david ho
“Persona”è la maschera dietro cui ci nascondiamo, o celiamo, o (ci) manifestiamo in una recita, una messa in scena, le nostre verità, le nostre paure o i pensieri con cui ci (com)misuriamo con gli altri, anch’essi persone. Cosa ne viene fuori, se tutto è recita e tutto si con-figura in quella messa in scena allestita per nasconderci, il più delle volte? Come possiamo raggiungere gli altri, come possiamo liberarci davvero delle nostre paure se non le comunichiamo uno all’altro? Hannah Arendt, in un testo che ricorda l’origine e la divulgazione di questa parola, afferma che “rimane pressoché immutata in tutte le lingue europee, con la stessa unanimità con cui, ad esempio, la parola «politica» è stata mutuata dal greco ‹polis›. Non è certo privo di significato che una parola tanto importante del vocabolario odierno, una parola usata in tutta Europa per discutere di faccende giuridiche, politiche e filosofiche, derivi da una stessa fonte antica. E come se, in effetti, in questo antico vocabolario vibrassero accordi destinati a risuonare poi, con diverse modulazioni e va-riazioni, in tutta la storia intellettuale dell’Occidente.(…)‹Persona›, in ogni caso, definiva originariamente la maschera che ricopriva il volto «personale» dell’attore e serviva a indicare agli spettatori quale fosse il suo ruolo nel dramma. Nella maschera, imposta dal dramma, c’era però una vasta apertura, più o meno all’altezza della bocca, attraverso cui la voce dell’attore poteva passare e risuonare, nella sua nuda individualità. Ed è proprio da questo «risuonare attraverso» che deriva il termine persona: il ‹verbo per-sonare›, «risuonare attraverso», è quello dal quale deriva infatti il sostantivo ‹persona›, «maschera». I romani furono i primi a usare il termine in un senso metaforico: nel diritto romano, ‹persona› indicava chiunque fosse in possesso di diritti civili, a differenza del semplice ‹homo›, che designava un membro della specie umana, diverso senz’altro da un animale, ma privo ancora di una specifica qualifica o distinzione – ragion per cui ‹homo›, come il greco ‹anthropos›, veniva anche usato con disprezzo per designare quanti non godevano di protezione giuridica. (…)La maschera romana descrive con grande precisione il nostro modo di apparire in società, quando non ci presentiamo in veste di cittadini nello spazio pubblico riservato alla parola e all’azione politica, ma siamo invece accettati a pieno titolo come individui, senza ridurci per questo a semplici esseri umani. Noi tutti appariamo sempre sul grande palcoscenico del mondo venendovi riconosciuti per il ruolo che la professione ci assegna e prescrive, in quanto medici o avvocati, autori o editori, insegnanti o studenti, e così via. Ma è attraverso questo ruolo che qualcosa di diverso si manifesta, o che qualcosa «risuona attraverso». Questo qualcosa è assolutamente idiosincratico e indefinibile, eppure è facilmente identificabile. Per questo, non veniamo confusi con altri quando i ruoli improvvisamente cambiano; quando per esempio uno studente riesce finalmente a diventare un insegnante; o quando quella tale ospite da cui ci troviamo, di professione medico, ci serve da bere invece di curarsi dei propri pazienti. In altre parole, il concetto di ‹persona› ci consente di vedere e capire – è questo il profitto che io qui tendo a trarne – che i ruoli e le maschere che il mondo ci assegna, e che noi dobbiamo accettare e perfino guadagnarci per prendere parte alla grande commedia del mondo, sono scambiabili. Non sono inalienabili, nel senso in cui si parla di «diritti inalienabili», non sono una maschera incollata al nostro volto, non sono tratti specifici del nostro io piú intimo, nel senso in cui la voce della coscienza – come in molti ancora credono – può essere un tratto specifico della nostra anima.” [Da Hanna Arendt, “Responsabilità e giudizio”- Einaudi 2004, ‘Prologo’ pp. 10 – 12.]
E oggi la situazione è davvero diventata insostenibile, oggi l’individuo è la frammentarietà di una pluralità che non si vede mai per intero, non sa quale sia la sua sostanza, non sa cosa sia davvero la vita, scambiandola per una recita continua, una speciale risorgiva.
E’ una inter-rogazione continua quella che ci rivolge questo libro, in cui il chiedere mette anche al rogo la storia, la nostra storia, attraverso momenti che sembrano non aver mai perduto, in ogni tempo, la medesima sceneggiatura da recitare, perché è l’intero corpo umano, individuato come collettività in ogni uomo, che viene interrogato ad ogni riga-rogo e logo che brucia chi ascolta. Logos, la parola che ci scambiamo e siamo noi, il luogo che abitiamo, cosa raccoglie e offre del nostro essere con e tra gli altri? E, non a caso penso, la dedica di apertura della raccolta di Filograna è rivolta ai mendicanti, detti anche “questuanti”, anch’essi ri-chiedenti, interroganti, gli esclusi dalla società del bene-essere.
E’ questo paradosso che denuda la nostra contemporaneità, l’agio, con cui crediamo di vivere, separati da tutto ciò che è fuori, che mettiamo al portone ma non finisce di portarci assillanti interrogazioni, proprio come in questa raccolta, a battente, sulla porta di ognuno di noi, come la riva del mare che non finisce mai di portare tra noi quanto è stato buttato, in un altrove affatto lontano.
Fernanda Ferraresso
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david ho
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Testi tratti da P E R S O N A di Fausto Paolo Filograna
a tutti i mendicanti
parte prima
Laudato sie, mi’ Signore, cum tucte
le tue creature, spetialmente
messor lo frate sole, lo qual
è iorno, et allumini noi per lui.
Francesco d’Assisi
I
Eravamo a Gallipoli notte piena
eravamo pochi e bianchi faceva freddo
non ho voglia di mangiare questa notte
eravamo suicidi e battezzandi
attraverso la strada principale si arriva presto
fiammelle sopra la spiaggia fino a chilometri dal mare
la bionda seduta è vestita uguale all’altra
e ha gli occhi di un uomo morto
fermate la bionda non sopravvivrà
ha gli occhi di chi se lo prende il mare
un tizio con una torcia è messo a scacciarci
siamo troppi e puri come bestemmie
siamo santi e tutti troppo prossimi alla morte
un’estrema pulizia regna incontrastata tra gli ombrelloni e il mare.
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Una città ci deve essere
Ma una città ci dev’essere
e dal mare merita un excursus.
Insegne a forma di croce ne diffondono la luce intermittente
la città ne vive illuminata a volte sì e a volte no
– e nel complesso no –.
Un tizio un girovago solo intuìto dai passi
o solo immaginato incedere, qualcuno
con scarpe leggere passa sulle macerie
e rotola, coi piedi, o con le scarpe
pietre sulla strada di pietre
piedi bianchi che possiamo solo intuire
strada nera che possiamo soltanto immaginare
scostano e fanno rotolare
pietre e caclinacci e i ferri
dei lavori incompiuti e lasciati lì senza nome.
Resti dell’acqua
di quando c’era l’acqua
questo è quello che fa l’acqua: portare
restare
senza esserci più.
Non c’è bisogno di immaginare luoghi, antiche regioni
cantieri abbandonati, desolazioni
residui del mare è soltanto
terra, visitata durante una stagione estiva
e abbandonata sotto i vestiti delle donne
andate, e ancora immaginate
svestirsi e rivestirsi dopo un bagno
e lasciare ciò che erano e andare via
come se ne vanno i serpenti
terra
tanta, morta soltanto perché visibile
terra con non più acqua
nata (ma sarà
poi vero?) per morte.
Il mare ha lasciato carte di consumazioni e manciate di ossa
da calciare e spostare con la punta della scarpa. Vieni
guardiamo meglio
non ci è rimasta
che simbologia
e l’importanza
del nome. Il tempio
è rovesciato.
Gli atridi piangono le colonne.
Dio se n’è andato.
Questo cumulo di ossa
questa volta chiamiamolo madre
perché con amore va guardato.
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Vita senz’acqua
Vita senz’acqua
dove c’era acqua, dove c’era un fiume, o forse –
e più probabile –
il mare. Il mare, nella sua Onnipotenza
dominava su tutto.
Magari
non essere più
niente se non qualcosa, qualcosa
se non niente come questa città
ricordata solo per essere ciò in cui una volta
c’era il mare
come la donna che piange ad un angolo
e forse urla senza definizione
con la mano capiente per contenere…
l’essere, probabilmente, e poi
dimenticarsene. In questa città
c’era il mare, dove ora sono ossa
e manciate di respiro di Dio,
da amare solo per amore
(di Dio).
Strade strade strade, viste una volta
nell’aprirsi di un sole mattutino, marmi
come corpi fuoriuscenti dall’acqua bagnati
vivi solo della loro splendente impermeabilità.
Immagini ripeterla fino al cuore, uguali superfici
ripetere se stesse – se fosse un cuore
marmo e superficie, in perfetta continuità
un David riemergere dalle acque, in perfetta
ripetizione di sé un cuore di pelle risplendente col
[nome di strade
«questa strada la chiamerete
la strada che ha contenuto Dio».
Questa città ha unito il tempo
questa città la chiameremo brocca
perché il mare ha contenuto.
Alla domanda: di una brocca
pròvati a dissetare
non risponderemo.
(E della divisione
fece supremazia.)
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Ricordo di spessore
Vita è violenza di immaginazione
o solo ricordo
e qui, sulla via del mare
solo una foto emerge tra i calcinacci. Le pietre
non scoprono gli occhi
e tutto è ciò che è solamente. Non qui
non qui si può volare dal mondo, non
qui riemergere o spirare, qui
sarebbe già troppo
immaginare.
Tutto questo spazio
non è che arbitraria voglia di danzare,
volare tra i crocicchi in assenza di peso
ma ci vogliono ali, ci vogliono gambe a danzare
e ci vogliono occhi, almeno
dotati di gambe; la luce
non è che luce, di stelle o vetrine
e una danza, in definitiva, non attraversa la strada:
puoi solo immaginare
ciò che vive in assenza, la danza di foglie
che non avviene
dalla schiera dei caseggiati
a quella di fronte. Qui
non emerge che una foto,
nella luce impossibile e forse
ricordo di stelle lontane. Le pietre
ne sconvolgono il volto, ne nascondono gli occhi
abbreviati e forse stesi
come guardare in alto l’uomo
che ti sotterra.
Così leggemmo scritto su una targa ciò che non ha occhi
non chiamarlo volto
è ciò che è solamente
come un’automobile che, spiegando le ali
non si riesce ad alzare.
Così gli occhi non sporgono a scostare le pietre
ciò che è è solamente
sotto le macerie appena la metà
e il resto
è solo ricordo
e voglia
di religione…
È solo violenza l’umano
prevaricazione o eccessivo sforzo,
in fin dei conti fraintendimento.
Colore sbiadito, o foglia
che si posa su un volto ghiacciato
senza per questo farne un albero.
Trasparenza in fin dei conti
senza corpo da trasparire
luce, ricordo travolto di luce
luce che non può nutrire, luce
soltanto. Miracolo
è la trasparenza. Le insegne religiose delle discoteche
ne diffondono le intermittenze
e tutto è ciò che è solamente
luce
e ricordo di spessore. Qualcosa
color ametista.
Pietà Signore, pietà.
Una città ci dev’essere, e questa
ha conosciuto le tenebre delle vetrine
il silenzio delle croci disabitate da anni e mai
rinfrescate da un corpo
e qui, definitivamente chiamate
strade.
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david ho
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V
Questa città non ha tendini
e si può solo immaginare
o ricordare
un po’ di pelle.
FATE PRESTO SI CHIUDE
un girovago Prometeo
senza scarpe
tira i calcinacci
senza coscienza, senza rumore
rotolano le pietre senza eco
senza verificabilità, mentre noi
così morti di vita
giungiamo verso il mare dalla strada
la stessa per andare e tornare
senza coscienza, e
si potrebbe dire dormendo –
ma non è così.
Fermate la bionda
non sopravviverà
Eravamo a Gallipoli notte piena
eravamo pochi e bianchi faceva freddo
non ho voglia di mangiare questa notte
eravamo suicidi e battezzandi
attraverso la strada principale si arriva presto
fiammelle sopra la spiaggia fino a chilometri dal mare
la bionda seduta è vestita uguale all’altra
e ha gli occhi di un uomo morto
fermate la bionda non sopravviverà
ha gli occhi di chi se lo prende il mare
un tizio con una torcia è messo lì a scacciarci
siamo troppi e puri come bestemmie
siamo santi e tutti troppo prossimi alla morte
un’estrema pulizia regna incontrastata tra gli ombrelloni e il mare.
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parte seconda
non riesce il mio spirito a spostarsi senza sostegno
lei è i miei occhi Edipo
lei è il mio corpo Edipo
prendete e mangiatene tutti prendete
e mangiatene tutti prendete e mangiatene
tutti
Ti dedico la grandezza
che non ho. Quando il pensiero non vola, le parole
non sono una danza e tutto
sta in un riposo da nulla
nella notte che non è riposo dal giorno
né attesa ti penso, amore mio
e ti dedico il nulla. Il pensiero legge seduto
e mi inforca
come un paio di occhiali, vorrei
dirti l’amore che sento in questa paralisi
senza bocca seduto al balcone a questo paralitico
cenozoico
di albe ripetute a notti e notti.
Datti calma, fa’ silenzio, ascolta
un concerto di odori si espande
blu, verde, giallo
il canto dei colori – albeggia
tra i monti tra gli alberi – e fende lo sguardo
e l’immobilità. Dove tu sei
dove tu sei
un intrico di ruote si spagina
l’universo brancolando tenta nuovi
uguali cicli e l’alba
il sole in una distrazione di hangar
ci promette l’eterno. E noi?
Io tento una vita,
un nome a giorni innominabili
tento di alzarmi e di dire «…
…» vorrei
sorriso millenario rivolgerti mille parole
non c’è secolo per questo fastidio
né giorno che viene né notte che passa
c’è che a volte seduto al balcone mi sento fissare. Sento
l’enorme marchingegno guardarmi
non mutare mai da un tramonto
due cariatidi sembriamo, sprezzare il vento
la pioggia i fulmini, io con occhi
e tu no, mentre qualcosa dice
non finirà mai tutto ciò
finirà la carne
lo spirito
ma la volontà l’altezza io penso
a un risveglio, a un’alba
a un’aria freschissima e respiro l’immoto
svegliarsi delle cose e il mio
intentato, penso a un risveglio
a ipotesi e ipotetiche salvezze nell’alto
sospeso con uno sguardo a un balcone –
dalla bocca del mondo una lingua nel cielo –
è questo, mi chiedo? è questo il vento
della carne che soffia da dietro e mi spinge alle stelle?
Sentimi, amore che vai, pregherò
al Nord come l’ago di una bussola
con un corpo di albero sorriso dal vento
beato e immobile. È questo il nulla che sento
e mi ammala di me? miserere mei
me stesso, Fausto, miserere del nulla
del sonno, sogno
una luce impossibile rifarmi l’anima, fa luce
tra gli alberi, e una forza sovrumana
non sorge, Fausto, non è possibile
che la disperazione per noi. Sento un malessere
[sopra la pelle
uno sciame di strade che va perdendosi
e io mi chiedo dov’è dov’è, e mi risponde,
[l’impossibile stradario:
niente. Perché non più ritornare
non più ritornare è possibile – madre
da dove io uscii io torno. Nulla
sono, né sono stato né ho sperato di essere. Io penso
a un risveglio, all’infinito propagarsi dal balcone
gli alberi, al verde, senza muovermi dal mio balcone
– Arri arri cavalluccio, un canto si propaga
e induce al sonno, all’eterno, e dormo,
nato mai nato, senza azioni e senza sonno dormendo. Io penso
a un risveglio, io penso
e mi dico: “senza azioni non esisti
Fausto, tu sei quello che fai” e intanto si sfa l’ambaradan
universale, mentre tutto ruota
il disastro. E penso al freddo su Plutone
all’invivibile vita di noi, alle risse
delle mosche, tutto
ridicolo.
L’umanità litigherà anche stanotte, io
sono solo un individuo
che un insetto verrà a visitare con sguardo umano. Vieni
gran madre e vattene, lasciami solo, che dica: io ho fatto
io sono. Intanto sogno inondazioni, precipitazioni
terremoti e morti e morti,
tutto sa di nuovo
la pioggia, dal mio balcone
il disastro, l’odore
il tabula rasa universale. Scivola vai via, lasciami
fare,
morire. È tempo,
sono grande.
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david ho
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III
Stabat mater
dolorosa, iuxta crucem lacrimosa
dum pendebat filium
Questo è un pianto, o Iscariota,
che non conosce mutamenti, come noi
non conosceremo salvezza: qui
è possibile soltanto acqua
e sabbia
sabbia
e acqua.
Come dirti tutto, Alice?
Come dirti
niente? Mentre il sole tramonta
e chiudo la finestra per guardarti,
mentre il mare
urla là fuori e mi è indifferente
perché tu
sei qui.
E penso VITA, VITA, VITA
VITA VITA VITA
vita santa,
vita grande, vita immortale
vita spogliata,
malata, abnegata,
storpiata,
putrefatta. Ma l’uomo, ti dico
l’uomo
è un fascio di responsabilità.
Svegliati, Alice
da questo sonno io e te non usciremo, da questo sogno
cantilenante. Un canto di madri proviene dall’eterno
portando l’eco dell’imprimatur.
Come i preti che cantano Dio
esse cantano il pianto
senza secolo,
senza giorno. Noi
imparammo una sola stagione:
quella che è tutte le stagioni:
quella del grano maturo
e del grano mietuto. Tutte ridicolezze,
momentaneità. Viene il sonno
piano piano, viene scuro; forse
un giorno ci riuniremo
nell’invenzione di un passato
o di un futuro.
Ma questa volta chiamiamolo
responsabilità
Un rimasuglio di voce
ti arriva sbagliando incrociatore. Dici per sbaglio
è arrivato, non era per me, e intanto passa tutto
tutto passa e restano i miei errori
iuxta crucem
stabat mater.
Qualcuno guardandomi
penserà
in fondo è solo
un individuo.
E andrà via.
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Arri arri
cavalluccio, che stasera
viene papà, e ci porta nu bellu ciucciu
arri arri
cavalluccio.
Da una ninna nanna popolare salentina
Dopo mesi di ricerca nel campo della morale sono giunto a un bivio. Non a un bivio, anzi, ma a una constatazione. Volevo morire. La domanda sorge spontanea: come fa la morale a permettere ciò? Ho indagato molto, l’argomento, e di fatto, per ciò che concerne l’uomo e questa scelta, non c’è nulla da fare: la morale permette. Come uscirne dunque? Mi sovviene Cartesio, e la grande accusa che gli si è sempre fatta, che alla fine di un discorso metodologico e estremamente razionale egli tiri fuori un Dio. Lo stesso Kant e quant’altri. Non voglio mettere in mezzo dei o religioni, ma il limite che una mente eccezionale come quella di Cartesio aveva intuito nella scienza, e io dico qua della morale. Si arriva a un punto di necessità in cui l’uomo cerca il fondamento,la decisione prima, il genitore. Come in un testo scientifico si cerca il rimando bibliografico, per rimandare il fondamento a una causa antecedente. Ma di fatto, se io giustifico il mio pensiero con Kierkegaard, come giustificare Kierkegaard? Si arriva sempre di fatto a un arbitrato. “La filosofia è come una civetta, esce di notte quando tutti dormono”, comprese Hegel. Tornando al motivo iniziale cosa mi dice la morale di fronte alla domanda: perché continuare a vivere? Nulla. Ho cercato il fondamento della vita nella volontà di vivere, ma la volontà passa, e rimane il non-senso. Penso di essere giunto a un punto di non ritorno, perché la morale non è risolutiva. Bisogna uscire dalla morale, fino a che, se si è obbiettivi, si giunge a un punto di totale arbitrato, a un punto senza spiegazioni, ingiustificabile, assurdo, che riguarda l’eterno, l’immodificabile. Questo perché la morale è limitata e i suoi fondamenti sono nella necessità, nell’immodificabile. Eppure ecco il paradosso: la morale è un vincolo, è rigida, necessaria. Ciò che eterno invece è estremamente duttile. La moralità è condizionata dal desiderio, dal vivere comune, dall’avere uno scopo, un senso. Le cose immortali sono libere, perché insensate e arbitrarie. E bisogna tirarle fuori così, con naturalezza e senza spiegazioni. Qualunque discorso vitale a un certo punto deve tirar fuori le cose eterne, il tempo, le cose immutabili. Ma questa volta chiamiamole doveri.
P E R S O N A di Fausto Paolo Filograna – Ladolfi Editore