BIENNALE D’ARTE 2019/20-Adriana Ferrarini: LA LETTERA DI GANDHI A HITLER. Padiglione India

Jitish Kallat letter- 2012

 COVERING LETTER, 2012, di Jitish Kallat

Lo spazio è buio. L’unica luce viene dallo schermo su cui molto, molto lentamente scorre una lettera scritta a macchina il cui bianco si riflette sul pavimento. I piedi dei visitatori calpestano quindi le parole che anche sullo schermo risultano confuse, smaterializzate nella parte inferiore da una nebbia che scorre incessante e ne cancella le ultime righe.
“Caro amico, 
degli amici mi hanno esortato a scriverle  per il bene dell’umanità… “ 
Così inizia la lettera, datata il 23 luglio del 1939 – quindi poche settimane prima dello scoppio della seconda guerra mondiale – scritta da Gandhi a Hitler per scongiurare una guerra che avrebbe ridotto l’umanità al suo stato selvaggio. 
“Io resto/il suo sincero amico”, così si chiude la lettera e sotto la firma: Gandhi, verso la quale qualche visitatore allunga la mano, ma che tutti stanno bene attenti a non calpestare. In un’altra lettera, scritta l’anno successivo, quando ormai la guerra è in corso, ancora a Gandhi si rivolgerà ancora a lui con le parole “caro amico”, ma aggiungendo subito sotto, “Io non ho nemici”.1

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Da alcuni anni era nota l’esistenza di questa lettera, ma l’installazione dell’artista indiano, Jitish Kallat, ce la presenta con una straordinaria forza di suggestione proiettata così in una piccola aula buia posta – ma io direi  meglio, custodita – all’interno del Padiglione dell’India, che celebra i 150 anni dalla nascita del Mahatma. 
Tutte le opere qui esposte sono dunque un’espressione dei “valori universali gandhiani di verità e di non violenza, di compassione verso i propri simili e verso la natura, di autosufficienza, semplicità e sostenibilità”(cito le parole di Nirupama Kotru, segretaria del Ministero della Cultura). E, come nel peribolo dei templi greci, si snodano attorno a quest’aula chiusa che custodisce le parole di Gandhi.
Mi soffermo solo su tre di queste che mettono in scena in modo poetico oggetti legati al corpo umano e alla sua fragilità, siano queste protesi, o impossibili armature, o poveri zoccoli. 

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Broken Branches, 2002

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I “RAMI ROTTI” di Atul Dodiya

“Broken Branches”, “Rami rotti” è il titolo suggestivo dell’istallazione che accoglie il visitatore all’ingresso: una serie di vetrine che, per il color seppia degli oggetti in essi esposti, sembrano teche di vecchi musei delle scienze naturali. In realtà questi armadi riproducono esattamente quelli del museo di Kirit Mardir a Porbandar, dove Gandhi è nato, ma qui le vetrine non conservano suppellettili e foto del Mahatma, bensì, oltre a fotografie sbiadite dal tempo, e ad attrezzi di lavoro del padre dell’artista, delle protesi artificiali: gambe e braccia di legno e di acciaio, stampelle che rimandano a corpi mutilati, quindi a guerre e violenze. In cima alle vetrine, simbolicamente, le immagini di uccelli che non possono posarsi sulla parte superiore dell’armadio, perché inclinata, raffigurano anime senza dimora.
Il lavoro è stato realizzato da Atul Dodiya, uno dei più famosi artisti indiani post-coloniali, nel 2002, dopo le rivolte del Gujarat durante le quali furono uccisi centinaia di musulmani ed induisti. 

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Of bodies, armour and cages, 2010-12

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I CORPI, LE CORAZZE, LE GABBIE di Shakuntala Kulkarni .2

Shakuntala utilizza il vimini, abitualmente usato per realizzare cesti, sedie ed altri oggetti di uso quotidiano, per creare invece corazze e elmi, oggetti nati per proteggere la vulnerabilità del corpo, ma che in realtà lo imprigionano.
Con quest’opera l’artista indiana riflette sul bisogno di protezione del corpo umano che è all’origine delle armature e sulle conseguenze che questo ingenera. Particolarmente esposto alla violenza in quest’epoca di conflitti e di tensioni e di cambiamenti è il corpo femminile e le creazioni dell’artista sono in effetti deliziose fantastiche gabbie che sembrano riprodurre in filigrana le forme di sontuosi abiti femminili, crinoline ottocentesche, ma anche costumi di danzatori del teatro Katakhali. L’artista si è ispirata alle maschere Naga, come alle gonne ricamate del costume tradizionale di alcune regioni dell’India e ad altre svariate tradizioni. Nelle foto lungo le pareti lei li indossa davanti a templi o in luoghi urbani, camminando per strada, uscendo da una parte: le danno un’apparenza clownesca, che ricorda vagamente le marionette futuriste, per la rigidità cui il suo corpo è costretto.
Un corpo protetto da un’armatura estende infatti la sua capacità di difendersi e di colpire, ma il corpo paga questa protezione con la libertà, ci dice l’artista. Così, possiamo aggiungere, le complicate e rigidi vesti femminili delle epoche passate, i corsetti mozzafiato, i verdugali, i collari hanno limitato la libertà di movimento e di espressione  delle donne in ogni campo. 

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Naavu (We together), 2019

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NAAVU (WE TOGETHER)  di GR Iranna. 3

Naavu, Noi insieme espone centinaia di padukas, antica tipica calzatura indiana, costituita da una suola in legno con un pomello che sta fra l’alluce e il secondo dito. La suola, a forma di impronta, tradizionalmente poggia su due trampoli alle estremità per evitare di pestare casualmente creature viventi, siano questi animali o vegetali. Sono per questo un simbolo della non violenza e perciò indossati da santi induisti e buddisti. Un tempo di materiali diversi, anche molto pregiati, oggi sono indossati solo dalla gente più povera. Proprio per questo sono stati scelti da GR Iranna, perché legati a un mondo contadino e povero e ai valori della non-violenza e della fierezza delle proprie radici predicati dal Mahatma. Gandhi percorreva ogni giorno 20 chilometri a piedi durante i 40 anni dalla fondazione del suo movimento per l’indipendenza e l’idea alla base di questa installazione è quella di camminare con lui, in senso spirituale.
Centinaia di padukas, tutti uguali, ma ognuno diverso: uno ha incollato un pennello, un altro una lingua in legno rossa, un altro un bracciale di sonagli o un piccolo tamburo, oppure ha infilzata una forbice o magari è stretto in una morsa. Ognuno simbolo di una vita che in quell’oggetto trova il suo significato: la danzatrice, il suonatore di tamburo, il barbiere. Tutti incollati alla parete, come un fiume che si ingrossa, cresce, una moltitudine che si assiepa, un nugolo, uno sciame, una scia inarrestabile di piedi in marcia che, scandita dalle colonne dell’arsenale, guida il visitatore verso l’uscita.
In cammino. Insieme. Questo sembrano dire i padukas di GR Iranna, ognuno con le sue ragioni e la sua storia, per diventare tutti come Gandhi. 

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Adriana Ferrarini

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Note al testo

1 Nel video di cui si riporta il link l’artista spiega il significato della sua installazione, Covering Letter, 2012:
https://www.youtube.com/watch?v=r66D1IeGHO8

2 Il sito dell’artista presenta immagini e video dei suoi lavori precedenti e successivi a quello presentato alla Biennale
http://shakuntalakulkarni.com/

3 Nel video, al link riportato,  l’artista spiega in modo molto chiaro ed eloquente il senso di Naavu, 2019:
https://www.facebook.com/KiranNadarMuseumOfArt/videos/g-r-irannas-naavu-we-together/1022299301309498/

 

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