I GEMELLI DI SANTA LUCIA- un racconto per Natale di Adriana Ferrarini

time ago

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Natale era Bello – Rosso, Caldo e Dorato – con i doni incartati che per giorni stavano là sotto l’albero, da sgolosare, tastare, scuotere leggermente, soffrendo nel desiderio, paventando la delusione.
Ma Santa Lucia era la Grazia. Imperscrutabile. Prima di Natale, nel buio freddo della notte lei scendeva, depositava i suoi doni e, silenziosa  come era arrivata, se ne andava. Non mi chiedevo come arrivasse, non avevo bisogno di spiegazioni, accettavo semplicemente la sua natura magica. Mi restava di lei quel battito di creatura invisibile, quella generosità e ingegno senza confini.  La sua grazia.
I regali di Natale erano comprati, costavano lavoro e fatica, e non avevano certo traversato le vie misteriose del cielo, come quelli della Santa, che sebbene essenziali, per non dire  poveri – penso al bambolotto Poldino che mi arrivò nudo e solo a Natale ebbe la vestina cucita da mia madre – i suoi regali avevano però la qualità misteriosa del gratuito e dell’insondabile. Dietro di loro si apriva lo strascico del volo, della notte solcata dai suoi piedi frementi.
Magnifica allegoria della Grazia, c’era in lei, la sottile perfidia dei santi, il loro inclemente senso di giustizia. La martire cieca vedeva e sapeva tutto: il carbone era il segno infallibile. Avrebbe anche potuto portarti via gli occhi, ma lei si limitava a lasciarti lì, sul comodino un pezzo di carbone, con infinita tristezza: non solo non avevi il regalo, ma l’avevi addolorata. Che il carbone fosse dolce non aveva importanza poiché ora, davanti a tutti, era svelato il segreto della tua intima cattiveria. Non mi portò mai il carbone eppure ogni anno vissi nel timore di aprire gli occhi su quel pezzo squadrato e poroso, di un nero lievemente azzurrino.
Santa Lucia inoltre confermava il nostro ruolo di eletti. Noi, la mia famiglia, eravamo gli eletti. In quel paese di campagna popolato di nebbie e miserie dove ci eravamo trasferiti, noi eravamo i soli a parlare l’italiano, e non il dialetto, e solo noi, mio fratello e io, prendevamo lezioni di galateo da una sdegnosa nobildonna decaduta.
Goffi, con la puzza sotto il naso e i vestiti fatti in casa, le mantelline di vigogna e le sottanine a pieghe io, e lui, mio fratello, nei suoi pantaloni alla zuava o al ginocchio anche d’inverno, ma pur sempre degli eletti. E in quanto tali, solo sulla nostra villetta, in una buia notte d’inverno, nella buia campagna veneta, scendeva in planata, leggera e invisibile la Santa. Nessun’altra casa, nessun altro bambino veniva beatificato dalla sua generosa epifania.
Diversamente da mio fratello, che serafico accettava la predilezione senza porsi domande, io cominciavo a interrogarmi sul senso di tale elezione. Ne parlai un giorno con la mia compagna di banco, la mia amica, l’adorata e acuta Elsa, che quando si trattava di mettere le cose e le persone al posto giusto preferiva usare il dialetto piuttosto di un italiano ancora imparaticcio.

Ma che Babo Natale e Santa Lucia! Tutte bale, e ti te ghe credi?! Mona! I sé to mama e to papà. I regali i te li crompa loro, te li comprano loro, cosa credi?!

Me la presi per il “mona”, cioè stupida,  ma i suoi occhietti duri come pallottole mi folgorarono e dal cuore ferito e dalla mente illuminata,  venne fuori, già bell’e compiuto, il detective che abitava segreto in me. In breve, frugando tra cassetti e sportelli, prendendo nota di sguardi  e mezze parole, misi insieme prove schiaccianti contro mia madre, alias la Santa. Quando sibilai, compiaciuta e crudele, la verità a mio fratello maggiore, lui, spilungone già brufoloso e ingobbito, si mise le mani alle orecchie, non mi volle ascoltare. Lo dissi a mia mamma e la sua difesa fu sventata, ridicola. Avrebbe dovuto protestare, dimostrarmi che mi ero sbagliata, con tutte le forze assicurarmi che Santa Lucia esisteva davvero, aiutarmi a demolire le voci invidiose. Avrei voluto che come Tertulliano proclamasse severa il Credo quia absurdum, la forza dell’impossibile. Mi chiese solo di non rivelarlo a mia sorella di tre anni.

Così a otto anni mi fece passare dall’altro lato, quello dei Grandi, dei Grandi Mistificatori. Non glielo perdonai. Tuttavia pietosamente anch’io partecipai quell’anno alla finzione.

Arrivò la sera del dodici dicembre. Da quando andavamo a scuola la Santa anticipava alla sera prima il suo arrivo e mia sorellina era in fibrillazione. Nel pomeriggio tardo eravamo andati tutti insieme – compreso mio padre  – a fare la spesa nel nuovo centro commerciale, appena aperto, e al ritorno lei era tutta agitata al pensiero che nel frattempo Santa Lucia fosse arrivata a portarle Cicciobello. La seguii, appena appena contagiata dal suo entusiasmo, mentre saliva veloce i gradini ad uno ad uno, aggrappandosi alla ringhiera.
E lì, sul pianerottolo apparve il miracolo: al centro  del lungo corridoio che dalle scale passava attraverso il soggiorno fino alla cucina, il bambolotto era seduto in un’apoteosi di ori e argenti e scintillii. Intorno a lui, come a una gigantesca divinità pagana, tutta una corte di animaletti grandi un palmo: zebre, tigri, orsi, serpenti attorcigliati, giraffe, ippopotami, cani, pecore, mucche, cavalli e ippogrifi. Tutta l’arca di Noè scaricata e disposta a raggiera attorno al bambolotto grasso e pelato. E poi caramelle, cioccolatini, torroncini, meringhe, biscotti e amaretti, avvolti in carta stagnole di tutti i colori, sparsi a disegnare arabeschi come in un tappeto orientale. Ricordo ancora le manine unite di mia sorella, gli occhi chiusi, la testolina lievemente spostata indietro, sopraffatta da tanta meraviglia. Santa Lucia, Santa Lucia aveva fatto tutto questo per lei.
Io non mi capacitavo: prima di andare a fare la spesa, avevo traversato per ultima quel lungo corridoio vuoto e tetro, acceso la luce al neon, chiuso le porte, come mi urlava mia mamma da sotto, ero salita in macchina per ultima: quando lei e mio papà avevano avuto il tempo di preparare quell’allestimento? E chi altri, se non loro? Mi rigiravo nella mente le due immagini: il corridoio vuoto e grigio di poche ore prima e quello sfavillante di colori a disegni concentrici e volute di dolci e bestiole che avevo sotto agli occhi, senza capire. Come c’erano riusciti, così, in un baleno? Che forse davvero Santa Lucia…

Mio malgrado, anch’io fui sopraffatta da tanta bellezza.
Il completino, golfino mezza manica con giacchina abbottonata color  verde scuro, che trovai sul mio letto, dono della “Santa” per me, mi riportò a una dimensione più trita della realtà: i gemelli significavano diventare come mia madre, una signora perbene con il filo di perle al collo e ad ogni modo uscire dalla dimensione infantile e del gioco.
Ma, sotto sotto, duraturo, mi rimase l’incanto di quella sacra rappresentazione. E anche se nei lunghi anni ribelli dell’adolescenza, la rinnegai con forza, si sedimentò nel tempo l’ammirazione per l’inventiva e l’arte che mia madre e mio padre avevano saputo sfoggiare non solo in quella, ma anche in altre occasioni. Tanta arte, tanta grazia, tanta immaginazione solo per noi, per deliziarci e stupirci, e, ora lo so, soprattutto perché ci portassimo dentro ben salda la certezza che, nonostante i momenti bui della vita, con l’inventiva potevamo sempre farla splendere.
A me poi rimase una passione esagerata per il cinema e il teatro, per le messinscene in genere.  E, lo ammetto, anche per tutto ciò che luccica.

Adriana Ferrarini

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