L’OCCHIO ALLA FINE DEL CANNOCCHIALE…- Milena Nicolini: La pacchia del dono.

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Con parole mie, che cercherò di ricalcare il più fedelmente possibile sulle sue, riporto un racconto che mi è stato fatto da una donna di 73 anni, che chiamerò Elisa, di una piccola città dell’Emilia. Elisa è benestante sì, ma non ricca. Non è cattolica praticante, non fa parte di associazioni di beneficenza, il suo cuore è naturalmente aperto al bene.

70 ragazzi neri provenienti dalle zone sudsahariane sono arrivati da Palermo, dopo essere sbarcati sulle coste siciliane, in Emilia Romagna, con una corriera notturna; alcuni sono stati accolti in una cittadina emiliana, collocati dalla cooperativa di assistenza sociale in piccoli hotel. La quota-spesa a disposizione della cooperativa, comprensiva di vitto, alloggio, abbonamenti per mezzi pubblici, e la pocket-money a disposizione di ogni ragazzo per le sue piccole spese (2 euro al giorno), è stata inizialmente di 35 euro e poi è scesa a 24, dopo gli ultimi provvedimenti. Essendo necessario insegnare i primi rudimenti della lingua italiana, un gruppo di volontari, tra cui Elisa, si è preso l’incarico, utilizzando locali messi a disposizione dalla parrocchia, con incontri bisettimanali sia per anglofoni che per francofoni. Durante le lezioni, tramite un questionario, è emerso che alcuni dei ragazzi avevano svolto ai loro paesi attività sartoriali. Allora Elisa, avendo una lunga e quotata esperienza di imprenditrice tessile, si è offerta di aprire  un laboratorio per realizzare capi di confezione (pantaloni, gonne, magliette, felpe, e accessori), che avrebbe consentito di perfezionare la conoscenza tecnica sartoriale dei ragazzi coinvolti (ad esempio, imparare a lavorare su modelli di carta a cui non erano abituati, rispettare le tabelle delle misure, curare le rifiniture),e insieme di dare spazio ad una propria creatività per potere arrivare alla preparazione di una vera collezione organica ed originale. Il laboratorio necessitava di macchine da cucire lineari, di taglicuci, di vari kit completi di forbici, metro, gessi, squadre, carta da modello, filo, cerniere, ecc; oltre alle stoffe offerte, occorrevano soprattutto tessuti con disegni originali africani, per dare una connotazione propria alla collezione. E’ stato inventato un logo, una presentazione grafica (cartellino ed etichetta), tutti elaborati dai ragazzi. I quali erano 7, di cui 2 stilisti molto creativi ed originali, 3 sarti abbastanza capaci, e 2 sarti ausiliari. Ancora in locali della parrocchia, il laboratorio è stato allestito con macchine da cucire regalate, anche per l’importante mediazione di un sacerdote molto sensibile al problema dei migranti. Elisa ha messo a disposizione due taglicuci e 2 macchine da cucire, nonché il denaro e il tempo necessario all’inizio per cercare e comprare i tessuti nei negozi etnici. Il laboratorio è partito con due incontri settimanali  di 4 ore ognuno, con 7 ragazzi che chiameremo coi nomi di fantasia: Massi, Seidù, Mamadù, Salif, Founeké, Karanoko, Scheic. Alla produzione (che ha realizzato due collezioni estive ed una invernale) dovevano seguire le vendite che erano previste due volte l’anno in spazi di pertinenza della parrocchia e del negozio equosolidale, perché le complicate e burocratiche pratiche per potere accedere ad una normale vendita su bancarella nei mercatini rendevano impossibile l’integrazione. La vendita avveniva a scopo benefico e non di profitto, e gli introiti, detratte le spese e piccolissimi compensi ai ragazzi, andavano alla parrocchia per compensare la disponibilità degli spazi assegnati. Fino a questo punto il laboratorio era come un corso di specializzazione. In seguito, avendo le collezioni riscosso molto successo, interesse, attenzione, si è pensato di continuare l’attività. Ma subito si sono frapposti enormi problemi burocratici e legali. E’ stato necessario trovare un’associazione che potesse regolarizzare e certificare ogni vendita, sotto la cui egida continuare l’attività. E’ stato chiesto al Comune il permesso di occupare spazio pubblico per la vendita e così per altre due volte è stato possibile allestire con successo una bancarella, con contorno di sfilata e danze etniche, molto apprezzate dal pubblico. Si può dire che il logo, lo stile, la creatività dei ragazzi aveva quasi sfondato. Senonché: per ragioni legislative il ricavato delle vendite restava tutto all’Associazione che aveva dato il suo sostegno; si manifestava in modo neanche troppo sotterraneo l’ostilità degli altri bancarellisti, preoccupati di un’eventuale concorrenza; alcuni dei ragazzi, intanto, per ragioni organizzative, venivano spostati in appartamenti di altri luoghi, anche molto lontani dalla cittadina del laboratorio. Inoltre il laboratorio stesso era stato avviato più con scopi di aggregazione e insegnamento professionale che di possibile sbocco di lavoro: era chiaro che i ragazzi puntavano ad un lavoro con prospettive più solide. Infatti, sempre più spesso, sia per le notevoli distanze da percorrere in bicicletta anche col freddo invernale e la pioggia, perché i mezzi pubblici troppo cari per loro; sia per prime esperienze – pur sporadiche – di lavoro, facevano frequenti assenze. L’imprenditrice ha capito, ad un certo punto, che l’esperienza non poteva proseguire ed il laboratorio è stato chiuso., con grande dispiacere dei ragazzi e – va rimarcato – di molti clienti. In compenso non è stata un’esperienza infeconda: il gruppo dei ragazzi è rimasto unito in amicizia, nonostante le diverse dislocazioni di abitazione e di lavoro; Elisa e le amiche che hanno collaborato con lei sono rimaste in contatto con loro. Elisa in particolare ha regatato le sue due macchine da cucire ai ragazzi che meglio potevano ricavarne un introito,  va spesso a fare la spesa – che quasi sempre paga personalmente – con loro, ha dato e dà assistenza ad uno di loro che ha subito un pesante intervento ospedaliero, è sempre disponibile per consigli, informazioni, problemi da sbrogliare ( ad es. trovare avvocati volontari per aiuto nel rinnovo del permesso di soggiorno, trovare un dentista disponibile a curare gratuitamente un’infezione dentaria; ma anche finanziare l’acquisizione della patente di guida per un ragazzo che ha bisogno di più opportunità, essendo fisicamente in condizioni più deboli). Inoltre, ogni tanto, si ritrovano a casa di Elisa con le sue amiche per un pranzo collettivo dove i ragazzi cucinano le loro specialità africane: il che significa, al di là del gioioso incontrarsi, per ognuno di loro, disponibilità ad andarlo a prendere e riportarlo a casa con l’auto. Ogni tanto Elisa anche, quando può, dà loro venti euro a testa. Ma l’importante su tutto è che il rapporto non si sia rotto, che i ragazzi, tramite Elisa abbiano acquisito una grande fiducia in sé e nell’Italia, che tanti abbiano imparato ad apprezzare l’originale creatività degli ‘africani’. I ragazzi sono sempre molto gentili e attenti con la ‘maestra’ e le sue amiche; inviano messaggi affettuosi anche senza chiedere niente; tengono contatti regolari come fanno figli e parenti. Intanto la cooperativa sociale, dopo la nuova normativa sull’immigrazione voluta dal governo, non è più in grado di compensare come prima gli insegnanti di lingua, i medici per l’assistenza sanitaria, ed i ragazzi faticano ad arrangiarsi, anche in mancanza di un permesso di soggiorno che permetta di accedere ad un lavoro abbastanza regolare o duraturo. Sono praticamente allo sbando. Elisa li va a trovare a casa, magari quando, mettendo insieme i 10 euro settimanali che hanno a testa per mangiare, hanno comprato pacchi di riso e di ali cinesi di pollo congelate, che, per cucinarle, devono sbattere di qua e di là per separarle. E a volte finisce in un turbinio di ali risorte che volano per l’appartamento. Ridono. Elisa crede, spera che ce la faranno, perché, dice, hanno una grande energia positiva che trasmettono, sono contenti di stare qua, in Italia, tanto che rifarebbero comunque il loro terribile viaggio, nonostante tutto quello che hanno patito. Perché è la loro sola speranza. Massi, Seidù, Mamadù, Salif, Founeké, Karanoko, Scheic hanno alle spalle storie davvero orribili, di cui pudicamente poco o a pezzi hanno raccontato alla loro ‘maestra’ Elisa: oltre la sofferenza, la disperazione dell’abbandono delle loro famiglie, case, paesi; oltre le paure, le angosce, i pericoli nell’attraversamento del deserto, poi nell’inferno delle botte e delle torture nei campi di raccolta libici, dove sono stati picchiati, violentati, ricattati economicamente e obbligati a spremere il denaro del riscatto alle loro famiglie; e poi infine quell’imbarco folle, a cui non potevano rifiutarsi pena l’essere ammazzati, lì, sul bagnasciuga, nonostante fossero palesi le disastrose condizioni dell’imbarcazione o del mare.

Questa è la pacchia che deve finire. Non tanto quella gradevolezza paciosa  di cui godono gli immigrati e le cooperative e le parrocchie che li aiutano. Io credo che la pacchia più fastidiosa, da far cessare, per chi questa battuta s’è inventata, sia quella di persone come Elisa. Così buoniste da far venire il voltastomaco ai bravi cittadini orgogliosamente italioti, e così mielose mentre stanno a godersela nell’aiutare  gli extrà.

Anche qui, in questa storia, di nuovo, l’economia del dono contro l’economia di scambio capitalistica. Innanzitutto vorrei precisare che nel concetto di dono deve rientrare anche la capacità di vedere, riconoscere il bisogno dell’altro nella sua compiutezza e non solo in superficie. E, se possibile, dovrebbe entrarci anche il conseguente tentativo di risolvere il bisogno al livello migliore, più completo. Un esempio preso da questo racconto: Elisa non si limita a tenere un laboratorio di ‘cuciture’, ma cerca di dare le dritte per una abilità abbastanza completa nel confezionare un indumento ben tagliato, rifinito, originale. Qualcosa in più che un giorno potrebbe essere utile ad un qualche Seidù per proporre una produzione propria, da una parte soddisfacente le esigenze del nostro mercato, nonché dall’altra una orgogliosamente sua africana originale creazione. Così il dono delle due macchine da cucire, alla chiusura del laboratorio, non ha certo il senso di un cadeau-remember, quanto quello di un prevedere possibili momenti di difficoltà in cui essere in grado anche solo di fare orli o riparazioni potrebbe costituire la differenza tra mangiare e digiunare. Poi ancora vorrei sottolineare qualcosa che forse dal suo racconto non è emerso abbastanza: nel dare il suo tempo e la sua esperienza Elisa non è stata reticente di ascolto delle loro storie, rispettoso sempre l’ascolto (se non volevano raccontare certe esperienze, lei sapeva ritrarsene), e si è aperta con reale interesse alle loro  problematiche, arrivando a scegliere con oculatezza e non casualmente chi, come e quando aiutare per un effettivo guadagno di vita (assistenza per l’intervento di uno, la promozione dell’abilità sartoriale di un altro, il supporto per la potenzialità di una patente di un altro ancora), guardando differenze essenziali e non malevoli, sorvolando su superficiali uguaglianze d’apparenza, a meno che non si trattasse di cibo. Elisa è una donna di grande saggezza, saggezza ben più umana di quella drastica del re Salomone, forse perché è semplicemente la saggezza di chi, nella sua capacità di guardare da donna all’economia della casa, sa tener conto di tanti pro e contro, attuali e venturi, fisici e psicologici, del reale e del possibile. Elisa è anche una donna che sa amare e dare senza i tratti della beneficenza esibita, forse perché spesso non si rende conto di quant’è grande quello che fa. E’ un amare contagioso, che insegna a fare altrettanto (e non sto parlando di un ricambiare, di una restituzione).

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E’ vero che, se fosse stato burocraticamente possibile, il laboratorio avrebbe affrontato più frequentemente  il normale scambio commerciale dei mercatini, tendendo ad un guadagno che permettesse il giusto compenso ai ragazzi coinvolti; ma, comunque, il modo di proporre la ‘merce’ era e sarebbe stato differente, perché manteneva al suo fondamento altre ragioni che il profitto: i ragazzi studiavano gli inserti da mettere negli indumenti  come disegni, dipinti; cercavano i tessuti coi colori, le stampe, i segni che fossero speciali, cioè che dicessero ‘Africa’, cioè che proponessero con dignità e autonomia la cultura di cui erano portatori, porgendola, alla pari, a chi, comprandola, avesse voglia di leggerla, vederla, stupirsene, rispettarla. Poche volte mettevano da parte un’idea perché troppo costosa per il profitto eventuale. Anche le ore di lavoro e rifinitura non erano contate in base al calcolo normale del prezzo: in fondo il loro offrire belle cose coi segni della loro cultura ad un modico costo era un dono. Uno di quelli che abbiamo disimparato a leggere, abituati come siamo a correre dietro a sconti, offertissime e occasioni imperdibili, sempre debitamente organizzati nella logica ferrea del mercato capitalistico. Il lavoro di questi ragazzi mi ricorda quello degli abilissimi artigiani di una volta, quelli che non diventavano potentissime griffe, ma più spesso vivevano di un pochissimo che ricevevano in cambio di prodotti splendidi: mia madre era sarta, era bravissima, creativa, originale. Giornate e giornate piegata sulla macchina da cucire, fino a diventare lei stessa curva come un gancio. Anche ai ricchi – la cercavano in tanti per la sua abilità – non chiedeva mai molto e ai poveretti faceva le cose per un’anguria, una stiratura di bucato, una torta. Lo so, contro ogni logica di classe e di mercato, ma a lei, la cosa che più le interessava era che quei pantaloni cadessero così bene, che quel cappottino rivoltato sembrasse nuovo, che la bimba al matrimonio sembrasse la più bella. Certo, anche che si dicesse il suo nome accanto al vestito. Ma questo io non lo sento né una forma di restituzione forzata, né di un interesse egoistico nel suo donare, perché, sì, il suo era un donare il suo talento a tutti.   

So perfettamente che questi miei interventi sull’economia del dono sembrano cose da favolette, impraticabili, inutili, anche patetici. Eppure, quando infine la crisi globale di un sistema porta solo alla distruzione di risorse, allo spreco dell’energia umana e naturale, alla sopraffazione violenta da parte del piùforte, piùricco, piùbianco, piùegoista, piùminoritario verso tutti quegli altri ‘meno’, mi sembra opportuno ricominciare a pensare, immaginare, proporre, anche l’impensato, l’anormale, l’utopico in fondo, come ci hanno insegnato i maestri da Platone a Moro a Muraro.

Vorrei segnalare intanto due bellissimi testi che tanto sono capaci di dire del nostro oggi:

Luigino Bruni, Capitalismo infelice, Giunti e Slow Food Editore, 2018

Benedetto Saraceno, Psicopolitica. Città salute migrazione, Derive Approdi, 2019  

 

Milena Nicolini

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