capo d’orlando- messina
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“ma se il fugace è sgomento/l’eterno è terrore.”
Lucio Piccolo da “La meridiana” (Canti Barocchi e altre liriche)
Ci sono autori che rimangono latenti e la loro presenza occulta, luminosamente non manifesta nascostamente getta semi di luce dialogando strettamente con noi. C’è un libro che tengo sempre a portata di mano e che mi parla, anche quando è chiuso. Questo libro è “Canti barocchi e altre liriche” di Lucio Piccolo, Mondadori 1956, con la prefazione di Eugenio Montale.
Montale racconta che ricevette per posta l’8 aprile del 1954 una busta contenete un libricino composto da nove liriche stampate su fogli poco leggibili, che portava un nome a lui sconosciuto, in una busta con un bollo da 35 lire con una lettera di accompagnamento in cui l’autore si presentava, raccontando la sua intenzione di evocare un mondo singolare siciliano, in particolare palermitano, sulla soglia della propria scomparsa, senza essere stato fissato in alcuna forma d’arte. Per ritirarla, Montale dovette pagare una tassa di 180 lire, in quanto l’affrancatura era inadeguata.
In seguito lesse il libricino distrattamente, pensando che l’opera si riferisse ad un giovane poeta in erba. La lettura lo portò, oltre al riconoscimento di echi dannunziani, ad una libera associazione con le liriche di Dino Campana per il lessico ricercato e a tratti visionario e a quelle di Dylan Thomas, nell’uso di una lingua primordiale e profonda, ma via via che proseguiva la lettura si rendeva conto che si trattava anche di molto altro.
Dopo circa un mese, Eugenio Montale ricevette una visita dal signor Lucio Piccolo in persona, e con meraviglia scoprì che il “giovane” poeta era nato nel 1903, solo sette anni dopo di lui. Il barone Lucio Piccolo di Calanovella, non era solo uno scrittore, ma un raffinato musicista, uno studioso di filosofia, un profondo conoscitore di Husserl e Wittegenstein, un grecista strutturato, oltre che occultista e conoscitore di dottrine esoteriche.
Lucio Piccolo era cugino nientedimeno che di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, colui che nel 1956 scrisse “Il Gattopardo” quell’immenso romanzo che al suo apparire non venne compreso ed apprezzato ma che, pubblicato postumo, lasciò una traccia indelebile nella storia della letteratura italiana. Montale si rese conto d’aver sottovalutato il libricino ed il suo autore e che in realtà si trovava davanti alla produzione letteraria d’un uomo estremamente complesso e sempre in fuga dalla realtà del suo tempo.
Il suo vivere filosoficamente appartato rende Lucio Piccolo un caso a sé stante nella poesia novecentesca e non lo si può inserire in alcun contesto o corrente specifica, le sue poesie sono il frutto singolare di una stagione culturale irripetibile. E’ il fiero rappresentante di una nobiltà dello spirito e di una eleganza che ai nostri giorni risuonano obsolete.
Fin da bambina ho amato questo libro enigmatico, quasi misterico che girava per casa di cui intuivo oscuramente la forza e la bellezza, per cui, Lucio Piccolo, anche se non ne conoscevo in profondità la vicenda umana e letteraria, era una presenza familiare.
“Canti barocchi” era per me un volo tra broccati di nuvole, un’immersione nella seta di spazi marini, un attraversare scenari di luce e d’ombra. Leggendolo, mi addentravo in paesaggi d’isola e facevo incursioni nel mito, mi lasciavo incantare da evocazioni ed evanescenze, veggenze e precognizioni.
Ma il dono più grande che ho ricevuto da lui, pur lontano nel tempo e nello spazio, mi ha commosso e sorpreso: scartabellando in casa di mia madre, tra montagne di carta, di libri e di presenze, è affiorata una cartolina, inviata da Capo d’Orlando a mia madre proprio da Lucio Piccolo. Nell’intestazione, si nota la stessa incuria, inettitudine per le pratiche postali che coinvolse anche Eugenio Montale nel ricevere la busta con il libricino di poesie. Qui l’indirizzo è cancellato e a Firenze nell’intestazione è sostituita Padova: mi piace pensare che questo errore sia dovuto ad una scarsa frequentazione della realtà da parte del mittente, quasi che gl’indirizzi siano qualcosa di pleonastico rispetto alla dimensione metafisica in cui Lucio Piccolo si trovava immerso: mi commuove la gentilezza e l’attenzione, segno di una signorilità d’altri tempi, con cui risponde a mia madre, che probabilmente gli aveva inviato un suo libro di poesie.
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Mobile universo di folate
Mobile universo di folate
di raggi, d’ore senza colore, di perenni
transiti, di sfarzo
di nubi: un attimo ed ecco mutate
splendon le forme, ondeggiar millenni.
E l’arco della porta bassa e il gradino liso
di troppi inverni, favola sono nell’improvviso
raggiare del sole di marzo.
Lucio Piccolo vive in questo dialogo continuo tra luce ed ombra che è l’essenza tragica e fatale della cultura siciliana, in un’alternanza assidua tra la luce accecante del meriggio e la profondità oscura di stanze disabitate che sono poi le caverne della nostra interiorità. Questi luoghi sono le stanze dello scirocco, quelle in cui si decantano le voci e le visioni di una realtà intrecciata col simbolico, contribuendo al sorgere di una vocazione ineludibile alla visionarietà che è l’essenza tragica e fatale dell’esistenza stessa.
Scirocco
E sovra i monti, lontano sugli orizzonti
è lunga striscia color zafferano:
irrompe la torma moresca dei venti,
d’assalto prende le porte grandi
gli osservatori sui tetti di smalto,
batte alle facciate da mezzogiorno,
agita cortine scarlatte, pennoni sanguigni, aquiloni,
schiarite apre azzurre, cupole, forme sognate,
i pergolati scuote, le tegole vive
ove acqua di sorgive posa in orci iridati,
polloni brucia, di virgulti fa sterpi,
in tromba cangia androni,
piomba su le crescenze incerte
dei giardini, ghermisce le foglie deserte
e i gelsomini puerili – poi vien più mite
batte tamburini; fiocchi, nastri…
Ma quando ad occidente chiude l’ale
d’incendio il selvaggio pontificale
e l’ultima gora rossa si sfalda
d’ogni lato sale la notte calda in agguato.
La preziosità del linguaggio, unita al carisma enigmatico della sua persona, fanno di Lucio Piccolo uno dei più grandi autori ed appartati autori del Novecento che latitano nelle zone inesplorate della grande poesia italiana.
Lucia Guidorizzi