“Nella stufa ardeva il fuoco. La pioggia sferzava i vetri delle finestre. Allora fu la fine. Presi dal cassetto del tavolo i massicci manoscritti del romanzo e i quaderni zeppi della mia scrittura e cominciai a bruciarli. Era molto difficile, perché la carta scritta brucia con difficoltà. Spezzandomi le unghie lacerai i quaderni, li infilai fra i ceppi e con l’attizzatoio maciullai i fogli. La cenere ogni tanto soffocava la fiamma, ma io lottavo e alla fine i fogli che resistevano tenacemente furono distrutti. Parole note mi balenarono davanti, guizzi gialli salivano lungo le pagine, ma le parole trasparivano ugualmente. E scomparivano soltanto quando la carta diventava nera e io le davo furiosamente il colpo di grazia con l’attizzatoio”
(da “Il maestro e Margherita”, di M. Bulgakov)
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edizione integrale di Мастер и Маргарита-M. Bulgakov, edita da Posev
Giovanni
A tanto arriva il Maestro, giudicato malato di “pilatismo” e di essere “impegolato con Dio”. A tanto arriva Michail Bulgakov quando scopre che il suo manoscritto, “Il Maestro e Margerita”,verrà censurato. Realtà e finzione si incontrano e il Maestro, così come il suo creatore, decide di affidare alle fiamme la propria opera. Ma le fiamme da sole non bastano, la carta scritta brucia con difficoltà, ci vuole la mano dell’uomo, l’attizzatoio, la stessa mano che gli ha dato la vita.
Paolo
Quando un uomo decide di affidare i propri pensieri alla pratica della scrittura è, nei casi migliori, perché sta facendo i conti con se stesso e ha bisogno di bloccare il flusso dell’esistenza in una pratica che possa racchiuderne una scheggia di senso. Come costruire una piccola diga sul torrente che scorre, con legnetti, sassi e quello che si trova a portata di mano: si racchiude una porzione, uno specchio in cui si fanno giochi e ci si riflette. Ma a scrittura finita la pozzanghera ritorna ad essere fiume perché si pone, anche nei casi più sfortunati, in un’opera di irrigazione comunicativa. Per questo la testimonianza una volta che è scritta “brucia con difficoltà”, perché ha dentro la sua vocazione liquida, la sua natura di scorrimento acquatico. “Il colpo di grazia dell’attizzatoio” è una decisione autonoma dell’autore o piuttosto lo strumento gli è stato messo nella mano dalla struttura autoritaria che gli fiata sul collo? Fino a che punto un autore è libero di distruggere la carta già tinta d’inchiostro? Oggi tutta la struttura drammatica della scena crollerebbe. Bastano due gesti. Seleziona e cancella. Ma non cambia la sostanza della questione, la domanda profonda. Margherita inorridisce quando sa della distruzione e si getta in un’opera di disperata salvazione. Se un’opera come “Il maestro e Margherita” è riuscita ad emergere, quante, magari formidabili, sono state bruciate, dunque tenute sotto il livello dell’acqua e affogate? La Storia, grande e piccola, che si sarebbe potuta profilare come diversa è uno dei grandi filoni del romanzo…
Giovanni
L’irrigazione comunicativa, una volta innescata, diventa un processo irreversibile rispetto al quale non si può più tornare indietro, qualcosa che anche bruciandolo o – con meno romanticismo – selezionandolo e cancellandolo non se ne va mai via del tutto. Permane. Per questo la libertà dell’autore di distruggere la carta scritta è illusoria, sia che la decisione sia autonoma sia che lo strumento (l’agognato attizzatoio) gli venga messo nelle mani dalla Struttura. Non ci si libera dalle proprie parole, dalle loro catene invisibili, così come il Maestro non si libera dalle sue. La sua Storia. Forse è grazie a quelle catene che il “Maestro e Margherita” non solo è sopravvissuto, ma continua a vivere, e probabilmente vivrà all’infinito. Non è in fondo questo il destino dei grandi classici? Se la sua natura inesorabile lo rende immortale, rassegnarsi all’idea che “la carta scritta brucia con difficoltà” e che la nostra libertà sia solo illusoria può essere l’unico modo affinché le storie non anneghino?
Paolo
Non so. Mi pare a volte che un tempo la carta bruciasse con maggiore difficoltà rispetto a oggi, che le parole rimanessero impresse più a lungo e che facessero maggiore resistenza alla ferocia del fuoco. Penso a un altro grande classico della letteratura contemporanea che è “Farenheit 451” di Ray Bradbury: come tu sai questa è proprio la temperatura a cui brucia la carta stampata e che nella società distopica prospettata nel romanzo il corpo dei pompieri è incaricato di scovare i libri nascosti e di bruciarli pubblicamente. Una signora si lascia ardere insieme ai testi che ha custodito, letto e amato. Cosa succede nel finale di “Farenheit451”? Per evitare la loro damnatio, il loro oblio, la loro perdita definitiva, un gruppo di resistenti impara i libri a memoria, diventando essi stessi i libri, simulacri umani che tramanderanno le pagine indimenticate e indimenticabili di generazione in generazione. Io sono Il libro dell’Ecclesiaste, io La Repubblica di Platone, io I viaggi di Gulliver di Swift. E qualcuno avrebbe potuto tranquillamente aggiungere: io sono Il Maestro e Margherita. Montag, il personaggio che fugge dal mondo dell’incenerimento della cultura, viene accolto dai partigiani con un “Benvenuto tra noi dal regno dei morti”. Ecco, che cosa distingue un classico da un libro normale, quale scrittura è tanto forte da poter diventare mente e corpo di un uomo? E mi sai citarecome già classico un libro pubblicato nel nuovo millennio?
Giovanni
Bradbury incentra l’intero percorso narrativo sulla natura distruttiva delle fiamme, Bulgakov invece ne fa un uso più personale, intimo mi verrebbe da dire. Quello che appare evidenteè che in entrambi i casi, seppur con diverse dinamiche, le parole sono sopravvissute. Complesso affermare, per certo, se ciò accadrà anche con quanto scritto nel nuovo millennio. Nel tempo contemporaneo tale sopravvivenza è possibile? O forse l’orgia verbale a cui si è sotto-posti ha abbattuto la temperatura? Ecco, a mio avviso tale orgia – contaminatrice – rischia di prostituire l’autenticità delle parole, la loro intimità, fino a farle arrendere alle fiamme. Le parole gettate in pasto alla folla, il pubblico in visibilio di fronte all’overdose comunicativa, all’accessibilità immediata della merce (le parole) rendono la scena drammaticamente simile a quella già descritta da Bulgakovdurante lo spettacolo di magia nera al teatro Variété.
“E subito il pavimento della scena si ricoprì di un tappeto persiano, spuntarono enormi specchi illuminati ai lati da una luce verdognola e vetrine in cui gli spettatori felicemente sorpresi videro esposti modelli parigini di diversi colori e fogge. […] Fagot, con un sorriso bonario, disse che la ditta offriva del tutto gratuitamente alle signore la possibilità di sostituire i loro vecchi abiti e le loro scarpe con modelli e calzature parigini. E aggiunse che il discorso valeva anche per le borsette e tutto il resto.”
Paolo
Ora rabbrividirai perché ti farò un esempio di nuovi modelli parigini applicati alla pubblicazione libraria. Nuovi classici… Sto leggendo in classe con le mie alunne di quinta “Le notti bianche” di Dostoevskij. Grande spinta motivazionale alle buone letture, anche extrascolastiche, spero. Ebbene, alcune di loro mi dicono di apprezzare questo romanzetto, ma di avere acquistato un libro che le ha veramente conquistate – erano più di una, ti giuro -, un libro che è uscito nel settembre scorso e che fino ad ora ha venduto più di 150.000 copie, piazzandosi saldamente al primo posto in tutte le classifiche di vendita. “Le corna stanno bene su tutti. Ma io stavo meglio senza!” edito da Mondadori. L’autrice è la ventitreenne Giulia De Lellis, già protagonista delle trasmissioni “Uomini e donne” e “Grande fratello Vip”. “E’ bellissimo!” squittiscono dai banchi. “E poi ha una copertina stupenda”, interviene X, che pure stimo tantissimo e che interviene ad ogni conferenza con interventi che denotano il suo forte senso etico. “Io i libri li scelgo in base alla copertina. La copertina è troppo importante”.
Ecco cosa non brucia più: la copertina. L’hanno cosparsa di materiali ignifughi potentissimi. Non è che si è abbassata la temperatura, siamo proprio andati sottozero. Lo dico senza voler fare l’indignato o il moralista. Le copertine hanno vinto. Mai più prenderanno fuoco.
Giovanni
È evidente a detta di X – ma quanta amarezza – che la copertina di quel “romanzetto” non è così “stupenda”; e sai bene che la copertina è il biglietto da visita, la copertina è come ti presenti. Metti insieme “come ti presenti” e trasmissioni televisive di cui sopra e la miscela è pronta. Esploderà? Pensando alla parola copertina mi viene in mente il termine contenitore. Con questa attenzione maniacale (ossessione?) al “fuori”, alla “presentazione”, alla “forma”, non c’è il rischio di ridurre ogni cosa a contenitore? E il contenuto? Sì, certo, poi. Tutto può diventare contenitore, un romanzo così come un essere umano: d’altro canto non siamo anche noi storie? Non siamo anche noi composizione di parole? A proposito di parole, di X e di “copertine troppo importanti”, ho l’impressione (soloun’impressione?) che il vocabolario personale, specialmente degli adolescenti, vada impoverendosi progressivamente a scapito di un uso eccessivo di neologismi derivati dalla sfera digitale e/o anglofona. È qui che si colloca, a mio avviso a buona ragione, la celebre riflessione di Nanni Moretti alias Michele Apicella in Palombella Rossa (1989), ‹‹se parli male pensi male››, accostataalla ancora più celebre ‹‹le parole sono importanti››. Mi chiedo fino a quando la nostra carta (ammesso che sia scritta) resisteràalle fiamme. Mi chiedo fino a quando la nostra composizione rimarrà compatta. Non voglio negare l’importanza della copertina, sarebbe ipocrita, né del “come ti presenti”, lo sarebbe altrettanto, ma se ciò deve portare a definire “Le notti bianche” un romanzettovuol dire che qualcosa non ha funzionato, e che i nuovi modelli parigini sono più attraenti di quelli passati. Eccome se rabbrividisco.
Paolo
Se la copertina è fiammante, non può esporsi a bruciature, ti pare? L’instant book cavalca l’idea che tutto deve essere nuovo, aggiornato, in tempo. I profitti fanno più fatica a nascere da opere che si pongono in una prospettiva di analisi storica: probabilmente oggi “Guerra e pace” scritto da Tolstoj negli anni Sessanta dell’Ottocento, ma ambientato durante le guerre napoleoniche sarebbe un clamoroso fiasco. L’editor taglierebbe le scene di battaglia, troppo noiose. E “I promessi sposi”? Insomma, da una parte c’è la ricerca dell’industria editoriale che conta, del libro che sia sul pezzo (e ci metto anche quelli, magari meritevoli da altri punti di vista di Greta Thunberg e Carola Rackete), dall’altra c’èla proliferazione di piccole case editrici a pagamento che dà vita all’orgia verbale e all’overdose comunicativa di cui parli tu. Nessuno spazio più per un prodotto minimamente sperimentale,sia dal punto di vista della forma che del contenuto. Ma anche questo, seppure in forme diverse da quelle esercitate nel regime sovietico ai tempi di Bulgakov, non è un progetto di controllo ben studiato e ben esercitato dal potere? Se la società diventa rizomatica, se la galassia alfabetica non ha più limiti, anche il potere, adeguandosi, diventa diffuso ed espansivo. Il potere oggi siamo noi, noi siamo stati vaccinati in modo da essere autoindotti a certi comportamenti vanagloriosi e consumistici. Per quanto riguarda il romanzo dunque forse non si tratta nemmeno più di produrre carta scritta: il rogo ha lasciato spazio al macero, alla discarica. Forse, per sfuggire alla catena produttiva, oggi gli scrittori dovrebbero riunirsi in scuole paritarie, in falansteri aperti ai ragazzi, a riflettere sulla parola scritta, a discutere della narrazione, a produrre prove testuali senza la pretesa di una tracciabilità futura.
Giovanni
Risulta lapalissiano che il ‹‹mercato›› è l’attuale Golia, e mi pare di non vedere alcun Davide; o meglio, anche coloro che ne hanno l’aspetto finiscono per incastrarsi (consapevolmente o non) nella rete del gigante (vedi i ‹‹prodotti›› editoriali, meritevoli certo, di cui parli). Così facendo, nell’assenza di un Davide autentico, viene a mancare il conflitto (nell’accezione non-violenta) ovvero la madre di qualunque evoluzione, mentre si continua ad alimentare (cavalcandola) l’idea del nuovo, aggiornato, in tempo.Tempi postmoderni. Ci si muove in una sorta di monopolio mediatico dove il fu opera, oggi prodotto, e quindi profitto, rischia di essere l’unico fine. È un buon prodotto se vende si ripete spessospacciandone il senso democratico, dando la parola al popolo in altri termini. E se non vende? E se non scala le classifiche come i nuovi modelli parigini? Tu mi dici: “il potere oggi siamo noi”. Io mi domando: nella società dei consumi, il popolo (sovrano?) non rischia di tendere sempre più al ruolo di mero esecutore di diktat pre–impostati e sempre meno a quello di libero pensatore? Non rischia di essere gravido di potere – apparente quanto illusorio –esecutivo? In un sistema produttivo altamente massmediatico (vedi orgia verbale e overdose comunicativa) abituato a contare prima che a pensare c’è la reale possibilità, financo laddove dovrebbe essere di casa (letteratura), di un pensiero individuale e quindi autonomo? Di un pensiero non veicolato? C’è la reale possibilità di un conflitto (evolutivo) autentico?
“Nella stufa ardeva il fuoco. La pioggia sferzava i vetri delle finestre. Allora fu la fine. Presi dal cassetto del tavolo i massicci manoscritti del romanzo e i quaderni zeppi della mia scrittura e cominciai a bruciarli.”
Paolo, mi chiedo se c’è ancora un qualche scrittore, all’interno o all’esterno di quel falansterio, di quelle scuole di cui parli, tra di noi, capace di dare alle fiamme i propri massicci manoscritti fino a finirli con un colpo secco e deciso d’attizzatoio.
Paolo
C’è da pensarci bene. Da rifletterci a lungo…un po’ di sospensione dalla fregola di voler pubblicare a ogni costo (appunto, l’autofinanziamento), finalmente!
E le nuove piattaforme di pubblicazione on line vedi Amazon, su cui uno si costruisce gratis il proprio insopprimibile libro, sono strumenti democratici di partecipazione o allettamenti pubblicitari di grandi corporazioni? Il mio libro su Amazon è mio o è marchiato Amazon? La tua richiesta di bruciare manoscritti inutili è allettante e credo che la combriccola infernale de “Il Maestro e Margherita” approverebbe incondizionatamente: nessuno ci costringerà, lo faremo autonomamente. L’appuntamento è a Mosca, a Gerusalemme, a Roma: faremo grandi falò dei nostri quaderni zeppi di scrittura e li bruceremo per salutare l’anno nuovo. Un 2020 che non sarà migliore né peggiore degli anni che l’hanno preceduto né di quelli che lo seguiranno. E così abbiamo collegato “Il maestro e Margherita” di Bulgakov, a “Dialogo di un venditore di almanacchi e di un passeggere” di Leopardi.
Paolo Gera
Giovanni Di Prizito è nato a Sora nel 1985 e vive a Bologna. Laureato in Ingegneria ambientale, attualmente lavora come insegnante. Precedentemente ha collaborato con Greenpeace Italia. Ha pubblicato il racconto “Il Disertore” per l’antologia “Matti di Guerra” (Morellini, 2019) curata da Andrea Tarabbia.
Fra gli allettamenti pubblicitari di grandi corporazioni, l’autofinanziamento o l’autocostruzione gratuita del proprio insopprimibile libro, l’orgia verbale e l’overdose comunicativa, Paolo Gera e Giovanni Di Prizito sanno addomesticare parole pregnanti nel mare magnum dell’abuso espressivo e tracciare a tinte fosche il ritratto della realtà moderna e contemporanea della lingua.
Il pensiero una volta partoriva parole ignifughe- come vuole il buon Bulgakov- ma oggi, invece (a parte il fatto che nessuno oserebbe correre il rischio dell’infiammabilità delle proprie vane parole inutili, pena la lesa maestà) viene molto sacrificato dall’economia degli atti in un mondo che va troppo veloce per poter essere sfiorato dal raziocinio. A farne le spese sono, purtroppo, sempre le nostre care e maltrattate parole, “depensate”, inventate e svuotate, scevre di ogni concetto che trascenda dall’immagine o, dalla copertina fiammante, appunto! Esse non servono più a definire, ma a supportare- solo per facilitarne la ricerca- un’apparenza e così abbiamo l’etichetta di tutto e la consistenza di nulla in un continuo incrocio casuale di lettere che va a determinare l’hashtag delle cose. Con un asterisco davanti le parole quasi non si sentono più, perdono di spessore, mentre noi abbiamo perso l’abitudine di ascoltarne la bellezza fonetica e di carpirne l’intima essenza. Dunque, non c’è più bisogno di mandarle a fuoco per testarne la resistenza perché bruciata è già la nostra nuova lingua, quella coniata dalla rivoluzione tecnologica che ci fa illudere di esprimere le nostre alienanti solitudini in una polifonia immediata e solitaria. A questa nuova lingua appartiene e pertiene anche (non me ne voglia la De Lellis se non casualmente ne ho voluto ignorare l’esistenza: di lei, come pure del suo libro) una comunicazione imperfetta, fatta solo di allusioni, impressioni e-vorrei dire sensazioni in automatico -ma non posso, perché mi rifiuto di scomodare un coinvolgimento dei sensi in absentia di realtà. Un ringraziamento particolare a Paolo e a Giovanni per aver citato anche il romanzetto- del quale, per carità riconosco tutti i romantici limiti, (rispetto ad una disincantata realtà che si merita di più personaggi come la De Lellis)- che mi ha fatto sognare nelle mie di notti bianche. Eppure, ho il sospetto che anche quelle di parole potrebbero risultare ignifughe, nonostante una lingua possa bruciarsi e deteriorarsi.
Cosa ha rappresentato per me “Il Maestro e Margherita” di Bulgakov, letto e meditato a 16 anni…
la mia adolescenza, il mio e suo spirito di ribellione all’autorità, l’aspirazione alla libertà, il fascino di un cristianesimo ‘anarchico’, il film “Pilato e gli altri” del regista polacco Andrej Waida, ammirazione sconfinata per la satira feroce che sfida ostinatamente la dittatura, il rogo come censura e il rogo come ribellione, Margherita che vuole salvare, la moglie che completa il romanzo alla morte di Michail, i quaranta anni e oltre perché una parte del romanzo possa avere un pubblico. Originalità, freschezza, immagini metafisiche e surreali, infinita ricchezza di spunti e occasioni di riflessione. Inno al vivace, confuso, profondo anelito della vita.
Un’interessante discussione che va al cuore del problema di ogni letteratura: quali sono i criteri che ne stabiliscono il valore? Esiste un valore diverso dalla durabilità? Uno scrittore ha ancora oggi una pazienza sufficiente, rispetto alla logica del consenso, tale da fargli concepire un’opera che possa davvero essere giudicata sulla distanza e non sulla fruibilità immediata? E non credo si possa fare una distinzione di generi; il consumismo sta dettando le sue regole indifferentemente su tutti: narrativa, poesia, perfino la saggistica e la manualistica. La società contemporanea, basata sulla velocità, sulla contrazione dei tempi di risposta (per un evidente modello di riferimento di tipo economico-produttivo) allontana dal concetto di slow-reading, nega il concetto di “lunga distanza” sostituito da un pervasivo “hit-and-run”. La domanda sempre più importante da porsi è: “Questo mio scritto merita davvero di essere condiviso con gli altri (e quindi di essere pubblicato)? Potrà “durare oltre quest’attimo” (Luzi)? Quanto sa essere davvero scomodo?” e la risposta non ci può essere fornita dal lettore, dall’editore, dal critico (sempre più latitante od ossequiante verso chi deve), ma solo dalla nostra consapevolezza, cercando di capire quanta “unlikeness” (che è la negazione della ricerca del consenso) abbiamo deciso e siamo riusciti a mettere in ciò che scriviamo.
L’ha ripubblicato su La poesia di Fabrizio Bregolie ha commentato:
Condividiamo un’interessante discussione tra Paolo Gera e Giovanni Di Prizito nella rubrica T9 del blog Cartesensibili.
Ringrazio Martina Barbieri, Alessandra Gasparini e Fabrizio Bregoli per aver continuato la discussione in questo spazio con le loro riflessioni.
Linguaggio e ideologia, si sarebbe detto un tempo: Martina mette sotto accusa la nuova lingua omologatrice dei social e l’espressione “sensazioni in automatico” che utilizza, rende bene l’idea di una dimensione globale e fittizia dell’esperienza e delle parole che la dovrebbero comunicare. Più che mai “idola tribus”, dunque, e il nostro disagio nasce dall’esigenza di un distacco critico che dovrebbe trovare le parole necessarie per esprimersi. Lo spazio della poesia offre la possibilità di creare un linguaggio personale, nuovo, originale e, attraverso il linguaggio, attaccare, per così dire, l’antenna stessa del potere costituito. Qui allora mi ricollego al concetto di “unlikeness” di cui scrive Fabrizio: il poeta scrive proprio per negare la ricerca del consenso e si dichiara diverso, oppositore, eretico con la sua disseminazione linguistica. Perfettamente d’accordo. Vorrei citare un gruppo di scrittori francesi, tra cui Jean-Marie Gleizes, che proprio Fabrizio mi ha fatto conoscere e il loro libro collettivo: “Toi aussi, tu as des armes – poesie et politique” (2011). titolo è ispirato alle ultime parole scritte da Kafka nei suoi Taccuini. Uno degli autori, Christophe Hannah indica uno dei modi di azione politica della letteratura con l’immagine della “bomba”. La citazione è molto interessante: ” L’autore di una bomba si concepisce innanzitutto come un artigiano clandestino. Ha bisogno per pianificare la sua azione di uno spazio ritirato( una fabbrica, un laboratorio di letteratura) nel quale costruisce la sua arma con pezzi riportati o specifici. la sua pratica è gelosa, incompatibile con le attività della riuscita sociale .E’ un dissidente. L’arma che egli prepara è pensata come un oggetto unificato, chiuso in se stesso, come possono essere in effetti le poesie, i romanzi, i libri, nella loro concezione tradizionale, ma disposto in modo tale da poter essere posto su un obbiettivo preciso e avere lì il più forte impatto.” (traduzione mia).
Leggo i numerosi commenti che seguono alla discussione tra Paolo e Giovanni su “Il maestro e Margherita” e come la discussione su di un classico sia diventato lo spunto per parlare di oggi, di noi, della nostra società che tutto divora, ben più del fuoco, ogni cosa viene subito consumata e diventa cenere.
Cosa rimane allora? Cosa vale la pena di salvare dalle fiamme? Riagganciandomi al già citato Bradbury: i classici, le grandi opere, quelle che continuano a parlare di noi a distanza Di secoli, quelli che si sono salvati nonostante la volontà dei loro autori. L’Eneide non avrebbe dovuto essere letta perché non revisionata, ma gli esecutori testamentari non seguirono la volontà Di Virgilio, così come la Gerusalemme Liberata. Sono ottimista: credo che oggi come allora, se qualcuno dovesse scegliere cosa salvare dalle fiamme, nonostante la massa magari legga e conosca opere di scarso valore, per non dire carta straccia, alla fine sceglierebbe il libro che parla di noi, che lascia il segno, che ti incanta per ciò che dice e come lo dice. Anche queste diciottenni sedotte da libri spazzatura, dopo avere incontrato i Maestri russi, non rimarranno indifferenti, il grande libro tuoi cambia, entri in un mondo nuovo, parla di te e ti mette in discussione. E per qualcosa che ti fa cambiare, che ti fa crescere, che ti apre una finestra sul mondo, ci si può persino buttare Tra le fiamme per metterlo in salvo.