LETTURE DI UN TEMPO PRESENTE- Fernanda Ferraresso: Compiere la nascita, rinascersi in continuo

un tempo…una casa

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E’ un tempo senza cardini, sospeso nel nulla delle cose. Cose, tante, da comprare e da distruggere, cose da sostituire con altre, ugualmente fragili, ugualmente inutili, presto buttate tanto quanto si buttano quelle che diciamo amicizie, e sono in realtà festival di un io da vestire e spogliare, spesso da sgozzare.
E’ un tempo di sofferenza che si è creato codici per dimenticare in fretta, tutto quanto manca e ti scorda come uno strumento, che non suona nel corpo di un mondo freddo, pietrificato, addirittura invisibile.
Fra paura e desiderio vince la paura, unica a guidare il desiderio di (s)caricare cose su altre cose, erigendo muri altissimi, e distanza su distanza cancellando le impronte di dolore, la mancanza  per qualcosa di cui non si ricorda più che il nome, letto e riletto e allo stesso tempo non più chiaro, privo di qualsiasi senso.
Tempo di allergia alle norme e richiesta di leggi e regole più dure, per un tempo di crimini, non verso una generica umanità ma verso sé stessi sempre.
Non riconoscersi è il problema delle genti non di lenti adeguate per vederci.
Sentire! Ecco sentire è diventato un brivido leggero, che scorre sulla schiena, non visto un attimo di cui non si sa nulla, di cui non si comprende la provenienza. Stare alla deriva di sé, questo è il problema e galleggiare in un continuo maremoto di emozioni senza capo né coda, stimolati da una continua confusione di parole provenienti da ogni dove ma sorde, senza eco che perduri. Parole alla fine senza provincia e senza altra pronuncia. Parole che non annunciano e non sono messaggere. Parole nevischio di atomi che sconfinano lungo i bordi di un corpo che è coro e oro, dipinto con sintetici colori virtuali. Non hanno ali, non hanno fiato e la vita si smussa, si mozza, cade e noi a guardare, senza vedere. L’identità si configura con l’essere identico risultando alla fine un neutro, senza altra alternanza se non di corrente: accendere e spegnere un cellulare, mentre le cellule muoiono in formulari di retoriche  e in giochi di falsa comunione, vetrine di es-posizione di un fantoccio, mille burattini senza concretezza, fatti di gesti teatrali in cui si cerca assuefazione, non ribellione, né resistenza all’impronunciabile sentenza che ci aspetta tutti.
Tra estasi e ripiegamento siamo protesi del/nel nulla ma non ce ne accorgiamo, persino scrivere è de-ridere quella spogliazione che avviene di continuo e ci lascia senza ossatura capace di sostenerci. Incapaci di rinascerci ci vo(l)tiamo verso specchi  che privilegiano l’assurdo che non ha strascichi immediati, che ci ubriacano con la loro enfasi, marcando confini di illeggibilità per ciò che più profondo s’incunea e s’incastra nelle più lontane nostre terre, nelle fredde, aride, irraggiungibili vie che non ci riportano al seme che comunque ancora vive, sotto, nell’oscurità che ci coltiva, a nostra insaputa.
E capita, sempre più spesso capita, che ci spacchiamo, come una zolla secca e la zecca d’oro falso succhia fino alla fine l’ultima goccia di noi.
Eppure la nascita si pratica in uno spazio plurale sin dall’inizio: nasciamo dal corpo della madre, che porta in sé la memoria cellulare degli avi e la lega con quella del padre, e durante tutto l’arco della vita tali depositi si fanno futuro, generando non uno ma tutti coloro che in noi hanno lasciato quel deposito di umanità. L’uomo non può proprio staccarsi dalla madre e dal suo tesoro, non può farlo come invece capita alle cose: pensate costruite e poi lasciate per strada.
Tra un io e l’altro milioni di sguardi hanno modellato i sogni e i desideri, i pensieri, creandone spesso giudizi che ci hanno condotto lontano da noi stessi, da quell’humus di maschile e femminile che si coagula in questo o quello di cui poi facciamo per stupidità vincitore o vinto, fabbricando omini-di un tempo che crolla, per mancanza di elaborazione di un rapporto essenziale con l’altro, con la cura dell’altro, costruendo un debito di umanità che poi si abbatte all’improvviso in tsunami a cui non potremo tenere fronte. Quanto, quanto lavoro si vede disperdere, quante ore dedicate ad un lavoro che fabbrica vuoti e distanze, grandi cattedrali di un vacuo potere in cui si succedono fragili persone, che si credono senza scrupoli e perciò capaci di gestire questo globo-globulo di uno stesso sangue immaginato sempre di un altro e mai il proprio, comunque il proprio. Quante lingue e quanti linguaggi hanno costruito un valico impraticabile perché senza una radice che si diramasse verso tutti gli esseri, senza creare categorie, senza costruire muri e lager, senza praticare un’assurda morte che ci fa impotenti perché identici a ciò che è stato migliaia di volte, il cadavere di noi stessi.
Noi si muore di continuo rispetto a ciò che eravamo, il corpo ce lo ricorda ogni attimo, e la mente che falsifica le carte, che ci esplode le mappe del cammino, è una esule di quell’eden che vorrebbe sempre ci abbracciasse, senza asperità, senza sconfitte, senza perdite, senza cambiamento, unico invece ad evolverci in questo e quello, arricchendoci di es-perienza, per andare ancora, lungo un cammino che ci dis-uguaglia e ci accomuna nella dif-ferenza.
Il significato fondamentale del verbo latino “fero” è portare, ma anche, nell’accezione di portare avanti, può infatti significare consegnare, dare, riferire, mostrare, evidenziare, condurre o esaltare.  Si può anche tradurre come portare via, cioè anche depredare, ottenere, ma anche  può significare portare a termine, sopportare. Abbiamo coniato un bel verbo che devia dal senso dolente di sopportare ma ne mantiene, secondo me, il cuore essenziale: supportare, cioè aiutare l’altro, e così facendo anche sé stesso.
Si agisce e si patisce, nel senso autentico e originale delle parole, la propria nascita. Con agio e con tutta la passione che serve, serve noi, cioè si fa nostra serva, per nutrirci di tutto quanto è orto e risorto della nostra umanità. Spoglio è l’orto d’inverno e verdissimo in primavera, pronto a seccarsi nell’arsura dell’esposizione estiva e ancora vivo in autunno, migrando da una stagione all’altra verso tutte le territorialità dell’essere, perché per sbocciare serve un lasciar andare e un fare, sostanziale a tutti i passi del nascere e del morire.
Ogni momento offre un io differente che possiamo posizionare su un altare o una vetrina, ma in ogni istante, di ogni presente, c’è tutto l’individuo nel suo in-s(i)eme ed è questo a rinnovarsi nei gesti che compie, lavorando sempre alla sua incompletezza, responsabilmente, anche quando non è pienamente consapevole, in forza di quella originale incompletezza alla base del suo evolversi. Un nuovo inizio è sempre possibile, anche in un ordine di morte si continua a nascere e rinascere, persino la crudezza di tanta storia ce lo ricorda continuamente, se solo la si legge fino alle radici sotterranee che crescono in noi, a qualsiasi latitudine di tempo e spazio.
E’ alla luce di questa considerazione che leggo il disordine di oggi come un disordine fecondo, capace di ricomporre quel campo-hortus, in cui sembra che solo la morte si semini, e invece il mondo può appartenerci, anche quando non lo crediamo possibile, ma noi, ed è certo, non apparteniamo al mondo se solo ogni istante, con attenzione, coltiviamo ciascuno in sé la nostra singolarità, che sta nel nascere e nel rinascerci, mantenendo profonda la comunione con la radice che ci genera.
Viviamo in un’epoca che ci colpevolizza di ogni cosa, che nutre il senso di impotenza per renderci, attraverso continue menzogne, incapaci di rinascerci, assolutamente prostrati ad una necessità costruita per eliminare ogni resistenza al vuoto che in realtà il mondo ci impone, con tribunali inadeguati, con false ideologie che fanno di assurde necessità la nuova religione a cui prostrarsi.
Siamo nati nudi ed è questa condizione, la spogliazione, che unica ci aiuta a rinascerci, unica ci fa sentire la vita intera, senza protezione o appoggio, addirittura senza riferimento, esiliati, in qualche modo, anche dalla madre, che agisce e conosce nella nascita del figlio il dolore e il valore della separazione e della spogliazione. Si migra dal pianeta madre ad una terra sconosciuta e in quel preciso momento si sceglie di rinascere, fosse anche un atto doloroso per cui il neonato piange. La nostra nascita ci viene donata incompleta e spetta a noi crearla, passo passo, attimo per attimo, perché anche questo è parte del dono e ciò che consente che esso si attivi è la speranza, aiuto per portare a compimento quel fare e disfare che ci compone, nuovi, attraverso i sogni che il desiderio attizza, come braci vive di possibilità, attraverso cui guardare tutto quanto potrebbe essere, senza stazionare su una sola scelta ritenuta necessaria, perché potrebbe essere quella scelta definitiva a dare disperazione alla nostra vita. Noi siamo o possiamo essere un individuo socievole ma non un essere sociale, non dipendiamo cioè dalla società e quindi con un ruolo che in essa crediamo di praticare o in cui vorremmo riconoscerci. Non è la perfezione a salvarci ma la consapevolezza di una in-adeguatezza che ci sprona a muoverci contro una normalizzazione che il mondo vorrebbe inscriverci dentro, etichettandoci come suo prodotto. Non dobbiamo compiacere gli altri soffocando ciò che siamo, corriamo il fortissimo rischio di trovarci stritolati tra le macine di quel falso con cui ci dipingiamo volto e parole, gesti e pensieri in cui comunque abita una abbagliante desolazione, per non essere stati ciò che siamo: l’incompleto, che sempre tenta la sua rinascita, in una continua spogliazione.

fernanda ferraresso

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vilhelms purvītis

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Da Alfabeti segreti- Terra d’ulivi edizioni 2018

 

vento che vieni di notte
mentre da casa mi separo in un cielo senza più tetto
vento che vieni e fuggi stanotte dove tutto da me
sarà strappato
come un prato un volto
un vuoto una luce dentro il faro

senza impronte di passato
senza ali per fuggire

io pescatore e carceriere
io dentro tutte le mie vite
io acqua di foresta e goccia di fonte
io che guardo me guardiana

alla porta dello stazzo  le pecore
bianche poesie senza alcun segno
piegate ciascuna sul corpo dell’altra

per un dolore senza origine
per una lama conficcata nella pancia

e i miei palmi insanguinati sulla loro pelliccia folta
fulva un volpe che prende la rincorsa e poi la neve svelta
mi confonde i palmi all’aria per coprirmi dall’inferno

pensavo bastasse una preghiera
pensavo servisse solo un canto
che sarebbe servito a ricordarmi
io tenevo tutto in una tasca di memoria
un quadernino bianco delle annotazioni ma
devo averlo perduto nella via di casa
deve essere caduto in tanto trambusto
tra tutti i caseggiati e la gente che ti cammina incontro
tutti quegli io che tremano dietro e davanti e ti scavalcano
in nuvole di nebbia e fumo

sono sveglia e non so se dormo
io con un occhio chiuso e uno aperto nel profondo
a casa a casa – dico – voglio
tornare a casa
e casa mia è qualcosa che nessuno sa se accada
è una cosa abbandonata in un tempo remoto
è un filo e un soffio di vento

è un favore che non ho mai ricevuto
e ancora è un grido più forte
casa casa ca sa ripeto
lei sulla porta non sa che quella è la mia casa
lei sulla soglia è un’altra
una donna che non è più casa mia.

.

vieni

vieni appena il silenzio
mi sfiora
adagio senza smuovere il tempo
vieni come un respiro in un filo d’aria
il nostro luogo è lì

oltre le cose e dentro la loro ombra
vieni come un soffio nell’erba
in me senza sapere senza
chiedere di sapere
nulla è qui e nulla è altrove
la geografia è questo
corpo e caso è tutto
l’essere
noi
ciecamente attesi

l’uno e l’altro
un universo nella scena del giorno
un cielo profondo
il nostro sguardo

.

ci sono giorni che ti chiamo
perché non sento dentro di me
il rumore della tua distanza
ti chiamo come fossi dietro la porta
vieni ti dico
vieni scalza e senza paura
attraversa queste notti
calde e irrespirabili si affacciano lungo le mie impronte
così sotto i piedi stanchi sentirai
il fresco della mia pelle pronto ad accoglierti
gli abiti caduti in terra fioriranno
questo nostro incontro
cresciuto tra le scapole dei nostri desideri
oltre tutti i significati che gli altri
inevitabilmente daranno
noi cadremo in terra sopra una luce di seta estratta
direttamente dai tessuti della luna
addirittura sarà proprio lei la sillaba che appoggerò per prima
sulla tua bocca come fosse un bacio l’ultimo
in una lingua appena conosciuta e senza altro bisogno
che la voglia di trovarti
tu muta la mia voce in acqua a nuoto
fino alle profondità mai navigate
da nessun altro fiume o ramo o luce
conterai le mie spiagge più lontane e
spoglia mi riaprirai in te come una rima sola
che segretamente ancora
fino alla tua fragile impronta nuota
vieni risali la mia attesa
vieni e riscrivi in me una nuova partitura di suoni
scrivimi come sola tu sai fare mia lieve
mia terra amorosa

e quando vieni non me ne accorgo

è così
insostenibile l’essere
la leggerezza con cui mi prendi
legandomi mani piedi occhi
e la bocca la bocca non può che dirti e dirti
dirti senza mai poter dire abbastanza
senza mai poter dire basta

e ancora ti aspetto ancora adesso che di tempo ne ho buttato
fuori di me e dentro questa casa
in cui ti ho aspettato tanto tanto
sì tanto
e quando vieni
perché tu vieni ancora
appena rallento la guardia
appena il respiro mi trasporta
oltre il confine della veglia
oltre la voglia di ogni tenerezza
ecco
solo allora tu vieni e mi prendi alle spalle
insostenibile insostituibile insondabile
inimmaginabile amore che fai sognare
un tempo oltre il tempo ad ogni età
questa nostra carne lieve
e la liberi dalle catene dell’essere
in una sola forma
angusta breve tu
meravigliosa leggerezza
che non ti arrendi alla nostra scarsa intraprendenza
e ricominci a conquistarci
battito per battito fiato per fiato e pensiero per pensiero
tutto ciò che siamo
tutto ciò che ancora abbiamo
per vivere
un amore
senza che sia l’unico
senza che sia l’ultimo.

 

 

eccoti sei tu
e sei arrivato all’improvviso
senza preavviso mi hai spalancato gli occhi
tanto da non vederti più
ti sei presentato sulla porta
e
non ero pronta no non ero pronta
per venirti dietro
per seguire i tuoi passi tu salti
non ero pronta no
nemmeno per allacciarmi un paio di scarpe che
mi facessero volare sopra i tuoi segni

non ti si vede dentro le nuvole tu sei fatto di sabbia
e la tua bocca ride
ride ride ride
che non si sente altro che il sole che scroscia

tu? tu vieni

vieni e sei sempre scalzo
vieni a camminarmi la schiena
a sconvolgermi la parola a rigirarmi l’alfabeto
tanto da lasciarmi soltanto il sapore
del tuo profumo
appena accostato alle labbra

poi scompari
una nuvola come le altre
di polvere
e aria

crescono le parole
dentro di noi
che siamo i loro vivai
e vivono
di tutte le eco dei nostri ascolti
dei ricordi dei vagabondaggi
non dei calcoli
tra noi e gli altri
si dissetano le parole
alla lingua delle persone
dovunque accampate
in geografie che non sono solo terrestri
sono fatte di una sostanza strana
dalla bocca possono costruire o distruggere
le case e le strade oppure possono intrecciare
filigrane di sogni con trattati di memoria
così profonda e lontana da renderle oscure
difficili da portare da viaggiare o da ardere
come intere foreste fossili
quei depositi cosmici di cui anche noi siamo composti
non hanno un unico senso di circolazione
non sono cartelli stradali non indicano qui e là
ma ovunque oltre e anche da nessuna parte
abitano il nostro corpo e sono la nostra veste preziosa
anche se spesso la stracciamo strappandocele dalla gola
sanguinano tutte le parole
sono mortali quanto noi
sono brillante carbone che ci brucia
sono mazzi di fiori del campo sono ancora più in alto
insetti o nuvole o cosmo
e non basta lanciarle in aria
distanti da noi serve pronunciarle prima in noi
serve toccarle senza possederle sono per natura clandestine
consapevoli che sono noi tutti noi
tutti i tempi tutte le parentesi della nostra storia
che è la loro vita e possono essere sulla bocca
di gente diversa come vocaboli che sono semenzai geografici
e ci riportano sulle orme di popoli lontani
in terre di tempo antico assiri caldei i popoli d’oriente
che hanno manipolato un senso un verso
mitico dentro la misura vocale di un segno intravisto
dentro una foresta nel tigri e nell’eufrate
o nel cielo della mesopotamia
tra i monti del tibet nel gange o nell’egeo
e sono legni e argille sono onde e arenarie
sono ferri e ossa non hanno gli stessi suoni
che ci cantano dentro la grotta
ci incantano o ci incatenano
ci nascono e ci muoiono
non hanno commercio le parole
anche se spesso le si usa a peso
un tanto al chilo o a tonnellata
si dimentica che sono atomiche
non sono souvenir le parole s’incastrano
ci castrano ci disseccano
e la punta del loro diamante compone ferite
così profonde da non poterci ricomporre
ma sono anche laboriose sono parsimoniose
sono soprattutto molteplicemente riflessive
e non hanno un solo volto
sono un volo le parole ascolto
che radica la nostra terra a questo cielo
così alto e aperto che senza di loro ci perderemmo
e cambiano ci cambiano quell’abito per cui
odio si trasforma in odo e dio può essere quell’io che nascostamente
tesse i suoi fili fino all’argento di un’altra dimora
nell’osso a fondo nel midollo fino alla cellula
libera di evadere ogni senso e piantare astri
là dove è più buia dell’universo la dimora

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