mio” di Alda Merini, che diventa ansia metafisica e confine celeste, e così via. Eppure se dovessi riscoprire un’esperienza di formazione con cui “Notizie da Patmos” possa confrontarsi, io penserei immediatamente alla “Brief an den Vater”(1919) di Franz Kafka “Und wenn ich hier versuche, Dir schriftlich zu antworten, so wird es doch nur sehr unvollständig sein, weil auch im Schreiben die Furcht und ihre Folgen mich Dir gegenüber behindern und weil die Größe des Stoffs über mein Gedächtnis und meinen Verstand weit hinausgeht.”.
“E se anche provo a risponderti scrivendoti, il mio tentativo sarà per forza incompleto, sia perché anche nello scrivere mi sono d’ostacolo la paura che ho di te e le sue conseguenze, sia perché la vastità della materia trascende la mia memoria e il mio intelletto.” (trad.mia).
Kafka dichiara come figlio l’impossibilità di riportare l’esperienza del vissuto, perché la confidenza si slabbra nel timore e perché l’assiduità diventa atemporale, l’episodico si tramuta nell’innumerabile: la memoria e l’intelletto cedono di fronte all’impresa della ricostruzione del rapporto. Ci si trova invischiati nei territori dell’indicibile. Il ‘topos’ identificabile è quello del viaggio mistico, in cui conta l’esperienza, ma conta soprattutto fare i conti con le parole che possono o non possono riferirla. E questo riguarda il rapporto familiare più stretto che possa esistere. Non occorre dunque stupirsi se “Notizie da Patmos” è introdotto dai versi del X canto dell’Inferno, il discorso profetico di Farinata a Dante sul suo futuro esilio in terra. La prefigurazione del distacco non può però che proiettarsi, per un credente come Dante, nella dimensione dell’eternità: la separazione insostenibile sarebbe per Dante proprio quella dal Padre Divino. Fabrizio Bregoli non ci pone dunque come orizzonte la camera da letto, le stanze in cui risuonavano i passi paterni, le passeggiate nei parchi e nelle vie, ma Patmos, l’isola dell’ascensione a Dio e della terribile rivelazione. Il punto di partenza è un territorio sacro, da cui ci si alza nel tentativo di una ricongiunzione. Rocce, sterpi, cielo numinoso: non aria domestica. La possibilità dell’annullamento delle distanze fallisce perché il padre, se tu lo ritrovassi, ti terrebbe lontano anche abbracciandoti e se ti parlasse non riusciresti a capire e a riportare le sue parole. Incommensurabilità e ineffabilità: dall’Inferno si è già arrivati nell’ultimo regno, il Paradiso, con la categorizzazione di quanto di più sublime e atroce possa però riservare quel luogo: è l’avvicinamento ma senza poter arrivare al ricongiungimento, è l’intendere per poi trovarsi sgomenti a corto di parole. Se la mistica non può dunque che definire per approssimazione, Bregoli prova ad affidare il suo tentativo sperimentale di afferrare l’impossibile alle scienze esatte. La prima sezione, che dà il titolo all’opera, è aperta da una riflessione personale sull’algebra, rappresentata come “Uno spazio dominabile. Finalmente nostro. Una paternità restituita”, e subito dopo nominata “Arte della riparazione./(Come la poesia)” (p11). Fabrizio Bregoli affida l’opera della ricongiunzione all’algebra e alle sue correzioni e il fatto che il ricucire umano venga affidato non a un afflato sentimentale, ma a una scienza esatta, da una parte si riflette sulla ricerca di una precisione formale nella cura del lessico e nell’incatenarsi dei versi: si sceglie ad esempio l’endecasillabo, che è il verso amoroso per antonomasia della nostra letteratura, ma piegato a uno scandirsi metallico, a una fredda forgiatura. L’affidamento all’algebra indica paradossalmente una prospettiva utopica che mi commuove: per ritrovare il padre e il suo affetto, ci vuole qualcosa di perfetto, in modo che l’equazione una volta risolta non sfugga più dagli occhi e dalle mani e che l’amore non si pieghi alla mutevolezza, ma rimanga per sempre risolto. Un noi minimo, ma non più divisibile, un binomio inscindibile.
Che il bene perduto, il termine su cui si esercita questa ricerca algebrica di congiunzione sia la figura del padre, non può che portare al delineamento di una mancanza e di una successiva incomunicabilità ontologica. È come se l’atto della generazione e della fondazione dividesse ‘ipso facto’ piuttosto che unire. Le due identità si stagliano l’una di fronte all’altra come due caseggiati, ricchi di vita, di interessi, di passioni e collezioni al proprio interno, ma che, trattenuti dalle proprie fondamenta di cemento, mai potranno attraversare la sottile linea d’aria che li divide. Si occhieggia, da una parte all’altra, si intuisce, si deduce. L’atto della generazione diventa atto univoco di creazione e il padre naturale di ciascuno assume le caratteristiche del Padre biblico dell’antico Testamento. Inavvicinabile, pure se si è sicuri della sua presenza.
Se l’intenzione iniziale si pone nel solco di una prospettiva scientifica tradizionale e rassicurante, gli esiti successivi non possono che spostarsi verso i confini della relatività: la poesia di Bregoli diventa quantistica e l’oggetto dell’osservazione sfugge sempre alla cattura definitiva, perché si sposta insieme al punto di vista dell’osservatore. Basta uno scarto minimo. Da punto a onda. Un poeta non può fissare alla pagina l’argomento della poesia nella sua definizione esaustiva, perché mentre scrive cambia prospettiva ed evolve il proprio sentire. Si fanno tentativi per approssimazione, accettando certi accosti formali come se fossero gli esperimenti del piccolo chimico: si cerca disperatamente di trovare una rima con ‘padre’ e poi con il nome del genitore. È una poesia che si consegna immancabilmente al fallimento, è rapporto con l’inconoscibile dell’altro, mai esauribile, madornale nel caso che l’altro sia proprio chi ci ha concepito e generato. È la ricerca di un ‘noi’, non perduto, ma probabilmente mai esistito.
Scrivo di noi, di un verbo contraffatto,
del suo frutto disseccato
sul pegno delle labbra. Scrivo di noi
grammatica di un vento lapidato.
(Vocabolario minimo, vv.9-12, p.19)
mario monicelli- padri e figli
.
Le distanze fra scienza e slancio di fede si accorciano e si allungano, in un mirabile progetto di composizione che ha ancora come punto di partenza la struttura tomistica della Divina Commedia, seppure disgregata tra le parentesi della “digressione quantistica”. Ma in questo swing estremo fra i campi, le discipline, gli stili, in questo febbrile ricucire senza che il filo abbia potuto trovare la cruna dell’ago, si può, dopo la scienza, ritornare alla preghiera: “Tutto comincia così, con una preghiera. Nel nome del padre, solo nel suo nome. Quel verbo ossuto, la sua parola murata. Latino mansueto dello schianto.” (Nel nome del padre, p.18). E la preghiera iniziata nel nome del padre potrebbe terminare con i versi di Andrea Zanzotto scritti per la morte del genitore: “E così sia: ma io/ credo con altrettanta/forza in tutto il mio nulla, /perciò non ti ho perduto/o più ti perdo e più ti perdi, /più mi sei simile/più m’avvicini.” (Così siamo, vv.17-22, da IX Ecloghe, 1962). Anche la tensione lirica di Zanzotto rivela un suo linguaggio, mistico o quantistico, che lo accomuna, da padre poetico, a Bregoli, di fronte alla impossibile cattura dell’essenza del padre naturale: “non sei né soggetto né oggetto/né lingua usuale né gergo/né quiete né movimento/neppure il né che negava” (ibid., vv.10-13). E tale radicalità riecheggia nei versi di Bregoli: “Di noi rimane/ Ciò che non è stato.” (Quarto comandamento, vv.14-15, p.24). “(…) Così di simile/ in simile l’uno nell’altro scissi/ a compierci in un tutto disgregato.” (Omeomerie, vv.4-6. p. 29). “Onora il nulla/il solo che ci è dato.” (Quarto comandamento (ripresa), vv.5-6, p.32)
La preghiera misura i passi che segnano la distanza incolmabile tra il figlio e il padre, il bisogno che un amore finalmente divampante, possa bruciarla. Pier Paolo Pasolini riscrive la prima preghiera di ogni cristiano, che ridiscende ad un piano domestico, infantile con quel suo padre, ufficiale dell’esercito, lontano, diverso, grandissimo:
Ti confido il mio dolore;
e sto qui ad aspettare la tua risposta
come un miserabile e buon gatto aspetta
gli avanzi, sotto il tavolo: Ti guardo, Ti guardo fisso,
come un bambino imbambolato e senza dignità.
(Padre nostro, vv.44-48, da “Affabulazione”, 1969)
Teologia e famiglia si confondono. Dio è sempre assente, come il padre. In questo senso l’impossibilità di ipostatizzare, si rivela come caccia a un oggetto che sempre si sottrae e che alla fine da preda diventa paradossalmente tiratore, come nel Caproni de “Il Franco Cacciatore”(1982) o de “Il conte di Kevenhüller”(1986). E Bregoli si appella proprio a questo padre cacciatore, che si fabbrica addirittura da sé i proiettili assassini: “tu amavi fabbricarti le cartucce/ con antica perizia di speziale” (“Comuni divergenze”, vv.4-5,p.63). Di Caproni è la cosiddetta ‘res amissa’, la cosa perduta. Non si può provare sgomento più grande quando la cosa è quotidianamente accanto a te, ma inattingibile, oscura, lontana nell’incomunicabilità dei pensieri, quando la somiglianza della carne potrebbe invece parlare di comunione e forse di abbracci. Con i padri, alla fine, la si dà per persa, anche se resta inconfessabile una residua speranza.
Bruciamo la nostra distanza.
Bruciamola, mio nome.
Cessiamo di viverla come
Il sasso la sua ignoranza.
(G. Caproni, Due madrigaletti, 1986)
Forse l’unico modo di entrare veramente a contatto col padre prevede l’indebolimento di uno dei due soggetti. È il corpo di Anchise che si avvinghia a Enea per essere salvato da Troia in fiamme. “Ergo age, care pater, cervici imponere nostrae:/ Ipse subibo umeris nec me labor iste gravabit” libro II 707-708. “Presto padre mio dunque, sali sulle mie spalle, io voglio portarti né questa sarà fatica per me”. (trad. di Rosa Calzecchi Onesti). È solo nell’emergenza che ci si ritrova e ci si riconosce. E Bregoli scrive: “Fu dunque nella fuga il nostro accoglierci?” (Fughe, v.1, p.61).
.
silvano alloggio – padri e figli
.
Rimanendo nel campo dell’epica ogni padre è perduto dopo averci generato e la sua assenza simbolica, diventa a un certo punto reale e ci riempie l’anima di dolore e nostalgia: Telemaco va alla ricerca tra gli scampati di Troia di notizie di Odisseo che non ha mai conosciuto. E per ogni figlio è questa la strada compiere, anche se il padre abita nella tua stessa casa: egli è il fantasma, l’Ulisse lontano e indifferente. Ma l’impossibilità di accedere all’essenza del padre può infine diventare la vocazione stessa dello scrittore a cui si sottrae la pagina e ogni tentativo si scontra con l’imboscamento della parola, con il suo scivolamento inafferrabile. Io sono stato poeta per l’assenza del padre, perché non ho dovuto obbedire alle parole del Padre che pretendevano il sacrificio, perché ho cercato il suo mistero nel mistero della poesia o perché ho sostituito la vittima neppure con l’agnello, ma esplodendo in maniera premeditata un colpo a salve:
Io invece preferisco la poesia,
la scienza bellicosa del disarmo.
Quel suo sparare a salve
per non fallire un colpo.
(Comuni divergenze, vv.14-17, p.63)
Oppure la maledizione è stata gettata e non c’è possibilità di remissione, di cambiamento di rotta. Il padre e la poesia non comunicano con il figlio. La poesia e il padre sono la stessa cosa.
In fondo non è proprio quest’ottuso
dialogo col silenzio, la poesia?
(Somiglianze, vv.10-11 p. 62)
Rimane la poesia, spietata e imbelle
tutt’intero il suo soldo bucato,
l’ovvio scrivere ciò che non sai dire
– assioma sghembo d’un figlio scontato.
Onora il nulla
il solo che ci è dato.
(Quarto comandamento, ripresa, vv.1-6)
Per tirare infine le somme, quello che più mi appassiona in questo procedere è l’attentissima riflessione sulla possibilità attuale del linguaggio poetico e come questo trovi la sua sostanza e il suo spessore nella materia che sta trattando: ne sia, per utilizzare un termine dantesco, cattolico, teologico, consustanziale. Inscindibile è infatti la connessione tra l’esperienza esistenziale e la riflessione linguistica, l’incompletezza originaria e l’assurdo dell’essere umani, insieme al tentativo tremendo di tenerne insieme le parole, di arrampicarsi sulle rocce vertiginose di Patmos e sulle pagine taglienti del libro, senza cadere nell’abisso del silenzio annichilente.
Perché c’è sempre un verso
sghembo che non tiene, la rima
che fa acqua a dire tutta
intera la ferita, noi nell’opera
di un mondo già combusto
ciò che resta. L’ingiusto della vita.
(Rimari, vv.11-16, p.39)
La poesia è il padre, il padre è la poesia Si cercano i modi propri per esprimere questa identità e non sono versi compiuti e gloriosi, ma lallazione, dislessia, inanità, confessione dell’inesprimibile. Si arriva sino al paradosso e non è un colpo di scena, ma quello che si percepiva sin dall’inizio: si scrive di ciò che non si può scrivere, si raccolgono cenci, materiali di compostaggio, frammenti, cimeli e si prova a lasciare comunque una testimonianza di partecipazione:
Di questo scrivo
Di ciò che non si compie. Del coraggio
Che non si fece verso, vi si perse
Per difetto di vita, debito di cielo.
(Offertorio delle ceneri, vv.9-12, p.66)
Come afferma in maniera assolutamente convincente Piero Marelli nell’introduzione, la sfida all’esaurimento storico del linguaggio e dei temi della poesia è qui raccolta evidenziando innanzitutto la precarietà originaria dell’operazione, ma testimoniando su queste basi di riconoscenza alla debolezza, una testarda assunzione di responsabilità nei confronti della realtà contemporanea. Il lenzuolo steso della retorica diventa qui il foglietto con le parole dell’unica notizia che da sempre ci aspettiamo. Nella centrifuga delle parole tutto si asciuga e si concentra: rimane una mano che scrive e un volto che occorre riconoscere, familiare e per sempre sfuggente. Solo questo vale e solo questo basta. Poesia, padre lontano.
Paolo Gera
.
.
Fabrizio Bregoli, Notizie da Patmos- La Vita Felice Edizioni 2019
Ringrazio di cuore Carte Sensibili per avere ospitato questo intervento e Paolo Gera per questa analisi puntuale, attenta e sensibile sul mio ultimo libro. Sa quanto lo stimo e quanto lo reputo competente, obiettivo, capace veramente di leggere tra le righe e offrire sempre una lettura personalissima. Gli sono grato e riconoscente.
L’ha ripubblicato su La poesia di Fabrizio Bregolie ha commentato:
Paolo Gera, oltre ad essere un eccellente poeta e un attento spirito critico, segue da sempre la mia produzione poetica e ne è sicuramente un attento conoscitore, capace di capirne gli sviluppi, le esigenze contenutistiche e stilistiche, le ragioni più profonde. Gli sono davvero grato, per questa sua attenzione preziosa unita a grande sensibilità e competenza. Condivido con voi questa nota di lettura sul mio ultimo libro “Notizie da Patmos” (La Vita Felice, 2019), sperando che la lettura vi sia gradita.
Per quanto la riflessione di Paolo Gera abbia come sempre grande profondità e dica davvero molto, mi permetto di aggiungere le mie riflessioni. Riflessioni piuttosto anarchiche, soprattutto perché scavalcano l’ordine puntualissimo, la scansione, la decifrazione che il poeta ha dato ai suoi testi; non per sovversione, ma perché, da un po’, la poesia che leggo, lascio che mi agisca – corpo emozionale e cervello – nell’immediatezza di come mi muove. Che non credo, però, si tratti del lasciarsi prendere da un ondivago ‘sentire’ da attimo fuggente, in quanto pancia e cerebro miei sono immuscolati anche in concezioni e pensieri critici – non solo estetici – ben sedimentati, in echi di scrittura – non solo letterari -, nonché in acquisizioni esperienziali che attengono oltre che ad intimità soggettive, anche a mondo “neutro”, come direbbe Lispector, di materica condivisione. Sono reduce da una percorrenza attraverso i testi di “Maternale” di Rossana Roberti, che spero di proporre nel prossimo numero di Carte. E leggere “Notizie da Patmos” è stato tutto un intrecciarsi a quei testi. Non tanto per l’affinita di quel – no, non posso chiamarlo ‘dolore’ perché, nonostante i versi ne trasudino a sangue, la poesia di entrambe si è posta in mezzo, tra malvissuto osservato soffertamente e “voce bene dicente” (Rossana) del dopo (“Dopo, (dopo, quando?)” Fabrizio), come strumento di memoria conoscente del proprio rapporto con la madre -lei -, col padre -lui-, senza ripiegamenti immediatamente emozionali, con tutti i propri schermi attivi: veri e propri nuovi media simbolici per ri-leggere se stessi e il mondo, conseguiti tanto con tenacia e fatica, quanto con interesse profondo, amorevole per molti aspetti. Per l’una, Rossana, una dignità di donna conquistata attraverso la ricerca del pensiero di genere, e specificamente una ri-vicinanza voluta e/o accettata con la madre malata dentro l’esperienza della ‘cura’, vissuta “come si addice alle cose sacre”; per l’altro, Fabrizio, le “scienze esatte”, specialmente l’algebra, per andare dietro a quel suo “ampliare l’orizzonte”, a quella sua “funzione correttiva”, che integra “una mancanza fra mondi isolati, divisi” e costruisce “universi misurabili”, uno “spazio dominabile”, “arte della riparazione” per una “paternità restituita”. Così Bregoli passa in rassegna tanti brandelli del rapporto col padre usando il setaccio – allo stesso tempo distanziante e chirurgicamente smembrante – della lontananza nel mito-favola (“Sette paia di scarpe ho consumato/ di tutto ferro per te ritrovare”), del distacco nel timore riverente verso il Sacro (“Il nostro Sinai minimo, la sua/ luce lesa. Decalogo di noi/ mai usciti dal deserto”), della riduzione al “minimo” del “noi”: quelle metonimiche “mani” sacrileghe perché “troppo piccole per accoglierci”, che ricompaiono quasi isolate in una mandorla sacra tra le foglie delle verdure nell’orto e sono “noi”, sono “mani che separano, creano/ il vuoto per la congiunzione” nel tracciare i solchi dell’orto, essendo “la divisione il solo nostro spazio”; mani che tornano alla fine come “neve” nel “suo (del padre n.d.r.) bianco fragilissimo”, e che io vedo come ultimo sguardo al padre, sguardo amoroso del desiderio mai esausto dell’amore, non dell’amore. Dal canto suo Roberti, che mai altro che distacco ha ottenuto dalla madre “conclusa fredda stella”, dice: “ho lavato/ la tua morte/ (…) / possiamo finalmente parlarne/ senza pena né orrore”. E’ un setaccio che permette, appunto, alla “parola scorticata” di arrivare a ‘sillabare’ “il perdono”. Che non è un lietofine, nè buonisticamente banalizzabile né definitivo, in quanto ogni volta deve ripassare per la violenza del “gelo” (“Dico un ghiaccio raggrumato, compatto”, “perché c’è sempre una metà che manca”) per poi farsi sciogliere dalla “fiamma” della poesia, che è “pietà del fuoco”. C’è infatti un ‘noncompiuto’ (“Ciò/ che non si compie”) – e “di questo scrivo/ di ciò che non si compie” – che addita sempre un’assenza, una sottrazione (“c’è sempre una metà che manca,/ l’amore che rimane impronunciato”), anche se si ribadisce che “non mi manchi”. E ‘non manca’, infatti, lui-padre biografico, perché ad un certo punto di questa “poesia, spietata e imbelle”, lui-assenza, lui-vuoto, si è dilatato a condizione esistenziale oggettiva: “Onora il nulla/ il solo che ci è dato.”, un nulla che è “esilio irredimibile/ dei corpi”, corpi-monadi che, “l’uno nell’altro scissi”, restano “unità imperfette/ materia discorde”, lasciandosi alle spalle un Dio diventato “sale”. A volte la scienza illude nello “scoprirci irradiazione/ di un fulcro stabile, luce compatta/ cifra di una costante universale”, illude che sia “emendabile la frattura/ l’indeterminazione sanata”, ma se pur “distanti la misura di un respiro/ scissi nel solco di uno stesso cielo,/ siamo l’impermanenza necessaria/ l’obbligo alla coabitazione fra collasso e vuoto,/ satelliti in reciproca esclusione”. Quanta distanza da una Lispector che nel ‘neutro’ materico trovava la condivisione con le cose in una “gioia da sabba”! Eppure la poesia, questo “sparare a salve”, “quest’ottuso/ dialogo col silenzio”, è capace di affiorare talvolta anche dai rifiuti del compostaggio, di “conferire campo e gravità/ alla parola, attrarla al suo silenzio./ Fulcro minimo di un comune inizio/ per rendere l’assurdo praticabile.” Non si dice nel Tao che l’utilità della ciotola è nel suo vuoto? Oltre Euclide, si può “crederle capaci/ almeno di tangersi, vite – / come le nostre – parallele”, per “sopravvivere/ a noi noi malgrado”, soprattutto “perché/ è sempre di un domani che si scrive”. Roberti arriva a dire come attraverso la poesia “io che non ti piacqui/ oggi in me ti rinasco/ (…) / la tua vita inconsapevole/ porto a compimento”.
Molto interessante il confronto tra la poesia di Rossana Roberti e Fabrizio Bregoli, in un’alternanza acuta tra le figure del padre e della madre, tra punto di vista affettivo-critico femminile e maschile. Ristretto per tutto questo lo spazio del commento, più appropriato, per un analisi così stimolante, sarebbe stato lo spazio di un articolo.
Ringrazio di cuore Milena Nicolini che si dimostra, come la conosciamo bene, attenta lettrice e sensibile critica, capace di istituire raffronti, creare relazioni, illuminare su quel sostrato della scrittura di cui l’autore riesce a diventare più consapevole grazie soprattutto a chi come lei lo indaga, lo rende evidente. Le sono riconoscente, sapendola onesta intellettualmente, puntuale e obiettiva nelle sue opinioni e analisi.
Aggiungo che il suo commento è a tutti gli effetti una compiuta nota di lettura che mi sento onorato di avere ricevuto in dono. Grato, immensamente.