cy twombly
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L’amore è sempre eccessivo, quando alla sua scaturigine si rivela ai sensi del corpo e ai sensi della mente, tutto mescolando, confondendo, accendendo, manifestando in modo sempre originale e originario. In ‘Tempodamore’ (da Meraviglie di viaggio), infatti, l’amore si manifesta con stupefazione, prodigio, “aria che si tende/ e si inarca” (p.10), “tempo che si inerpica e in sé cresce” (p.11), temporale, folgori, esplosione:
E l’improvviso amore ci scoppiò
come bacca matura
e ci lasciò sorpresi
che tanto potessimo
(Tempodamore, p.13)
E con giorni “posseduti interamente” (Tempodamore, p.19), perché “più rotondo/ il giorno da vivere” (T., p.11), tutto incentrato su quel “punto”(T., p.12) che fa di “tutte le ore” solo il “prima” e il “dopo” di lui; perché “Nell’amore cresce/ il giro della vita” (T.,p 22). Con l’amore il mondo è adamiticamente riscoperto:
E un mattino
sorpresa
che gli alberi avessero tronco e rami e foglie
allo stesso modo
che NOI avevamo desiderato
(T.,p.18)
Un mondo in cui alle “canne” del fiume si sono legate per sempre le “nostre risa d’acqua” (T., p.22), facendosi la “voce/ caldo fiume di sillabe/ in maree di risate” (T.,p.25). E loro due amanti divenuti come dice la sacralizzazione cristiana dell’unione ‘una sola carne’: “senza intervallo/ il tuo corpo e il mio corpo senza intervallo” (T.,p.14), “Il tuo corpo/ uguale al giro delle mie braccia” (T.,p.15). Quando le “tue mani nell’aria a segnare/ sospesi itinerari/ così faremo così avremo” (T.,p.23), perché “il credere/ si può nell’ora che la luce riempie”. Quando lei si lascia trasformare: “Questo viso mi nacque/ sotto la carezza della tua mano” (T., p.17), “Giocoliere (…)/ ballai/ sulle lucide punte dei sensi” (T.,p.16); e ancora non si rivolta contro la “potenza” di lui, che la fa “stupita di tanto possesso”, ma capace di accettarne il “dono”, che è quieta, accondiscendente parola ripetuta. Poi di colpo l’assurdo – perché è sempre assurdo che un assoluto si sciolga, si scinda:
Ed è fatica
caro
rincorrere e fermare i significati
mentre dentro mi esplode
si frantuma
in cento possibili tutto il possibile dell’amore
che non volemmo più
ma che feroce audacia la nostra
che crudele sicurezza
(T.,p.21)
Noi
come i due mezzi gusci di una noce
divisi a forza da una lama di coltello
(…) (T., p.28)
Semplicemente, l’unica cosa che si può dire è che non c’era più la luce a riempire l’ora, che si era “oltre”, dove quelle sue mani-colomba che disegnavano il futuro, adesso “male si muovono senza disegno d’amore/ si posano/ come uccelli stanchi” (T.,p.23). Ancora tenerissimo, in questa silloge, il ricordo: “Mi trema ancora agli occhi/ la meraviglia della tua mano/ (…)/ con vene pulsanti di grida e nodi/ e cinque straordinarie dita/ che erano/ le tue dita” (T.,p.26).
E invece feroce, potentemente lacerante, fatale, quest’amore che imperversa nei versi di ‘Quello che so dell’amore’, amore che è diventato come la “bufera infernal, che mai non resta” nel cerchio di quegli amanti che “nulla speranza li conforta mai,/ non che di posa, ma di minor pena”.[1]Non si tratta quasi più di una vicenda biografica, anche se quel ‘tu’ è fatto sentire esistente – e poi esistito –: concretamente lui in un preciso lasso di tempo-vita e cronicamente nel sangue e nel pensiero di lei come durata-ferita ineliminabile. Ma sarebbe deviante anche prendere l’indicazione della poeta – nel titolo: ‘Quello che so dell’amore’ – come si trattasse solo di una ‘riflessione’ generale. L’amore da Rossana è parlato con la durissima tenuta di un pensiero lucido e affilato come una lama, mentre percorre –dentro sé e insieme a sé – emozioni fisiche e di sentimento sconvolgenti, irrazionali, indeterminabili. Che si sono originate per una ben determinata persona, ma poi da lui come rimbalzate nell’altissimo del desiderio, del bisogno di lei. E’ un amore assoluto dentro l’accadere. Niente di più lacerante.
Fin dalla prima poesia posta a mo’ di exergo si dichiara l’assurdo temporale di questo amore che come un uroboro inanella in un continuum l’inizio e la fine (“Così fu sempre principio/ nonostante ogni fine” (p.11)), che non solo si congiungono linearmente, ma si sovrappongono, identificandosi, ritornando e ritornando all’infinito. Anche l’oggetto si fa autoriflessivo, è “l’amore dell’amore”, in tensione verso una totalità che si dà e si nega per una intima divaricazione che distrugge: nonostante, infatti, sia privilegio e “ferita inferta a pochi prescelti” questo insieme antitetico di “fuoco” e “nostalgia”; nonostante renda incandescente pure la paziente attesa, reiterata “ogni giorno”, dell’amore; nonostante l’amore ci sia comunque anche nel vuoto, perché è il vuoto del desiderare, quello che chiama, esige riempimento, quello che lo evoca, l’amore, così che ci sia, e talmente potente da sconvolgere di stupore; però, l’amore, quello che “avviene” nel mondo contingente, quello continua a essere in mancanza. E’, per Rossana, una qualità quasi essenziale dell’amore. Come se l’amore non fosse sopportabile in presenza e potesse essere vissuto pienamente solo in assenza. Non soltanto, infatti, gli amori sfortunati fanno male, ma anche “l’amore più felice” (p.40): “Luce che ferisce gli occhi/ chiodo infisso nella lingua/ incessante rollio di mare del cuore/lago ribollente e infido nel ventre”. L’amore è fatalmente ossimorico: “la passione ricama solo/ se duole” (p.29), perché è “dolcissima pena per ardore”, anche “se sveglia le sette anime nostre/ con cui facciamo meraviglie”. Sembra di sentire in parole d’oggi quei versi di Cavalcanti: “Voi che per li occhi mi passaste ‘l core/ (… ) / guardate a l’angosciosa vita mia,/ che sospirando la distrugge Amore./ (…) / Questa vertù d’amor che m’ha disfatto/ (…) / Sì giunse ritto ‘l colpo al primo tratto,/ che l’anima tremando si riscosse/ veggendo morto ‘l cor nel lato manco.”.[2] La stessa potenza aggressiva dell’amore, senza esito salvifico, soltanto l’esperienza di qualcosa di incommensurabile da parte di chi sarebbe fatto per sopportare solo la misura.
La silloge comincia – un vero cominciamento –, non a caso, con una maledizione “Mal per lui” (p.13), di quelle da favola che innescano tutta la vicenda successiva: se lui sta “arroccato sullo sguardo altero”, lei espugnerà “la cittadella degli occhi”, vincerà “le mura/ del suo riserbo”. Già si intravedono i due comprimari: l’orgoglio arrogante di lei, strega velleitaria destinata a soccombere alla fine, e la inconsapevolezza innocente, inerme di lui, che quasi senza accorgersene diventerà il suo carnefice. Anche il tempo subisce un’alterazione, sempre nel segno di una fatalità ineludibile: oggi, di colpo, “il tuo volto” appare “già compiuto”(p.14) al suo destino amoroso, e allora tutto l’“ieri” che è stato vissuto “non sapendoti”, non ha senso, diventa impossibile, quindi non-stato. Così, pure, uno dei pochi eventi felici dell’amore richiamati, con appena una sottolineatura di realismo, appena un “così” sospeso nel bianco del personalissimo silenzio della poeta: una “notte d’amore” così “perfetta” da sfuggire alla trama stessa del proprio “Accadere”:
Una notte così
nessun incontro casuale può aprirla
nessun addio disinvolto
concluderla
una notte così
non sopporta inizio o fine
se il tempo comunque vi cresce
si innalza
verticale
questa notte
che esce dall’Accadere e fiorisce per sempre
nell’Essere
(p.28)
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cy twombly
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Come una remàgia lei segue la stella “che attrae” (p.15), rispettando la “debita distanza” in “orbita paziente”, ma intanto, con una consapevolezza da agguato, è attenta a cogliere le già “luci filanti” di quei “piccoli segnali” che precorrono la compiutezza che verrà dell’amore. Lui “è montagna senza saperlo” (p.16), dentro una fatagione che lo trasforma da un qualunque “ragazzo che giocava al pallone” in un “tu” assolutamente unico “gonfio miracolo” a lei nell’universo; “temporale”, “tempesta” (p.18) in “fragore di sguardi”, “magica aria lievitante” (p.19) che fa ruotare il mondo intero intorno a lui; lui che così, nel “modo più arcano” si trova ad “essere re”. Tanto potente quanto inconsapevole: lui non sa – ribadito ancora una volta –, “ignora” la propria signoria su di lei di “implacabile padrone” (p.21); lui non sa l’amore: non solo quelle emozioni violente che attraversano e fanno nuovo il corpo, soprattutto non sa il suo accadere, che perde, fa erranti “nella sua perfezione”(p.44), nella sua assolutezza senza che “mai tocchiamo/ il perimetro del suo cerchio”. Lui ignora altrettanto la potenza di lei, che nell’impellenza di un desiderio ineludibile, lo convoca alla propria presenza, come una regina appunto, una maga, nell’apparenza di ‘chiedere’ “un appuntamento” (p.20). Lei sa, invece. Perché ha uno sguardo terribile, dell’ironia al limite del sarcasmo che le presta la poeta, vera mela avvelenata che ‘gli’ porge. Vero è che questo ‘lui’ potrebbe essere un altro, incontrato dopo la fine dell’amore con il ‘lui-re’, ma proprio la degradazione a ranocchio (peraltro termine di paragone maggiorato rispetto a ‘lui’), con tanto di possibile rimando fiabesco, può fare ipotizzare semplicemente un momento spiacevole di quelli che precedono – prevedono – la fine:
Si gonfia si tende
il notturno amante ranocchio
s’allarga
in membranoso ardore
gracchia ostinato l’amorosa pretesa
-coinvolge i meli
la luna del prato-
e tu
regali appena
mezza passione da sponde di letto
(p.31)
Lei sa, invece, la potenza di lui su di lei. E quello che, dopo la fine dell’amore, lei stessa definirà “orgoglio”, le fa sentire un bisogno estremo di libertà da lui che vibra antiteticamente nel suo amore per lui: lei, “invischiata/ mosca prigioniera” (p.39) (di nuovo avverto che la poesia potrebbe essere rivolta ad un diverso ‘lui’, ma la sostanza del discorso non cambia molto), che preferisce rischiare “naufragi”(p.45) e “salvezze estreme:/ la solitudine preziosa/ sull’isola del cunto delli cunti”, quindi un relegarsi nel mito di lui e dell’amore, piuttosto che “vivere/ al sole teneramente feroce e assiduo/ del tuo sguardo”; dove, vorrei dire, più che la pretesa di perfezione di lui, pesa, di lei, la paura di mostrarsi in qualche mancanza. Infatti lei, se non è “bella abbastanza” (p.56), se ha i capelli “senza ricci”, se ha un’età “pesante da portare”, se non è, quindi, assolutamente perfetta, lei decide: “ non verrò”. Lei sa, eppure, che la propria esigenza d’assolutezza travalica addirittura la potenza del possesso di lui. Come lei non perdona mancanze a se stessa, così esige da lui:
Se ho da dirti quel che mi preme
-e a nessun altro potrei-
non morirmi volgendo gli occhi alla finestra:
ospite celeste è chi porta discorso d’amore
perché di noi rimane
per quanto fummo amati
(p.32)
Che è già un ‘de profundis’ per questo rapporto. E qualcosa che le premeva davvero tanto, infatti, glielo aveva detto. E gli aveva rivelato una sua verità profondissima, misteriosa: “io t’amo soltanto d’amore per altri/ per nostalgia di un re che è assente/ ti do il governo di terre/ che furono in suo potere” (p.21). Può sembrare, e forse è che, con un salto che esclude tutto il tempo dell’incontro primo, quasi certamente felice, (quello tagliato via da prima di questa silloge e apparso per conto proprio – di nuovo un assoluto avulso dalla vicenda contingente – come ‘Tempodamore’ in ‘Meraviglie del viaggio’); forse è che anche qui la poeta fosse già, dopo la fine di quell’amore assoluto, di fronte ad un diverso amante, a cui, però, si sovrapponeva inevitabilmente, più che il ricordo, l’urgenza di una tensione, di un bisogno a quell’altro amore evocato dal passato remoto. Fosse anche, però io preferisco leggere in quell’“amore per altri”, la consapevolezza, orgogliosamente confessata, della poeta circa le scaturigini di quell’amore primo così capace di possederla: si tratta forse di tutti gli “altri” che le sono mancati d’amore nella vita: forse l’affetto negato di una madre, come è dichiarato nel bellissimo “Maternale”; forse la scomparsa prematura dell’amatissimo padre; forse tutti quei tanti altri vuoti accumulati che rimandano ad un “re assente”, ad una mancanza, cioè, di cui lei è comunque terra posseduta irrevocabilmente. Il bisogno d’amore, soprattutto se non corrisposto, genera più dipendenza di un amore reciproco. Dice infatti in “Maternale” Rossana:
(…)
ma la luce come strazia
chi dalla luce non fu voluto
resiste
desiderio infitto
inconsumabile
E ancora:
(…)
ci salverà
il mio indeclinabile desiderio:
esso pone piede al limite
fa confine al distacco
anche il tuo ostinato silenzio
trasforma in parola
e fa di me
l’eco testarda che redime entrambe
all’essere.[3]
Si conferma l’anello uroborico di cui s’è detto all’inizio. Lui, infatti, in questo incolmabile buco nero di lei, si colloca evocato comunque nella sua nonpresenza (“se tu non vieni” (p.22)), nella sua lontananza (“che lui sia Itaca e io/ una nave che non avanza” (p.24)), nel suo aprire e irrevocabilmente chiudere “le ere del giardino” (p.23)). E lei è, come nella fiaba, maga maledetta all’infelicità: se qualche volta si illude in “un vapore d’oro” (p.25), deve invece accettare un amore che ossimoricamente ancora “vivrà benissimo del nostro/ mancarci/ desiderandoci” (p.24). E’ un destino, l’anànke greca, una “fatale preesistenza// di te-me” (p.26), oppure “un banalissimo caso/ di strade tempi incontri”, l’antica tyke, che poi sono la stessa cosa, perché l’amore ha troppo “delicate spiagge” (p.27) da cui tenta, inutilmente, con stratagemmi da teatro (“si orna di penne guerriere/ si tinge la faccia con colori/ ardenti e feroci”) di tenere lontana la propria “morte”. Diversamente che da ‘Tempodamore’, qui ci viene porta, anche se solo per cenni, la ragione della separazione:
Seduti a spiaggia
quando l’orizzonte si alza
e il mare chiaro si inciela
ci sorprende la pena d’essere così diseguali
-le parole che ci diciamo fuggono
senza toccarsi
restiamo
in arrogante solitudine
mentre mare e cielo
amorosi
si fanno
un solo celeste lago verticale
(p.30)
E’ come se le individualità non riuscissero ad uscire dal loro isolamento: dolorosissima constatazione in antitesi con la bella immagine del congiungimento d’amore della natura che li circonda. Quanto tempo e che cosa è passato da quando in ‘Tempodamore’ lei diceva: “scoprivo come eravamo diversi/ tu uomo/ meravigliosamente/ io donna” (T.,p.12) e mai e poi mai avrebbe voluto qualcosa di diverso?:
Mi chiedo
se tu fossi nato altrove come avrei fatto a trovarti
ora sarebbe con un altro
(altra voce altri occhi non i tuoi)
tutto diverso oppure
tutto uguale
se la vita ci tiene intercambiabili
per dignità di creatura prego
ma voglio
tu ed io irripetibili ovunque
(T.,p.27)
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Comunque sia, infine, inevitabilmente, lui, “tu/ finalmente sparito” (p.33). “Tu/ l’amato”, al passato. “Finalmente” perché lei era ridotta ad un asservimento troppo pesante: “povero cane” incatenato al “palo”-lui, “secchio piangente” buttato nel pozzo da lui-carrucola. E la vendetta da maga arrabbiata torna a congiungersi alla maledizione d’inizio, terribile: il ricordo di lui, anzi della sua “piacente forma innocua”, è “come una favolosa pelle di leone” che “si ammira alla parete” da parte di “chi siede in comoda poltrona”: lei. Eppure, anche se lei adesso aspira a una “fresca solitudine” (p.34), a nascondersi “in ombra riposante/ e spegnere la luce” (e qui sorge, forse inconsapevolmente, un’analogia con la morte), eppure lo sguardo di lui a cui dice con sollievo di essersi sottratta è “occhio ardente”; eppure, se l’amore con lui è ricordato come tormento di martire, di “santa in rogo perpetuo/ con crepitio di ansie e tenerezze/ fino a pericolo di sé”; eppure, se definisce la “passione” una “vampa di sole” che annienta col proprio ardore “ogni tiepida ora/ consueta” della vita, quindi negando di fatto la possibilità che un tale amore assoluto possa convivere con la normale vita; eppure, poi le sfugge – sì, in un ‘a parte’, tra parentesi, ma tanto più amplificato – un “ah”, un sospiro che sembra quello di Francesca quando, accusandosi consapevole di un ignominioso peccato di amore-lussurioso che l’ha dannata per sempre, dice: “Amor, ch’a nullo amato amar perdona/ mi prese del costui piacer sì forte,/ che, come vedi, ancor non m’abbandona.”.[4] Si è nel ritorno uroborico dell’anello su se stesso, ma nel suo doppiarsi è possibile una maggiore profondità di sguardo, individuando così uno dei motivi – forse senza l’importanza di una vera e propria causalità – che non portò la linea circolare della vicenda a divergere tangente dal cerchio:
Ora che vorrei
(e non ha senso farlo)
m’accorgo che mai lo dissi, la gola non respirò,
le labbra non si congiunsero a sussurrare:
“amore mio”:
(…)
“Amore mio”
per orgoglio non fosti detto all’aria
e il mare
-che tutto sapeva-
attese
inutilmente
(p.35)
Così i colori che lui è a lei, nel dopo, nel ricordo, aprono, oltre ad emozioni calde, anche molte impossibilità (la “mela aspra che non si addenta” (p.47), un “cielo splendente che non ammette/ perplessità”), tanto che lei non osa guardarli negli occhi di lui “tutti i colori lì mescolati”, perché “vi fanno/ un nido/ di morte”. Non importa sapere se quella “tua sedia a sdraio/ vuota”(p.46) è così solo per un’assenza-separazione o per la morte di lui. E’ comunque un’assenza che scava cancellazioni e buchi anche nelle resurrezioni dei ricordi, suscitate da sorprendenti analogie sensoriali (“eri/ nell’odore di legno fradicio/ delle scale” (p.48)), come la ‘madeleine’ di Proust. Così, nonostante gli “spenti occhi di pietra” (p.50) della statua non abbiano più, come quelli di lui, “sguardo voce moto”, eppure lei per anni si ostina “a spiare/ se mai battessi le palpebre”, perché il “ricordo” è “concluso eppure/ mai finito”: infatti “mi ferisce ancora/ la spada/ che la tua mano calcinata stringe/ spezzata”.
Si vorrebbe
non perdere le cose
le chiavi le penne gli occhiali
ma io ho perduto te
e il tempo senza te
non posso ritrovarlo
in fondo a nessun cassetto
(p.59)
Ritornando assoluto su se stesso, l’amore non arrivò mai a produrre la consequenzialità quieta e perfetta del suo normale divenire: “tepore” (p.36) da fuoco, e fertilità, fruttificazione; restando ustionante, immobile in un astratto “limbo”. Solo la poesia è il suo ‘frutto’, capace però di dinamizzare l’eterna curva dell’anello. Ma quest’“Amore” (p.37), che perde la minuscola e l’articolo indeterminativo per farsi assoluto, ha un altrettanto avversario maiuscolo, il “Pensiero”: il loro scontro crepita “impietoso” come un cortocircuito elettrico e introduce l’amore nella nuova combinazione che ne risulta: “ la maestosa ombra della fine/ nel luogo della trepida eternità”; e allora diviene “l’amore che sa” e che è condannato ad essere “sempre un mezzo amore che soffre”, “cercando il suo impossibile intero”, la sua assolutezza fatta a pezzi dal Pensiero. Solo la decisa volontà della poeta riesce a tenere il tempo limitante, il tempo del divenire corrosivo, lontano dal ricordo dell’amore; che si cristallizza intorno ad attimi, a particolari minutissimi come il “tuo battere di ciglia” (p.42), divenuto “d’interminabile durata”, o come “l’indice [di lui]/ sulla punta del mio naso” (p.43) che la sospendeva al miracolo. C’è sempre comunque un pericolo di “disincanto” in agguato, “una piccola nota” d’improvviso stonata che potrebbe mandare in frantumi la “meraviglia” cristallizzata. Tra parentesi può affacciarsi anche un dubbio-rimpianto: “(meno esigenti/ avremmo colto l’amore/ nel suo intatto fragore)” (p.54), una sorta di fermo in quel cerchio dove inizio e fine coincidono fatalmente, quasi una rottura del continuum circolare, a interrompere quel congelato momento “quando/ la crepa silenziosa fu rottura/ flagrante del cristallo”, che non trovò mai le parole per essere detto e che indica ancora una volta una causa-accusa, anch’essa irrevocabile: “per arrogante pretesa inappellabile”. Ma una certezza, alla fine, domina: che “nessun dio potrà/ che più non siano/ le nostre scambiate tenerezze”(p.52) ; lui, oltre la vita e la morte, “amato una volta amato/ per sempre”.
Con ancora un guizzo di orgogliosa ribellione, lei, che mai si è lasciata possedere, rivolgendosi ad un “tu” che, più che lui-persona, è la personificazione dell’amore stesso, gli dice a sfida che si prenda pure tutta “la gloria” (p.60) e gli “onori” di tanta passione, ma sapendo di non averne merito: “sono io la grazia/ che ti ha messo al mondo”. Comunque, se ancora una volta “tu”, gli dice, “non sai”, e questa volta è la propria dissoluzione nel tempo (“così sgranato e fiacco”), ancora una volta è lei che lo rimette al mondo, lo vivifica. Col “Tempo – carnefice obbediente –“ (p.61) si chiude la silloge. Solo il Tempo farà sciogliere “nel silenzio” “anche la più accorata parola/ dell’amore”, quando porterà “a termine il suo alto/ compito/efferato”: la morte di lei. Come gli eroi romantici di ‘Cime tempestose’.
La bellezza di questa poesia sta soprattutto nel suo proporre un tema così tanto già narrato, poetato, vissuto, in un modo che lo fa nuovo, sorprendente. Non solo per le ellissi della vicenda che spazzano via di netto ogni impronta diaristica, aprendo invece a un dire-sentire-pensare che ispessisce la parola e dà profondità tanto fisica-concreta quanto logica-riflessiva. Ma soprattutto per il taglio netto, svelto di versi che non strabordano mai in qualcosa di più che non sia l’indicazione esatta e sintetica di concetti, oggetti, situazioni, sentimenti. Un rigore da mente filosofa, quale è quella di Rossana Roberti. Dove il ‘dipiù’ e l’apertura polisemica della poesia viene dalla capacità di ‘parlare basso’ per dire ‘altissimo’ e molto spesso dalla luce ironica che fa intravedere molto oltre l’immediato visibile. Con una cadenza ritmica molto mossa e articolata in forme dalla brevità e intensità spesso epigrammatica. Una poesia di donna, una poesia che sa pensare da donna.
Milena Nicolini
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Note al testo:
[1]- Dante Alighieri, Inferno, canto V, v.31, vv.44-45
[2]- Guido Cavalcanti, ‘Poesie’, xiii (xii), Rizzoli, Milano 1978
[3]- Rossana Roberti, ‘Maternale’, Book Editore, Castel Maggiore (Bo) 2003, p.17, p.49
[4]- Dante Alighieri, cit., vv. 103-105
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Rossana Roberti, Quello che so dell’amore– Book Editore Riva del Po (Fe) 2019
Rossana Roberti, Meraviglie del viaggio- Rossopietra Castelfranco Emilia 2014