adriana ferrarini- bahntower (berlino)
I LUOGHI: Una casa a Vitry-sur-Seine (“con una lunga strada d’America che taglia la città in due zone”), una piazza, una libreria, lo sportello di un ufficio postale, il Pronto Soccorso, una scuola materna, il lunapark, una casa di risposo, una chiesa, uno stadio, il museo della Madonna del Parto a Monterchi, la Biblioteca di san Matteo degli Armeni a Perugia, un carcere (“il Teatrino della Casa Circondariale Sant’Anna di Modena”), un’aula universitaria (“Aula dell’Università di Tubinga”), un teatro di Londra, il macello (“Ospedaletto Lodigiano. Il più grande macello d’Europa”), una spiaggia, una stazione spaziale orbitante, una nave da crociera, un festival di poesia: questi sono i luoghi attraverso cui scorre la corrosiva poesia di Paolo Gera.
I PERSONAGGI: il coro di scrittori disillusi, il coro dei bicchieri vuoti, il poeta che recita la strofa natalizia, il bambino di 11 anni di Paese in provincia di Treviso, il pidocchio, alias cittadino Parassita, l’eretico, Paolo e Monica del numero verde, il vecchio prete, il prof e il coro di alunne, il coro delle bottinatrici, il cestino dello Spam, il coro delle mimose recise, il coro dei manzi morituri, il Noè delle parole, il coro delle poesie pubblicate su questo numero, Monsieur Phong, il coro dei plutocrati, il poeta e il suo gobbo nero: queste le voci.
LE AZIONI: la scrittura, il ballo mascherato, il pestaggio dello straniero, il pranzo natalizio, l’esecuzione, la presentazione del libro, la messa domenicale, la partita di calcio, la gita scolastica, la conferenza, la lezione, lo spettacolo, l’incendio al macello, la festa di halloween, il corteo, la lettura: gli eventi.
IL TEMPO: in un presente sfocato sempre uguale si iscrive quello che definirei più un pometto che una raccolta di poesie.
La poesia civile di Paolo Gera in “ IN LUOGO PUBBLICO” può essere letta come una tragedia che si è sfaldata, ingrassata e impoltrita fino a tramutarsi in una crassa farsa, in cui le unità di misura pseudo-aristoteliche (in realtà prodotto di un’epoca, il Rinascimento, che credeva nella simmetria e nell’ordine delle cose) sono scoppiate: i luoghi si sono moltiplicati, diversi e sorprendentemente uguali l’uno all’altro, le azioni si sono slabbrate, inconsistenti ed effimere, le voci tracimano l’una nell’altra, i personaggi e i cori si sormontano e accavallano ognuno portando in scena la sua verità, una verità effimera che da se stessa si fagocita. Così anche l’orizzonte temporale si sgretola, dal momento che tutto sembra srotolarsi in un tempo sospeso, incerto, in cui le stesse azioni continuano a reiterarsi in una stanca coazione a ripetere. Viene da pensare a un’epica grottesca del quotidiano colto nella sua disperata e ridicola tragicità: questo è lo sguardo con cui Paolo Gera guarda al mondo. Non c’è evoluzione nella storia che nei luoghi pubblici si dipana, solo il tentativo sempre ricercato e sempre vanificato di uscire dal solipsismo – deserto – della metropoli: vedi “L’esecuzione” che mette in scena il condominio di un caseggiato di centro città con le sue vite sospese tra deserto e solitudine, “nell’aria tranquilla che precede il complotto”. E, tuttavia, un bisogno incessante percorre queste pagine, ed è quello del conforto del comunicare, del sentirsi vicini gli uni agli altri (ne “La chiesa”, alla domanda retorica del sacerdote su cosa sia il paradiso, “si alza uno sconosciuto e tira su la mano” dicendo “il paradiso/penso che saremo stretti gli uni agli altri/ una cucciolata di lupi/ una tenerezza di pelo che fa caldo”); quello di sentirsi parte di qualcosa più grande (come ne “Lo stadio”, dove “non c’è nessun pensiero che possa distogliere i 70.000 della partita, addirittura non c’è nessuno che abbia lo sguardo abbassato sul telefonino”), e insieme il bisogno di “libertà e speranza di chi attraversa i deserti/e trova sentieri” pur sapendo di aver fatto “solo un giro su un anello di asfalto/ la consolazione di una ruota da criceto” (“Il percorso”). Anche se ogni sforzo – di condivisione, di comunione, di amore – si converte poi nel suo contrario, resta sempre sotteso un filo di luce in questo garbuglio di contatti, nella rete in cui siamo avviluppati, il legame del “leggimi, leggimi, leggimi” con cui si chiude il poema.
Beffarde, amare, sarcastiche e umanamente dolenti, queste pagine danno vita a immagini grottesche, come le “le tigri siberiane colpite da alopecia” di “Lo Spam”, “i covi di sorci spellati dalla diossina” di “La piazza”, accostamenti sorprendenti, quali “libertà condizionata aria condizionata” di “Nave da crociera”, teatrini divertenti, come quello del prof e della classe in “La gita”, percorrendo luoghi e fatti della quotidianità, a volte nominati con precisione, a volte generici, nei quali non possiamo non possiamo che riconoscere i nostri percorsi quotidiani, rispecchiandoci in questa ricerca di senso all’interno di un mondo sempre più sconquassato e sempre più delirante.
.
adriana ferrarini- manifesti sui muri di padova
.
Impassibile, l’orecchio del poeta si ferma un istante a registrare le voci rancorose e frustrate dei reietti e quelle tracotanti e volgari dei potenti, ma il suo ruolo non è forse diverso da quello di un cestino/spazzatura, dove vanno a finire i messaggi indesiderati: “Lo Spam”, un novello Noè che promette salvezza alle parole, e annuncia loro che le “farà salire sulla passerella/prima che il livello di questo mare di lacrime/ non cresca a dismisura e ci sommerga!”. Nessuno riesce a sfuggire all’assurdo e all’ipocrisia, tantomeno il poeta che, presbite e vanitoso, non vuole inforcare gli occhiali e così legge la sua poesia che parla del nigeriano fuggito da Boko Haram, sulla schiena di un nigeriano che gli fa da leggio (“Il gobbo”).
Sotto questo sguardo lucido e dissacrante anche le parole si deformano o forse diventano ciò che sono: “hanno farsificato le testimonianze, corretto i voti, i volti”, afferma la voce di “Diretta”; le parole si spendono “per comprare cosa?”, chiede il giovane professore dell’Università di Tubinga agli alunni di fronte a lui (in “La lezione accademica”), fino al penultimo componimento, “Il corteo”, in cui la volontà rivoluzionaria della poesia approda a un grammelot, irriverente, infantile, “parole giochi/parole bambine”.
La metrica, a sua volta, non può che rispondere al caos sospeso e sorpreso del vivere quotidiano: prosa e poesia si alternano in una stessa composizione, spesso farcite di citazioni che funzionano come controcanto, endecasillabi e settenari si succedono in apparente ordine sparso, o meglio indifferenti a qualsivoglia ordine che li governi, fino al ritmo da canzonetta del “coro dei plutocrati” o alle strofe pentastiche di endecasillabi in sdrucciola finale de “Il coro delle mimose recise”.
E anche questo rivela il senso del lavoro di Paolo Gera, nel quale oltre a echi di Zanzotto – per il petèl, di Baudelaire – per l’allocuzione al lettore, di Beckett – per l’instancabile ruminazione verbale di certi suoi personaggi, risuona la vis maliziosa e beffarda della poesia di François Villon: forzare la lingua attraverso sovrapposizioni di registri e di gerghi diversi, aprire il verso, farlo implodere, saggiarlo alla ricerca di un senso che si può affermare solo attraverso sottintesi ed equivoci, paradossi e antifrasi, come proclama fin da subito la poesia in apertura: “io sto scrivendo non scrivere e vai in un luogo pubblico/perché sono in un luogo pubblico”, a cui corrisponde, speculare, la chiusa: “se voglio far finire te che leggi/devo finirla ora/non leggerla,/non leggere più, finiscila/no, leggimi sino alla fine”. Basta un piccolo scarto e l’imperativo diventa supplica, il comando stizzito un’offerta suadente, la parola insomma si rovescia nel suo contrario e lo scrittore e il lettore si scambiano di posto, perché, in questo proliferare di voci babelico che il poemetto di Paolo Gera ha inscenato, il fatto stesso di leggere “sino alla fine” è opera di resistenza, che dà senso all’atto poetico.
Contro una cultura dell’individualismo che conduce a un solipsismo disperato, “IN LUOGO PUBBLICO” pensa all’atto creativo non più come prodotto di un singolo, bensì opera collettiva, e infatti, come è proprio di altre raccolte di Paolo Gera, ai testi di Paolo si affiancano quelli di Mauro Macario e Fausto Bregoli, i quali scrivono anche, rispettivamente, la Prefazione e la Postfazione. Quindi, forse, è il punto di vista che va cambiato, cioè, se non ci fossero Mauro Macario che dà il via alla lettura e interviene con l’eretico di “Prove di sparizione” e Fausto Bregoli che, dopo aver dato voce al “Coro delle bottinatrici”, chiude per davvero con la sua Postfazione, e aggiungo, se non ci fossimo noi lettori, non ci sarebbe nessun “IN LUOGO PUBBLICO”. Non me ne voglia Paolo Gera, ma è lui stesso a farcelo intendere: la forza della poesia è tutta nel legame che crea.
Adriana Ferrarini
.
da IN LUOGO PUBBLICO di Paolo Gera
Paolo Gera, IN LUOGO PUBBLICO- puntoacapo editrice 2019
Dopo aver detto ad Adriana Ferrarini che la sua lettura di IN LUOGO PUBBLICO di Gera mi è molto piaciuta, ne approfitto per fare anch’io qualche riflessione a ruota libera: lunghetta, mi si perdoni. Non a caso questo – è vero – quasi-poema inizia col tema della scrittura, con un’esortazione, non a caso incerta e contraddittoria nel suo balbettio, ad andare in “un luogo pubblico”, a superare la solitudine insuperabile della scrittura, anche a costo di non scrivere più. Credo che già in questo esordio ci sia non solo l’intolleranza dello stato oggettivo di separatezza insito nello scrivere (atto ancora individuale, ma che potrebbe presto aprirsi a ben altre esperienze); ma anche l’avversione per un possibile frequente vizio della scrittura individualistica, autocentrata, interessata solo alla propria realtà soggettiva, magari gonfiata fino a crederla mondo, universo uni-camente significativo. L’esortazione al luogo pubblico è proprio rivolta alla possibilità – più agognata che prevista – di aprirsi alla interazione, di fare comunità, di costruire insieme pensiero e azione per risolvere problemi e progettare futuro. Non a caso il quasi-poema si chiude con un monologo, ma interattivo tra scrittore e lettore – o tutto interno allo scrittore? – in cui ricompare quell’incertezza iniziale, di nuovo in un borbottio contraddittorio, questa volta tra la decisione apparentemente logica di smettere di scrivere e l’impossibilità di farlo, non per colpa, come si dice, del lettore che, se non smette di leggere, trascina la tiritera dello scrivere all’infinito, e neanche, credo, perché lo scrivere sia inteso come una dipendenza da stupefacenti, quanto piuttosto per il bisogno dello scrittore e per la domanda inesausta del lettore di arrivare a un senso compiuto, un messaggio indicativo di orizzonti, una ‘qualche’ (montaliano questo ‘qualche’) prospettiva. Che non c’è, che forse non è possibile mai alla poesia, che nel libro non c’è. In questa giostra rutilante, fetida, putrida di luoghi pubblici, in cui Gera ci ha fatto volare, con volontà, anzi a volte con voluttà distruttiva, si è attuata una vera e propria rivoluzione, che ha fatto tabula rasa, se non di tutte, di tante porcherie del nostro vivere. E proprio nei luoghi pubblici, proprio in mezzo alla gente. Come pirati col coltello tra i denti – non è un’immagine da favola che voglio evocare, tutt’altro! – abbiamo partecipato alla piazza pulita della ghigliottina con i nostri: “vero, verissimo”,”sì, è proprio come dici”, “sì, fa proprio schifo”, “sì, basta!”. Cosa ne resta? La sofferenza cruda dei viventi che la fogna abitano anche dopo il libro, sapendo che quello è ancora l’orizzonte contro cui sbattere la testa; non solo quegli ultimi oltremarini che magari arrivano all’approdo galleggiando – solo corpi – sull’acqua, ma anche quelli che hanno creduto di potere fare qualcosa per gli altri in posti-chiave della comunità e si sono ritrovati ‘servi del sistema’. Voglio dire che è un libro che strappa le budella, e poi ti lascia nel bel mezzo del mondo “porco-parco”. E’ sottinteso che adesso, se ti sei lasciato ferire, devi fare da te, la rivoluzione. In luogo pubblico. Di più la poesia “civile” non può (e non deve) fare. Già molto che ottenga tanto malessere. Ma per arrivare a questo apice Gera sembra aver perso qualcosa: ci sono versi-gemiti del poeta quasi irrespirabili, non più, anzi: non soltanto politici, ma dolorosamente esistenziali, residuali di quanto già spolpato nei “luoghi pubblici”: “io vi salverò, parole,/ (…)/ Sali più in fretta, deforestazione./ Salite svelti sulla passerella!/ Noè vi salva./ Per quaranta giorni voi sarete al sicuro!/ Entrate tutti e anch’io per ultimo/ mi chiuderò nella mia arca-cestino” (Spam); “Cosa volete?/ Cosa volete che vi dica?/ No, non con le parole./ Parole qui ne hanno spese sin troppe./ Spendere parole per comprare cosa?/ Dio merce guerre massacri?”; “noi eravamo rivoluzionari/ e credevamo di scrivere un romanzo/ da passarci alla storia/ (…)/ fregati sul tempo/ fingevamo di essere solidali/ e abbiamo avuto il dono di essere in troppi/ microbi e moltitudine/ (…)/ ci sentiamo smarriti perché la gloria è morta”. La poesia è morta, si potrebbe cantare come si cantava:Dio è morto. Che non voleva dire essere negazionisti atei, ma solo disperate creature NN orfane di Creatore. Più che la poesia, è morta ogni possibile comunità di poesia. Siamo nel tempo della moltiplicazione dei versi, nella lotta feroce per la sopravvivenza-visibilità, non appare compiuto nessun tentativo di uscire dalla propria isola per mettersi insieme, magari slegati, magari da sardine… Se questo libro ci ferisce quanto basta (non dico a cosa), molto molto molto di più ha ferito e ferisce Paolo Gera, che, mi si lasci dire tra l’altro, con la sua (del libro) precoce messa al mondo, rischia di uccidere il bellissimo fratello maggiore, “Poesie per Recaptcha”, che peraltro ne è necessario precursore.
Ma io sono sinceramente sconvolto da una lettura così profonda, tanto nell’articolo di Adriana, quanto nel commento fiume di Milena. Adriana ha letto il mio libro come opera di resistenza, Milena come registrazione di una crisi profonda. Tutte e due hanno perfettamente ragione e io mi meraviglio di come due lettori possano conoscere così bene la mia tasca destra e quella sinistra, la mia milza, sede del coraggio, e la mia bile, sede della malinconia, il mio occhio miope e quello presbite. La critica svela aspetti che neppure l’autore conosce, in alcuni casi,ma questo è non è un caso: è la testimonianza fulminante di come la lettura sia la pietra angolare su cui si regge l’edificio della poesia. “Non leggere più, finiscila/no, leggimi sino alla fine”. Per quanto riguarda l’uccisione del fratello maggiore: “Poesie per Recaptcha” è rimasto tra le spire della casa editrice per oltre un anno e io intanto ho iniziato ad avere il materiale pronto per “In luogo pubblico”. Dunque, 2016 “L’ora prima”, fine 2018 “Poesie per Recaptcha”, fine 2019 “In luogo pubblico”. Prima non scrivevo poesia, poi ho voluto scrivere poesie che fossero comunicazione con gli altri. Non credo sia una cosa scontata: io non mi faccio sconti e ho messo il livello di comunicazione su un piano di sincerità totale, seppure ancora ‘rappresentativo’, ‘figurativo’. Colgo l’occasione pubblica per dire che non scriverò più poesia o almeno poesia come ho scritto sinora. Tre libri sono abbastanza. I miei maestri attuali sono Wittgenstein della teoria dei giochi linguistici e Lucio Fontana. Vorrei dei buchi e dei tagli sul foglio, vorrei arrivare a dei concetti poetici, come Fontana elaborò dei concetti spaziali. Ma come è difficile scrivere qualcosa di rigorosamente nuovo!
Se ti conosco bene, tu ci riuscirai.
Per me la poesia di Paolo Gera è una poesia nomade oltre che colta e contemporanea. In questa sua trilogia, che ho letto con passione e curiosità, ho viaggiato nel mito antico, nei labirinti di tutte le guerre, nei deliri psicotici della mente umana, nel presente esploso come una lenta atomica più di un secolo fa. Paolo ha anche scritto per comunicare, uscire dalla politica virtuale e tornare a sporcarsi le mani tra le borgate sempre più abbondanti. Credo che il suo percorso di poeta di lotta non finisca o non debba finire. Sta anche a noi scrivere, uscire, dare battaglia di resistenza…di azione-comunicazione.