UN SOGNO COSI CHIARO….iniziativa CARTESENSIBILI Natale 2018.

foto da “chagall – sogno di una notte d’estate”

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Dal latino solstitiumsol-, sole e -sistere, fermarsi. Il solstizio rappresenta in astronomia il momento in cui il sole raggiunge il punto di declinazione massima, o minima, nel suo moto apparente lungo l’eclittica. Per questo assistiamo ai solstizi d’estate e d’ inverno, che sono rispettivamente il giorno più lungo e e quello più corto dell’anno. Nel mese di giugno il valore massimo di declinazione positiva, negativa in dicembre. Gli antichi festeggiamenti di epoca romana, dal 17 al 23 dicembre , quelli del ‘Sol invictus‘ e i Saturnalia, erano feste pagane in onore di Saturno e celebravano la rinascita della natura. Il “dies natalis Solis Invicti“, il giorno di nascita del Sole Invincibile, cadeva il 25 dicembre, e proprio quel giorno è diventato il Natale dei cristiani. Un arrangiamento, per metafora dunque,  di un sole che non si arresta e non resta vinto dall’oscurità, di cui spesso l’umanità si è nutrita e di cui ancora purtroppo si nutre, dopo secoli di parole e buoni propositi finiti tutti in cenere. Eppure quel sole, che brucia dentro ognuno di noi, che è la vita stessa nella sua interezza, brutale e amabile, imprevedibile e feroce, inarrestabile e monotona nella sua ripetitività ciclica,  ancora porta qualcosa che è il germe di un sogno così chiaro che ci spinge tutti lungo il filo dello spaziotempo, in un cosmo disegnato da sotto da sopra e da dentro e tutto intorno ri-voltato verso questo o quello, punti dei cardinali nostri bi-sogni, cioè gli altri, che siamo sempre noi, un io moltiplicatosi ed errante, sempre incapace di completo miglioramento, senza perfetto che non sia ciò che già è stato fatto e non è futuro incasellabile, in programmi e decreti di stato, perché tutto cambia da un momento all’altro e ciò che era nero può farsi bianco, scorrendo in una linfa che è prole e polarità del sogno, lo stesso, da quando si è acceso il nostro solstizio, quel tale e il talaltro nostro specchio di un solo mutevole volto.
Quest’anno il solstizio capiterà il 21 dicembre alle 23.23, ma brucerà comunque in un sogno d’estate persino in pieno inverno, una lunga scia che ci in-segna che ciò che nasce è la meraviglia e la disponibilità dentro di noi e verso ciò che è ignoto, perché non c’è “un senso della vita” da riprodurre uguale per tutti, ma tutti possiamo e dobbiamo crearne ogni giorno e attimo per attimo, uno diverso, sempre pronti a non dare nulla per scontato o per già conosciuto: tutto è cosmo, ordine  rinnovabile.

RINGRAZIANDO TUTTI COLORO CHE HANNO DATO VOCE AL CORO DI QUESTO ORO SOLARE INVIAMO A TUTTI I LETTORI “SOLITARI” AUGURI RICCHI DI TUTTI I BAGLIORI DI CUI L’ESSERE DISPONE…insomma un’estasi d’estate in un solstizio di sogni.

 

il gruppo di cartesensibili

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foto da “chagall – sogno di una notte d’estate”

 

Siamo della stoffa di cui sono fatti i sogni,
e i sogni sgranano gli occhi come
bambinetti sotto i ciliegi,

dalle cui foglie inizia la luna il suo cammino
d’oro pallido attraverso l’immensità notturna.
Non altrimenti i nostri sogni affiorano,

sono lì, vivi come un bambino sorridente,
non meno grandi nel sorgere e calare
del plenilunio sugli alberi destato.

L’intimo s’apre al loro movimento;
come mani spettrali in una stanza chiusa
sono dentro di noi e sono sempre vivi.

Tre in uno: un uomo, una cosa, un sogno.

Hugo Von Hoffmansthal- Terzine della caducità (III)

*

Dite, se fosse vero
se fosse nato a Betlemme davvero, dentro una stalla
dite, se fosse vero
se i Re Magi fossero davvero venuti da lontano, lontanissimo
per portargli oro, mirra, incenso
dite, se fosse vero tutto quello che hanno scritto Luca, Matteo
e quegli altri due,
dite, se fosse vero
se fosse vero il colpo delle Nozze di Cana
e quell’altro di Lazzaro
dite, se fosse vero
se fosse vero ciò che raccontano i bambini
prima di andare a dormire la sera
lo sapete, quando dicono Padre Nostro e Madre Nostra
se fosse vero tutto questo
io direi si’
oh, di certo direi si’
perché tutto questo e’ talmente bello
quando si crede che e’ vero.

Jacques Brel – Dite, se fosse vero
traduzione G.Cerrai

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foto da “chagall – sogno di una notte d’estate”

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Toni Piccini

 

stelle lontane

ci guardano

da vicino

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foto da “chagall – sogno di una notte d’estate”

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Antonella Jacoli

Sogno alla Dostoevskij

 

I giocatori pallidi sapendo
abbandonarono le carte
in mezzo alla tormenta
fuggirono nei boschi
volarono dai ponti
alle case cresimate.
Lunghe pellicce appesero alla notte
stesi vicino a un vecchio amore
dormirono a sobbalzi
il pensiero della morte.
Tra gli alberi nascosto c’era Dio
con la lanterna in mano.

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Siamo stati divinità del sottosuolo
a cavallo di mostri
nel cimitero del cielo
armati di scudi e di lance da caccia
occhi e bocche stupefatti
cercando semidei
rapiti dalle nuvole
svenuti sotto i frassini.

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Ero l’uomo dei miei sogni e il suo cane
la dolce dimenticanza in carta nocciola.
Bastava addormentarsi sperando
sorridere al bel viso il giorno dopo.
Puri presagi di un unico settembre
stabilirono il prezzo del silenzio.
Dove sei seta dei solitari canti
voce venata di mistero.

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Del suo incarnato parlerei e non d’altro stasera
sfiorandolo svanirebbe il pericolo
d’avere confidato in un sogno
non condiviso come un lusso
invece di restare a malapena moderni
con le parole a giro nel bicchiere
e la mappa dei giorni a metà
mettendo al riparo le navi
ma non i sensi
mai.

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foto da “chagall – sogno di una notte d’estate”

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Mariangela Ruggiu

SENZA PRECISO ORDINE

 

abbiamo bisogno di amore
di trovarne come un’impronta calda sul cuscino
una mano aperta nel deserto delle voci
o un buio morbido nell’abbraccio che stringe al seno
amore, come antidoto alla paura, voce chiara
che conosce il nome, madre che accoglie il dolore
e disconosce il male, amore che non somma e non divide
abbiamo bisogno, senza fare distinzioni, senza priorità
senza merito e senza obbligo, amore come pane dolce la domenica
abbiamo bisogno

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incantami
lasciami il colore della luce
confuso col sonno all’alba
lasciami un odore buono
come la rugiada che si posa
o il sapore della pelle sulla pelle
l’incanto della notte
quando la preghiera ricongiunge
ogni corpo al proprio dio
lasciami del mare il canto
il latte della luna nella bocca
calmerà la fame
ed io andrò incontro a te
che cammini sulle acque
e segni il limite dell’infinito
andrò, seguendo il passo degli alberi
le orme dei lupi e il senso del silenzio
so che è incanto
posare il cuore accanto al tuo

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abbi cura di te, che ti spendi
come il sole alla sera
cura i pensieri, non lasciarli in balia del vento,
questo vento che vorrebbe spazzare via
bene e male senza distinzione,
posali sul nascere di cose belle
vedi quando ogni seme germina
come genera colori nuovi, bellezza e incanto,
cura le tue mani che toccano il mondo,
fa che siano carezze, ma anche forza
per difendere il luogo sacro che sei
e gli occhi, i tuoi occhi in cui la luce si posa
e ritorna con i colori che hai dentro
e graffi e ferite, e ogni ruvidezza
non lasciarli al dolore, stendi il miele che cura
il mondo guarda il tuo passo
e si stupisce che danzi

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foto da “chagall – sogno di una notte d’estate”

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Lucia Guidorizzi

IL SILENZIO DELLA LUCE

 

                                           “Quale voce viene sul suono delle onde
                                            che non sia la voce del mare?”

                                                                   Fernando Pessoa da “Le isole fortunate”

 

Da gorghi di mareggiate implacabili
Infrante su lava nerastra
Sbattuta dalla risacca
Ho raccolto sulla riva una sirena
Dai piccoli occhi stretti
Fessure le sue pupille blu cobalto

Una sirena muta
Dai capelli d’oro e d’alga
I fianchi flessuosi di pesce
Dalle scaglie luccicanti

Ostinata nel suo crudo riserbo
Creatura di oceano
Riottosa del caso ostile
Che l’aveva gettata sulla terra

L’ho raccolta
In un secchio d’acqua salsa
Con stupore e timore
L’ho portata con me
Ma guizzava e schizzava
Gocce salate
Da quello spazio angusto

Una sirena ferina
Antica e giovanissima
Caparbia nel suo disagio
Che rispecchiava la mia pena
Di averla fatta prigioniera

Non cantava
Ma sentivo la sua voce
Corrente insidiosa
Di gorghi profondissimi
Respiro luminoso
Di palazzi marini
Un fluttuare
Di creature antiche

Mi faceva male
Il saperla cattiva

Le sue squame
Brillavano come
Piccoli coltelli
Sotto il sole

La sua bocca serrata
Tratteneva un pianto di stelle

Non era cosa per umani
Mi ferivano
La sua pena e la sua rabbia

Sono tornata sulla riva
Ho rovesciato il secchio
Sulle onde
E lei è sparita
inabissandosi
Senza voltarsi indietro

A me rimane
Dentro il silenzio
Di quella luce
E la nostalgia
Di chi lascia andare
Quando invece
Vorrebbe essere
Chi va

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foto da “chagall – sogno di una notte d’estate”

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Milena Nicolini

Sognai tanto tempo fa questo bisogno-desiderio. Credo di essere ancora cenere, nonostante la libertà conquistata.

Da LILITH o del sogno, canto III L’ESTRANIAZIONE

 

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foto da “chagall – sogno di una notte d’estate”

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Maria Grazia Palazzo

UN SOGNO

 

Sognavo……——–…nel bisogno di prendere
Il largo lontano dalle faccende
Del quotidiano, per sfida o per stizza
Sognavo di andare lontano, …………lontano

Poi un giorno ……..di notte il sogno
Si è fatto vicino, con passo felpato
Dal buio si è fatto chiarore…… uno scarto
Tra il prima ed il dopo…. nel salto del sonno

Ho temuto, ho tremato, ho goduto nel varcare
La soglia di ogni timore, tremore, nel di(r)s(i)farsi
Del sole calore nelle membra di una foresta viva
In cui accovacciata ero messa con lo sguardo ad est

Il sole sorge ancora, sorge per tutti, nelle crepe
Dei lutti, di continue ingiustizie, dei soprusi
Sorge ancora un sole di coraggio, di amore
Che resiste all’insulso e all’oltraggio…

C’era un vecchio, c’era un bimbo, una donna
Di età imprecisata …….girava, girava, danzava
E quel vecchio divenne bambino e il bambino
Divenne un adulto ……..più buono del vecchio

E la donna chiamava la madre la nonna l’amica
Chiamava ogni donna che nel bosco del tempo
Si è persa da sola od uccisa da mano o da norma
Perché aveva il coraggio di essere solo sé stessa.

E la terra era fresca e non c’era violenza.
E un profumo saliva dal corpo di ognuno.
E non c’era violenza e dal corpo di ognuno
una danza dal mare portava alla terra.

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foto da “chagall – sogno di una notte d’estate”

 

Rita Stanzione 

PER DISARMATE COLTRI

 

Mi aspetto
il suo vivere incolto essere colto
come un’intimità
propizia ad arretrate albe
di quando il cuore non era
un sovraccarico nocciolo
sibillino segreto
abbandonato a orme d’arsura.
Ancora sogno di un sogno
contrastare l’oscurità
sfiancare nubi di spine
per disarmate coltri
lottare – pregare – piegare
lame di laghi immobili
per il suo pianto – senza pianto
deserto da fiorire.
Con occhi sbarrati io sogno,
lo vedo tagliare aiuole. Uscire.

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foto da “chagall – sogno di una notte d’estate”

 

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Marisa Madonini Peviani

CANTO D’INNOCENZA CANTO D’ESPERIENZA

[…] Con venerazione gli inguaribili
Levano il canto all’alto fiore vivente
E bambini sordomuti imparano
Il linguaggio delle radici e delle pietre…

Christine Lavant Poesie Scelte, Braitan, Cormons 1986

I

non riposare sui cuscini
smarriti dei suoi seni
bambine che perdono
lacrime la sera, lacrime

curi
quando giunge il nemico
saetta

ripari

da bui vuoti da spettri
di tenera purezza dici
di stelle-sogni- comete

mille notti, padre
di preamboli incantati
vestiture da riverire
sospirati sipari

di tepore

e il male oscuro la strega
di paura ci trovano
parcelle senza gemiti
strette in braccia
sillabanti un chiaro

poi sonnosogno cala lieve
su ali di cerili leggeri

A mio padre Luigi

 

foto da “chagall – sogno di una notte d’estate”

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Davide Cortese

CHIEDO

 

Chiedo ora di apprendere il perdono
dalla terra che offre alla luce la sua ferita
e di non temere nulla mai
com’è naturale al più piccolo fiore.
Chiedo ora di assomigliare un poco al cielo
che accoglie il volo del falco e della mosca
e serba il millenario segreto della farfalla.
Chiedo di piovere e di fare arcobaleno.
Chiedo di imparare dal vento
come passare tra gli uomini senza ferire
come lui fa tra i rami del mandorlo.
Chiedo di poter sempre
guardare gli uomini negli occhi
e di vedere nell’iride di chi temo
l’amore che cammina come un dio
sulla superficie della mia paura.
Chiedo di poter sorridere nella notte
e mettere come fossero orecchini
le ciliegie alle orecchie della morte.

 

 

foto da “chagall – sogno di una notte d’estate”

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Fernanda Ferraresso

…E POI ANCORA UN SEGNO

 

ogni tanto lo vedo
cerco di catturare un frammento
ferma in equilibrio instabile sull’acqua
senza temere di andare a fondo
dirigo da una riva ad una sponda che non vedo
lungo il fiume che tante volte ho percorso ma ora
è notte e nessuno tranne me è in movimento nemmeno le erbe o gli insetti
solo
un sogno
[…]

uno
da aggiungere agli altri
come grani di sabbia
di un mare senza origine e scogli
una linea senza punti
un infinito scorrimento
nell’intorno dell’ignoto
accumulando ascolto
di voci oltre il muro di ogni suono
disegnando col dito una parola sulle labbra
la sagoma di un vuoto
dove solo la morte ha tutte le traduzioni
storia per storia tutti i capitoli di futuro
chiusi dentro di noi
come compiti da svolgere
all’oscuro delle regole
con inchiostro impassibile
all’impossibilità di scriverle

[…]

e poi ancora un segno come un disegno
una traccia che si ripete

cancellando ogni volta l’inizio

e non finisco mai di piantare le mie tende
la notte ti porta in me senza incontrare mai il tuo volto
la mattina indossa sandali diversi
e cammina sulle sabbie mobili di un tuttoniente
in un’altra membrana il tempo
è un terreno calpestato
tra sorgenti inaridite
con fatica apro i miei pensieri
li annaffio con vie lattee e tuorli di orizzonte
respiro il profumo di fiori albumi di nuvole
sono carte antichissime le mappe aeree dei sogni
api che ronzano dentro le mie orecchie
alfabeti segreti
dei
misteri

[…]

e di nuovo vieni
per bucarmi le mani
e farmi ricca di una povertà cruenta
questi fori nei palmi
in cui di silenzio mi parli
con voce che non so ripetermi
m’impalmi del tuo sparire
me in me e in tutti gli altri
così promiscuo come sei
non posso sollevarti non ho cielo che basti
nella carne sprofondi
basso in una radice di tortura
che mai mi darà pace
flessibile tagliente lama
la tua quiete brucia chi ama

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foto da “chagall – sogno di una notte d’estate”

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Simonetta Sambiase

SPES

Va e viene, affinché i figli possano urlare
e spingersi nei suoni delle campanelle
in marcia sulle montagnole dei parchi
a decine, a colori, a scaglioni vanno
a farsi valere dei giorni marinati
e saltati nei porti canali, nello smog di pianura
fino ai pranzi della domenica o del sabato santo
lunghi, colmi, ristoranti
a prendere palloni e granchi e corrono
nel nessun dove cantano
le sirene
dei videogiochi.
Vengono e vanno, affinché le figlie facciano
incantevoli sorrisi alle piazze e ai festival dei campi
si arrossano gli sguardi
fra i semafori d’agosto le forcine inventano pettini e ciance
non più grandi di un whatsup all’amica assente
che veste statue di velluto con i colori dei fiori
placando le ansie e le adolescenze
l’azzurro affiora puro
sul palco del cuore
che suona campanelli tra i capelli.

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Leopoldo Attolico

SOLSTIZI DI SOGNO

 

Suocere catalizzate e ridotte al silenzio
fanciulle in fiore da guardonare a dirotto
enjambement di gioventù e disincanto
Tra fango e visione
-col suo moviolone d’eterno voyeur
il Sogno scatena la gran lallazione
di mister Rodin, che tra Colpo Grosso
e Vattimo orrendo si informa stravolto:
il bagno dov’è?
No problem per grandi respiri d’immenso
se il Senso ha nitore Funariparlante
se il popolare è nazional starnazzante
e il gran leviatano è rapsodo cieco
per sogni enchantés di verde amperaggio
spossati/sposati ad un canapè…
Ma punta nel vivo
-tra l’Uomo del Monte che dice di sì
e l’indice Mib all’ora di pranzo
la blanca paloma di un verso minchione
riagguanta la verve del maître à penser
e intriga il sospetto
che il brivido caldo
di un sogno in pigiama
sia sempre e soltanto
un bambino viziato
un falso colore
un prêt-à-porter

da Scapricciatielle– El Bagatt1994
ora in Si fa per dire.Tutte le poesie 1964-2016- Marco Saya Edizioni 2018

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foto da “chagall – sogno di una notte d’estate”

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Anna Zoli

TRACCE DI SOGNI

 

riemergere dalla notte
galleggiando verso la luce
sull’onda di tracce di sogni
frammenti di realtà
nascosti alla coscienza

gettare ponti sul vuoto
onde sguardi parole mani
filamenti sottili che intrecciano
separate solitudini umane

farne reticolato
di tempo e spazio intero
mandare un sogno avanti
un ricordo all’indietro

la macchina del tempo
senza gettoni o tasti
proiettarsi nel vuoto per
ritrovare un pieno

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foto da “chagall – sogno di una notte d’estate”

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 Adriana Ferrarini

Aria dall’opera (non scritta)“ MELEK ṬĀʾŪS, L’ANGELO PAVONE”

Per Vitali Mardari
boscaiolo moldavo di 28 anni,
morto mentre lavorava – in nero – nei boschi del Trentino

 

particolare dal trittico portinari, hugo van der goes, uffizi-firenze

 

“C’è un morto nel bosco
io non lo conosco”
c’è un bimbo sperduto
che grida: aiuto,
– ho gli auricolari
-son spenti anche i fari
c’è una barca in mare
la lascio affondare
c’è un folle pianeta
che ha perso la meta.
C’è un vuoto nel cuore:
lì cresce il dolore.

Su vieni cometa
arriva segreta
su vieni Pavone
in groppa ad Orione
su Angelo vieni
i vasi son pieni.

Ma il morto nel bosco
– il dolore conosco
il bimbo smarrito
– perché non l’ho udito?
i timpani crollano
il tempio barcolla
nel tempo incerto
di un buio deserto
non cresce nel cuore
il muschio d’amore.

Su vieni cometa
la terra fa lieta
di stelle e licheni
su Angelo vieni
cancella l’inferno
fiorisci l’inverno
disegna una stalla
nel vento traballa

la luce nel bosco
festoni nel chiosco
ritorna Pavone
e vola tu Alcione
sui tetti scoperti
dei sette concerti
la notte è un cristallo

e già canta il gallo

(In virgolettato all’inizio le parole pronunciate da S. R, il datore di lavoro di Vitali Mardari, che, dopo aver gettato il corpo del ragazzo in un dirupo, così disse alle guardie)

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foto da “chagall – sogno di una notte d’estate”

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Federica Galetto

VI RACCONTO

Rimasi ferma di fronte al tavolo imbandito. La finestra rifletteva l’aria di cristallo nella stanza, dove il camino sfavillava di luci aranciate e guizzi d’ocra. Era tempo di tè caldo e cioccolata
fumante, di piccole sentenze giudiziose che espletavano il mattino. Piccole torri fumanti si ergevano sulle tazze, sul pane decorato da semini di papavero, neri come la fine coltre di nebbia allungata sui colli. Una bambola di pezza poggiata sul bracciolo del divano diceva ininterrottamente quanto fosse tardi quel mattino, tardi per guardare la giusta dimensione
dell’alba. Sebbene ci fosse la brina sui tetti non pareva d’essere soli e neanche un dolore era capace di sostare a lungo su quella mensa. Tutti i criteri di sopravvivenza ammissibili dalla
ragione svanirono, liquefacendosi accanto alla teiera. E vi fu un miracolo di luce accatastato sul vassoio di biscotti allo zenzero, proprio davanti all’abete decorato di ciondoli trasparenti con gli angioletti a soffiare nelle trombette d’oro. Nessuna voce; silenzioso come un deserto il pallore del giorno rimaneva assorto nella trina di merletto della tovaglia di lino. Avevo riposto
stancamente le braccia sul tavolo, immerso la voce nel buio cantone del sole, esaltato il tremulare della fiamma di una candela per salvarmi dal chiacchiericcio fitto della vita. Mia madre
portò sul vassoio una terrina colma di frittelle di mele alla cannella, alcune porzioni di torta brunita e calda appena sfornata, un minuscolo contenitore in ceramica con del burro giallo, e un
pacchetto, ripiegato su se stesso dentro la carta velina spiegazzata. Noi, il mattino, la bruma e il calore dell’amore. L’abbaino della casa di fronte sberluccicava di un fiotto tiepido, poi due labbra ben note al mio cuore mi si posarono sul capo e ruotando lo sguardo vidi seduti a quel desco mio padre e mia nonna che sorridevano. Una famiglia a Natale, raccolta là come un fiume raccoglie i tronchi d’albero abbattuti dai temporali. Si sentiva la fervenza chiara della gioia. Campane in lontananza svisceravano un sentore d’inverno. L’abete si accese di luci, il tè scese nelle tazze, il caffè e la cioccolata sdilinquirono gli aromi perfetti e le voci familiari. Un abbraccio di tutto ciò che avevo di più caro si stese e mi si annodò intorno al corpo. Gli occhi mi si aprirono e videro che erano le otto del 25 dicembre. Nel mio letto cercai le voci e tutto il tepore. Ma il sogno era svanito; si era avanti ormai, molti passi oltre. Buon Natale famiglia della memoria, in un assolo perfetto ritrovai l’anima e la cosparsi di quella cosa che nascosta tramava per ricordarmi che ancora c’era speranza. Scesi in cucina e preparai il caffè, con più mani sulle spalle.

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foto da “chagall – sogno di una notte d’estate”

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Giovanna Gentilini

LA CONCHIGLIA DI SAINT JACQUES

Il fischio di una marmotta ci colse all’improvviso. Halley, il nostro cane meticcio, alzò le orecchie e si fiondò verso la tana. “Fermati!”. La voce di Aldo, mio marito, si alzò imperiosa e Halley si bloccò,poi, con riluttanza,ritornò sui suoi passi e riprese a camminare al mio fianco. Avevamo lasciato la zona boschiva e stavamo attraversando la mirtillaia. Un tappeto rosso copriva i morbidi fianchi della montagna: il Cimone, la più alta cima dell’Appennino Settentrionale. Erano i primi giorni di Ottobre, le foglie fiammeggiavano ai raggi del sole e l’aria si era fatta pungente. “Vanna!” “SI ?” “Sei stanca?” “No” “Allora, andiamo avanti”. Erano ormai due ore che camminavamo per raggiungere la meta: la cima del monte. Entrambi ci appoggiavamo a un
bastone e calzavamo scarpe da montagna. Le mie erano le stesse che, qualche anno dopo, avrei indossato camminando verso Santiago di Compostela. Decisi di intraprendere il Camino nel 2009, quando, durante un viaggio nella Spagna del Nord, nella cittadina di Santiago, entrando nella piazza di Obradoiro, antistante la Cattedrale, mi imbattei in un gruppo di pellegrini che lì avevano concluso il loro Camino. La gioia che traspariva dai loro occhi, catturò la mia attenzione e mi fermai, rapita, a guardarli. Quanta fatica e quanta emozione trasmettevano i loro volti. E le parole, le parole che, in tante lingue diverse, intercorrevano tra di loro, mentre si abbracciavano e guardavano illuminati la facciata della Cattedrale, mi attraversavano come una folgorazione. Iniziai a piangere. Le lacrime scendevano senza controllo e non cercai di fermarle. Il sentimento di empatia che provai fu talmente forte che oltrepassai tremante la soglia della Cattedrale e fui tutt’una con essa.
Il sentiero, lasciati gli ultimi arbusti, ora si inerpicava lungo una ripida sassaia. Dietro di noi, la valle stretta tra due contrafforti rocciosi, e, davanti, la parete, la cui sommità terminava con una terrazza di roccia rossa. Riprendemmo il cammino. Sotto i nostri piedi, i sassi rotolavano in basso. Camminavo avanzando con prudenza, la sassaia era ripida e non permetteva distrazioni. Sentendo un fischio, mi voltai e vidi Aldo che si attardava richiamare Halley. Sopra di noi volteggiava un’aquila. Intuii una minaccia, ma forse mi sbagliavo. Il cielo si era fatto grigio, l’aria ferma, stagnante, senza un alito di vento. Dalla valle saliva una nebbia plumbea. “Aldo, affrettati! – gridai – il tempo mette al brutto!”. Poi ripresi a camminare. L’aquila continuava a volteggiare. Si posò sul sentiero, in alto, ad alcuni passi da me e sembrava sollecitarmi a salire. Improvvisamente spiccò il volo e attraversò, veloce, l’unico varco azzurro tra le nuvole minacciose che avvolgevano la cima della montagna. Un vento freddo salì dalla valle, accompagnato da violenti scrosci di pioggia. Eravamo circondati dalle nuvole e la visibilità era nulla. Pioveva anche l’11 di Maggio del 2010 alle 6 del mattino, il giorno in cui affrontai la prima tappa del Camino di Santiago. Zaino contenente il minimo necessario, due bastoni, le scarpe da montagna e …..via. Sui Pirenei, mi aspettava, a millecinquantasette metri di altitudine, Roncisvalle. Partivo, come pellegrina da
Saint Jean Pied de Port in Francia, piccolo paese al confine con la Spagna. Da qui parte il Camino così detto francese che percorrendo tutto il Nord della Spagna, dopo circa ottocento kilometri, giunge fino a Santiago di Compostela. Portavo, ben custodita nella tasca dello zaino, la credenzial, carta di viaggio che, timbrata ad ogni sosta dall’ospitalero dell’ostello, avrebbe attestato la mia presenza di pellegrina sul Camino di Santiago. La pioggia scorreva a rivoli lungo il cappuccio dell’impermeabile bagnandomi il viso. Le scarpe alte e strette alle caviglie, dopo un’ora di cammino erano zuppe. Legata allo zaino, la conchiglia di Saint Jacques batteva ritmicamente il mio passo. Salivo in mezzo al bosco. Le chiome degli alberi, che mi circondavano da ogni lato, mi impedivano di vedere la cima del monte dove speravo di vedere l’Abbazia di Roncisvalle. Incerta, ad ogni bivio, sulla direzione da prendere, seguivo le impronte lasciate nel fango dai pellegrini che mi avevano preceduto. Ero sola. Come sola, ero, quando sulla sassaia che portava verso la vetta del Cimone,sentii abbaiare Halley. Mi girai, lui e Aldo erano spariti. Non mi preoccupai della loro sorte e, come liberata da un peso, continuai la salita. Seguivo un richiamo che mi attirava verso la cima. La nebbia si era
trasformata in acqua, aveva riempito la valle e saliva minacciosa verso di me. Gli scrosci di pioggia scorrevano sulla sassaia rendendola scivolosa; ad ogni passo correvo il rischio di cadere. La salita, sempre più ripida, si trasformò, nell’ultimo tratto,in una parete a perpendicolo sulla quale mi arrampicai aggrappandomi con le mani. Sopra la mia testa, a un solo passo, il bordo della terrazza di roccia rossa; allungai la mano destra e lo afferrai. Un uomo con una lunga barba grigia si sporse e mise il suo sguardo nel mio. Vestiva un saio di una tela marrone e aveva al suo fianco una giovane donna bruna avvolta in una tunica bianca. A un cenno del monaco, la giovane allungò una mano e mi attirò a sé. Erano passate dieci ore da quando ero partita da Saint Jean Pied de Port. Al limite delle forze, bagnata e infreddolita, procedevo cercando un segno qualsiasi che confermasse la direzione che avevo preso. Alberi, solamente alberi mi circondavano da ogni parte. Ad un tratto, il sentiero in salita ebbe termine, mi trovai su un piano immerso nella nebbia. Avanzai di alcuni passi, incerta su dove dirigermi. Una visione inquietante mi venne incontro: sbucava dalla nebbia la sagoma di una piccola cappella, con una croce sulla sommità del tetto e con la porta sbarrata; sul prato, alla destra della costruzione, centinaia di piccole croci, costruite dai viandanti con legni e ramoscelli, alcune disposte l’una sull’altra, altre infisse nel terreno, formavano una collinetta che, in un primo momento, mi parve un cimitero. Cercai con gli occhi la Collegiata, dove avreiricevuto ricovero per la notte. Non c’era. Ero sul passo di Roncisvalle, dove nel 778 il conte paladino Orlando fu ucciso dai Saraceni insieme ai soldati che formavano la retroguardia Carlo Magno, re dei Franchi. In un altro momento l’emozione mi avrebbero ripagato della fatica fatta, ma avevo troppo freddo
e iniziavo ad avere paura: sarei riuscita ad arrivare all’Abbazia prima di notte? Il silenzio assordante del luogo e la collinetta delle croci, avvolta nella nebbia, avevano un che di minaccioso. Se avessi avuto il corno di Orlando, l’avrei suonato per chiamare aiuto, l’aiuto che sul monte mi aveva dato la giovane donna,tendendomi la mano per portarmi in salvo. Mi trovavo in una grotta dalle alte volte ad ogiva. Al centro un braciere che bruciava, spandendo profumi d’incenso. Ero nel cuore della montagna. La giovane, facendomi segno di seguirla, salì i tre gradini di una scale che introduceva a un lungo corridoio bianco, di un bianco luminoso. A destra e a sinistra si aprivano, ad intervalli regolari, delle porte anch’esse bianche. Bagnata e sporca di terra, fui condotta in una piccola stanza dove c’erano un lavabo e, appoggiato su di esso, un pezzo di sapone di Marsiglia e un piccolo asciugamano verde, del colore dell’erba a primavera. Mi insaponai le mani e, dopo averle lavate, me le asciugai. Ad ogni sfregamento, cadevano sul pavimento gocce di acqua colorata, che si allargavano e simoltiplicavano; macchie dalle varie tonalità di verde e di giallo, di forme rotonde e allungate, invadevano il pavimento del bagno e, attraverso la porta entravano nel corridoio. Mentre mi guardavo intorno sgomenta,desolata di aver contaminato tutta quella purezza, le porte si aprirono. Bambine e ragazze uscirono dalle aule, calpestavano le macchie colorate e le portavano sorridenti e festanti, ovunque. I loro sguardi erano gioiosi e amorevoli. Solo allora compresi che il luogo in cui ero arrivata, dopo un lungo e faticoso cammino era un eremo, in cui viveva una comunità femminile. Fui pervasa da una grande serenità e, mentre ricambiavo i sorrisi, riaffiorò alla mente un’immagine: Aldo e Halley che salivano faticosamente lungo la sassaia. Immobile, vicino alle croci, mentre la pioggia correva lungo l’impermeabile e penetrava negli scarponi, cercavo le impronte dei pellegrini che mi avevano preceduta nel Camino. Capivo che era quasi impossibiletrovarle, perché il sentiero finiva in un prato che circondava quello che mi era sembrato un cimitero. Del resto la nebbia e la pioggia occultavano la visuale Sgomenta continuavo a guardare l’erba, fino a che mi parve di vedere una zona calpestata. Presi in quella direzione e mi trovai all’inizio di un sentiero che portava verso il basso. Ad ogni curva, attanagliata dal dubbio di essermi sbagliata, speravo di vedere l’Abbazia. Continuai per circa un’ora, fino a che si stagliò davanti a me il profilo di una costruzione. Si era fatto buio, trovai a fatica l’ingresso della Collegiata ed entrai. Mentre pensavo, con preoccupazione, a quello che poteva essere accaduto a mio marito, mi sentii sfiorare un braccio. Mi girai. Accanto a me una bambina, la più giovane di tutte le alunne della scuola, mi porgeva un libro. Sulla copertina di cuoio dipinto era incisa un’immagine: la conchiglia di Saint Jacques.. Lo presi, lo misi nello zaino, e m’incamminai verso la valle, verso casa. La stradina si snodava nella città vecchia tra le case medioevali. La scarpe da montagna, con cui avevo fatto cinquecento kilometri sul Camino di Santiago, compresa la Meseta, battevano sui ciottoli scandendo il ritmo con cui la conchiglia di Saint Jacques picchiava contro lo zaino che portavo sulle spalle. Il ginocchio sinistro continuava a farmi male, il dolore notturno non mi lasciava riposare; per questo avevo deciso che latappa odierna, la ventitreesima, che mi avrebbe portato da Mansilla de Las Mulas a Leon sarebbe stata l’ultima del mio Camino; l’indomani avrei preso l’autobus che mi avrebbe portato a Santiago di Compostela.
Al termine della salita aggirai un basso caseggiato in pietra grigia, e mi trovai davanti la facciata alta, elegante e severa della Cattedrale di Santa Maria de Regla di Leon. Entrai dalla porta nord, sopra alla quale, all’interno, si trova la stupenda Madonna del Dado. Era il 2 giugno, la luce del sole entrava dalle 100 vetrate che corrono lungo il perimetro della chiesa. Seduta guardavo, abbagliata, la vertigine verticale della navata centrale attraversata da una sinfonia colorata di raggi luminosi, e provai una sensazione unica: sentivo  palpabile, il legame d’amore di quel popolo verso il suo Dio, che mai come il quel luogo di vuoto e di silenzio, io percepivo come corpo solido e avvolgente. Erano le tre di notte quando, nel Monastero delle suore Benedettine situato nella Plaza do Grano, fui svegliata dal pianto sommesso della vicina di letto. La sera precedente avevo salutato alcuni degli amici che avevano fatto con me un tratto del Camino, ma solamente ora comprendevo le conseguenze della mia decisione. Quel giorno avrei preso la corriera che mi avrebbe portato a Santiago e il giorno successivo l’aereo per l’Italia. Il mio Camino era finito ed ero stata io a deciderlo. Lasciavo insieme al Camino, ciò che nel Camino avevo trovato, che mi era stato donato e che avevo donato: l’Amore. Quell’amore che si manifesta nell’ascolto, nell’accoglienza e nell’aiuto reciproco tra persone che fino a quel momento non si conoscevano. Questo mi aveva donato il Camino, con la cura dell’ospitaleros, con l’affetto di Chiara di Milano, che mi ha lasciato lungo il Camino, su una pietra, un mezzo bocadillos, di Patricia che abitava a Londra, di Enrique di Siviglia, di Ana che vive in Australia, di Erika e Ianneke che venivano dalla Germania, di Gianluca di Ferrara, che avevo incontrato a Pamplona nell’ostello Municipal proprio nel momento in cui era bloccato da una tendinite e aveva bisogno di conforto, e di tanto altri e di altre di cui non sapevo il nome. In quella camerata, al buio, sdraiata sul letto numero 100, fui travolta dall’emozione, la stessa emozione che mi aveva preso un anno prima davanti alla Cattedrale di Santiago. Piansi a lungo, mi sentivo piccola, piccola, in un mondo pieno d’amore, di quell’amore che ogni essere umano porta dentro di sé. L’avevo conosciuto sul Camino e l’avrei per sempre portato dentro di me insieme alla consapevolezza che, per quanto avessi camminato nella mia vita, mai avrei potuto incontrare tutte le persone del mondo, conoscerle ed amarle; e per questo mi disperavo. Solo in quel momento mi fu chiaro il vero motivo che mi aveva portato, camminando, fino a Leon. Mi calmai. Guardai, con gratitudine, le scarpe da montagna che avevano sostenuto i miei passi, aprii lo zaino e cercai sul fondo il libro dalla copertina di cuoio che recava incisa la conchiglia di Saint Jacques. Lo aprii, diressi la luce della torcia sulle parole con cui l’autrice chiudeva la sua storia: “Anche nei tempi oscuri abbiamo il diritto di attenderci una qualche illuminazione. E’ molto probabile che ci giunga non tanto da teorie o concetti, quanto dalla luce incerta e spesso fioca che alcuni uomini e donne, nel corso della loro vita, avranno acceso in ogni genere di circostanza, diffondendola sull’arco del tempo che fu loro concesso di trascorrere sulla terra.” Hannah Arendt “Buenos dias!”: Rispondo con un sorriso alla giovane ostess che mi da il benvenuto sull’aereo della compagnia Iberia che mi riporterà a casa, in Italia. Veste un’uniforme di colore rosso; è rosso, il berretto, messo alle ventitré, sui capelli neri che, riuniti a chignon dietro la nuca, lasciano scoperto il bell’ovale del viso; pure di colore rosso sono le scarpe con i tacchi a spillo. L’aereo si alza in volo sopra la città di Santiago. Mentre le guglie della Cattedrale spariscono sotto le nuvole bianche di latte, vola verso il confine con la Francia. La catena dei Pirenei scorre veloce sotto di me. Le cime più alte, ancora innevate, mi riportano alla memoria Roncisvalle all’alba del mio secondo giorno di Camino. Prendo dallo zaino il diario scritto, ogni sera, alla luce della torcia. Lo tengo a lungo tra le mani prima di aprirlo. Poi lo sfoglio lentamente e rivivo i momenti di un’esperienza unica e indescrivibile.

Mi soffermo e leggo: tappa 23 – mercoledì 2 giugno dell’Anno Santo 2010 – Leon. Sulla pagina, scritta a matita perché il caldo della Meseta ha reso inservibile la biro, facendone uscire tutto l’inchiostro, spicca il disegno di una piccolissima conchiglia. Sfioro con le dita il foglio che mantiene uno spazio bianco. Quasi una carezza materna. Chiudo gli occhi e, in quel bianco,
mentalmente scrivo: se vuoi sapere dove sta Dio/ cammina fino a Leon/ ed è l’amore che/ ti tiene lì/ ti prende al petto e/ ti trasporta dentro/ a cosa e a chi non sai/ ma senti/ è quell’amore che/ ti prende/ quando con Dio fai/ all’Amore e/ non sai non senti dove/ infinito finisce Lui/ finito inizi tu.

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foto da “chagall – sogno di una notte d’estate”

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Mariella Smiroldo

LA NOTTE CHE MORI’

La notte che morì mio padre
-ero bambina allora-
mia madre raccontò di averlo sognato
tramutato in uccelletto sul davanzale di casa
guardiano alato dei sogni familiari.
Sempre, da quel giorno,
spargo briciole su ogni davanzale.

Seppure mai mi sia capitato di vederlo.
Nemmeno oggi, che in questo freddo sole
l’albero fuori casa è affollato da frettolosi uccelli migratori.

Un sogno portatore di dolore

Anche tu, padre,  sei risorto
dopo i tre giorni di prammatica,
ed  ancora mi chiedo
se ad un  sogno saturnino
appartenesse  il grigiore del tuo viso,
o all’attraversamento della  notte .

Stamane però ti  chiedo
di tornare  a quella pietra
che immobile doveva restare
opaca  alla luce lunare.

Già  una ferita porto, incisa nella carne,
lattea  tossina  ne distilla.
Non saprei come porre rimedio
ad  altro  dolore
ad una presenza che non c’è.

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foto da “chagall – sogno di una notte d’estate”

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Pasquale Musarra

DALLA PAROLA AL TEMPO

 

Nelle notti di luna puttana
i sogni nutrono la carne,
mordono,
con denti macchiati di voglie
il culo del vento.
Sembrano fuochi
partoriti da bocche affamate
per viziare lampioni di cemento,
piazzati, là, nel cuore del mare.
I sogni sorridono e danzano, a volte,
su scene di luci
irradiate da finestre socchiuse.
Alleluia, ai sogni che dormono,
nascosti tra cuscini di sonno
per rendere omaggio
ai vecchi canuti e alle loro gesta d’amore.
Evviva ai sogni
che brillano di luce sanguigna
tra i fumi di un movimento nascosto.
I sogni sono le bocche delle verità
che mangiano carne,
e a volte cantano
e non ascoltano gli orologi della musica,
perché non conoscono parole.
Quando si svegliano,
i sogni,
non sognano più!!!

da Matelica. Dalla parola al tempo… la fine della poesia- 2012 (Armando Siciliano Ed.)

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foto da “chagall – sogno di una notte d’estate”

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Francesca Cannavo’

I SOGNI SOGNANTI

 

I sogni del popolo del coraggio
inseguono
autostrade trafficate
in quei sogni
i bambini vanno a scuola
per imparare a leggere
i libri scritti da penne magiche

Quando vogliono,
loro, i coraggiosi,
sognano dormendo forte,
ma quando si svegliano,
aprono gli occhi su paesaggi indicibili

quel popolo comincia subito,
presto, al mattino a cantare
nenie ai loro bambini
custoditi dentro le orecchie,
e tracciano dei ponti
segni di numeri
e matematiche esatte alla virgola
lungo deserti insidiosi
e mari impossibili

la gente del popolo del coraggio
danza dei sogni speciali dentro la musica
al ritmo di esplosioni
e di cembali
e se ne nutre ad oltranza
tappandosi le orecchie
fino a diventare pazzi.

I pazzi , però, non vendono le proprie ragioni
nelle scatole dei supermercati
riempiono i loro arsenali di sogni
in attesa della guerra giusta

E che dire poi, quando si accorgono
che i loro sogni diventano spine
e che vanno tolte dalle carni
e gettate al vento
e raccolte su fogli di carta
e date in pasto alla derisione
dei codardi
insieme alle carni
che stillano linfa e perdono.
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INDICE DELLE AUTRICI E DEGLI AUTORI della raccolta UN SOGNO COSI CHIARO- Cartesensibili Natale 2018

Leopoldo Attolico

Jacques Brel

Francesca Cannavò

Davide Cortese

Fernanda Ferraresso

Adriana Ferrararini

Federica Galetto

Giovanna Gentilini

Lucia Guidorizzi

Antonella Jacoli

Marisa Madonini Peviani

Pasquale Musarra

Milena Nicolini

Maria Grazia Palazzo

Toni Piccini

Mariangela Ruggiu

Simonetta Sambiase

Mariella Smiroldo

Rita Stanzione

Hugo Von Hoffmansthal

Anna Zoli

 

 

9 Comments

  1. L’ha ribloggato su Il Golem Femminae ha commentato:
    Eppure quel sole, che brucia dentro ognuno di noi, che è la vita stessa nella sua interezza, brutale e amabile, imprevedibile e feroce, inarrestabile e monotona nella sua ripetitività ciclica, ancora porta qualcosa che è il germe di un sogno così chiaro che ci spinge tutti lungo il filo dello spaziotempo, in un cosmo disegnato da sotto da sopra e da dentro e tutto intorno ri-voltato verso questo o quello, punti dei cardinali nostri bi-sogni, cioè gli altri, che siamo sempre noi, un io moltiplicatosi ed errante, sempre incapace di completo miglioramento, senza perfetto che non sia ciò che già è stato fatto e non è futuro incasellabile, in programmi e decreti di stato, perché tutto cambia da un momento all’altro e ciò che era nero può farsi bianco….

  2. Magnifica Fernanda che spargi cristalli di luce e ognuna ognuno di noi ne ha preso un pezzetto e l’ha fatto brillare dentro a una veste di parole!

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