T9 – LE PAROLE INCOMPLETE- Lavinia Frati e Paolo Gera riflettono su una poesia di Giovanni Testori.

lombardia- fiume oglio

 

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Giovanni Testori, da “I trionfi”

VIII

 

La calma, dolcissima caduta dei cementi;
la caduta solenne delle case, dei petali di fuoco
che i raggi rimandano dai vetri;
l’antica, fatale caduta delle piazze sulle strade,
delle strade sulle piazze,
dei nodi di radice e strame, giù,
dentro il corso dell’acqua,
non per cercare nutrimento o vita
ma solo pace
o forse l’invocata, attesa morte;
l’antica caduta dei platani
e dei pioppi
nelle falde solenni della terra
che l’acqua sfiora e lascia,
come tutto qui,
sia onda, amore
o anche disumana, impudica menzogna;
la dolce, calma, progressiva caduta
dei secoli nei secoli e millenni,
il rumore vano che lascia dietro di sé
il mondo
ed il silenzio;
non più
e non diverso da quello che s’è aperto
in me, per te,
proprio come di ciò che è stato
o sarà per sempre…
E così,
benché insieme, dal silenzio,
nel silenzio infinito del frastuono;
verso dove,
da dove?
Pensa che questa strage o accozzaglia terribile
di chi va e viene,
sia ferma, anche se mobile,
per sempre
o forse già passata
anche se esiste;
pensa che non sia più prigione,
cieca cancrena di motori, anime e onde,
ma stasi…
E’ possibile? –
dici.
Sospiri di labbra appena nate;
timide,
supreme gioie…
Nella calma ondulante del gran fiume
si rovescia la lucente figura
che s’incarna nel tuo sangue,
il suo slancio di folgore, per me
e per quanto, con me, avrà quaggiù
o non avrà più mai un senso.
Brucia ogni istante l’onda
intorno alla tua fiamma;
ti ronzano alle spalle bellezze delicate,
vergini, fatui albori
di questo lento meriggio di febbraio…
Dolce la Senna ti sfigura, rovesciato,
ondulato da brividi continui
e sussulti;
l’incendio dei capelli s’attizza,
piano, piano,
anche al gran fiume,
ne illumina con furia la fangosa ampiezza
e divampa, d’onda in onda,
fino a raggiungere, di colpo, l’altra riva
perché tutto, amore,
si parte, qui, da una sola sponda
per giungere poi a un’altra –
non che sia sempre così,
Senna,
Acheronte;
nessun traghetto porta più
con certezza ferma
da una all’altra riva,
ma il sangue,
il caro, amato e disamato sangue sì,
e la ragione inconoscibile ed eterna che reca in sé
di madre in madre,
perché siano altre madri, sempre,
ed altri figli;
e perché qui non finisca,
né oggi, né domani,
la storia dolorosa,
l’antica, cupa storia dell’onda,
da come parte
a come arriva
per tramutarsi nuovamente
in lagrima di Dio,
nascita,
bestemmia…
macchine, ruote, fasci, folgori di lampi,
meccaniche violenze,
vuoti laceranti all’orecchio
di chi nacque in pace,
caverna o foresta,
muschi o pietra,
quasi lupo;
e se no,
che altro?
Può darsi che qui, sotto di noi
ed anzi in noi,
gridi ancora e ancora si lamenti
l’offesa della bestia
tramutata in anima veggente;
e latri.
Impudica, oscena bestia
che non ha più pace,
benché immobile ti guardi,
così di carne, presso me,
e d’onda giù, acqua e fango,
nel cadere di tutto dentro il fiume
(rami di platani neri, barche,
finestre di passanti, visi,
braccia, voci);
dico, benché ti guardi
e pensi
che questo muoversi è vana stasi
solo che tutto si fermi, come può, d’un colpo
o mai…
Che senso avrà diverso
riposare da prima della nascita
e per sempre
nella bara d’un grembo suicida,
nel groppo d’un bianco fazzoletto
gettato con rabbia o indifferenza
di là dal finestrino,
o agitarsi, invece, da dopo la nascita
e per poco
nella pazzia d’ombre infinite,
infiniti evirati di ciò che Dio
mise in noi
o il tempo,
affannosamente portandoci, come a braccia,
di stadio in stadio;
dico che differenza nel vero dello Spirito,
non nell’atroce pianto di chi nasce,
ama una vita non voluta,
i giorni ama, le ore,
i simboli d’una fede appresa e criticata,
gli occhi dolci, reali,
i sogni,
le chimere,
i precipizi degli sguardi candidi e innocenti?
Latrano orrende, infinite bestie
nelle dita che muovono i volanti,
nei piedi che decidono la corsa
delle auto colorate, indifferenti,
dove si stampano cadaveri improvvisi e teschi,
omicidi impuniti della nostra incivile civiltà
che urla
nelle opache sirene, nei lamenti meccanici
di chi chiede, pretende il passo…

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lombardia- fiume oglio

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Che passo?
E verso dove?
Bestie, lupi, rane,
lucertole stanche ed assonnate,
dall’occhio di bue squartato,
dementi tutte, come al primo giorno,
restano ferme, tutte,
al tempo più che antico,
al tempo che si svolse in vita di là da sé,
alla non storia…
Venne da lì la luce,
la bellezza;
non solo Venere e Apollo,
ma la bellezza domestica, offesa,
sacrificata al dolore e all’affanno.
Venne da lì, onore;
o dalla creta che si plasmò
nelle mani immense del Dio.
Che differenza, intendo, che fosse creta
o verme;
terra
o strisciante anguilla viscida,
nera;
sabbia, tigre,
cane?
E’ lì, guarda, fermo;
e tu lo vedi sui bordi stretti d’arida pietra;
fiuta la nostra storia ridicola di cristiani
che rincorrono nel nonsenso dell’oggi
il senso d’un occhio antichissimo,
bue, lucertola verde
o lupo,
occhio perduto nello sguardo
e poi redento alla coscienza e alla luce;
fiuta dai paracarri di cemento,
zebrati a lutto,
e, indifferente e libero, orina;
tutto si mescola giù, nel fiume,
come su, nei boulevard, nelle piazze;
il fazzoletto che galleggia
(un giorno qui, proprio qui,
tu lo saprai,
vedremo stendersi un corpo umano immenso,
gonfiato,
l’annegato, diranno, per infame miseria,
troppo amore
o semplice allegria;
nudo sotto i pantaloni di tela,
ricoperto d’un semplice cappotto,
smangiato dalla sifilide dei vini)
e il tuo corpo, giù,
d’angelo che prosegue a vivere nell’onda;
e la gioia dell’acqua
d’abbracciarti, per un attimo,
immagine appena,
mentr’io, fra poco,
benché pensi che mai finiscano
i latrati antichissimi dei cani
ed in quel punto,
quando t’ho avuto,
quando ancora t’avrò,
la demenza sia a pari,
equilibrio difficile di sangue,
tra demonio e Dio,
terra e tigre
angelo e dannato…
La nostra storia si forma così,
come la tua bellezza
che si sdoppia nel fiume
o la mia vana, incipiente maturazione;
è qui
e nel contempo è giù, rovesciata,
la stessa, non solo vista,
ma esistente nella lotta delle opposte ragioni,
le segrete ragioni dei padri e dei sepolcri,
delle distrutte città di pietra e di cemento,
dei nodi di radice che salgono
e ricadono, stanchi;
è giù;
più giù del letto immenso della Senna;
più giù dell’abbraccio tra me e te,
appena qui si sarà fatto buio
e nessun occhio ferirà l’istinto infallibile
di chi ama;
più giù delle caverne degli avi,
delle tombe dei re, dei principi
e gitani;
più giù dell’ossa dei martiri
inumati in vesti di zaffiri e brillanti;
più giù delle perse fondazioni;
più giù dei battesimi
e dei circhi dei cristiani;
più giù dell’oblio dove si getta
ogni colpa e ogni male,
colpa e male
che a galla poi risalgono
come là, dal finestrino,
il fazzoletto che strozzò il cadavere
del non nato,
nel bosco, in cui, di colpo, fu lasciato
al cauto ingresso della volpe
che, uscita a stento dal letargo,
si destò, miele d’argento,
dalla sua cuccia di foglie antiche e strame;
più giù degli antichissimi abissi delle renne
dove gemono rosa lumache e cieche,
ciechi e rosa protei del Carso e di Postumia,
flabelli di carne asessuata,
carne che mai fu bestia,
che mai latrò, con noi, qui,
cupi cristiani senza fede
o il cane che lecca, ora, furibondo
il suo liquido in fermento
e annusa fetori più funesti
d’orine tragiche ed umane;
più giù di dove arriva la mente senza senso
della bestia che tu scacci,
benché ti chiami da lontano,
latrando
(ma tu guardi più oltre
e forse pensi che un giorno,
finita questa corsa qui, da te,
io fugga come un’ombra,
in ladro;
ti copre il ciglio
un velo di rabbia dolorosa
e il pianto…;
pensa, il pianto di chi vive
e non sa,
né può lasciare
la parte sua di vita,
benché ancora non sappia
o comprenda già forse
che capirà un giorno l’atroce sforzo,
l’agonia d’ogni giorno
per giungere come ombre
fino a sera);
più giù dei fuochi disumani
che rombano,
derimono e spaccano le croste delle cime,
invisibili
benché giù, rovesciate,
d’altezze immisurabili in abissi
e tuttavia con meno sacra gioia di me,
di te,
che t’alzi qui, seduto, o precipiti
facendo e disfacendo la tua immagine
a ogni spinta che, venendo e rivenendo,
si fa calda, impetuosa vena d’acque
nell’immensa città,
e tuttavia con meno sacra gioia di me,
di te,
che t’alzi qui, seduto, o precipiti
facendo e disfacendo la tua immagine
a ogni spinta che, venendo e rivenendo,
si fa calda, impetuosa vena d’acque
nell’immensa città,
Parigi, Chartres,
o nulla,
se tu non esistessi qui,
per me –
così avido e possessivo sono,
quantunque sappia bene ormai
che tutto esisterebbe senza noi
e senza il tutto stesso;
altro, che siamo,
se non inesistenti ombre,
crocifissi figli d’Adamo
o crete,
lupi,
scimmie blasfeme
che dalle sbarre del Giardino
mostrano da secoli a innocenti occhi
le oscure, atroci verità
dei disastri animali?
Più giù dei sepolcri del nulla;
più giù delle frantumazioni d’ossa,
crani e teschi mai apparsi alla vita;
più giù della scomparsa lenta, fatale,
del pensiero che decise,
fosse bestia
oppure celeste forza,
che d’un tratto,
benché s’agisse di millenni,
un moto d’esistenza o quasi
(giù, qui,
dove?),
vibrasse,
erba che punta dallo strame,
sollevazione irresponsabile di cellule vergini,
prative
(no,
non i tuoi petali e fiori,
che son già strazi e urli di cristiani
o postcristiani.
Io non so,
e nessuno,
rispetto al disegno infallibile e infinito,
in che epoca, con esattezza,
noi viviamo).
Un moto, sì;
due labbra che s’aprano;
il sussulto di terra
quando sotto vi scorre
il dorso viscido dei topi;
il battito, a cuore e polso,
di rane verdi, braccate;
ma dove?
Come?

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Lavinia:- I “Trionfi” di Giovanni Testori è l’opera che prediligo di questo grande poeta, drammaturgo e narratore. È un verso senza limitazioni il suo, che apre abissi dentro cui si può osservare la materia crepitare, vivere di una sua vita, manifestarsi in tutte le sue forme, un magma incandescente che lacera, richiude e modifica tutto ciò che percorre.
Il pensiero è costretto a questo inseguimento veloce, a questa corsa in cui, a volte, si arranca: poi avviene che un verso rimanga incagliato ed inizi a risalire ed a trovare conforto nella nostra triste contemporaneità “omicidi impuniti della nostra incivile civiltà/che urla/nelle opache sirene, nei lamenti meccanici/di chi chiede, pretende il passo…”.
Trovo sorprendente la potenza di cui è intrisa questa opera, potenza che non nasce dall’utilizzo di una metrica ad aiutare e assicurare il verso in porti sicuri; al contrario, proprio lo sfondamento dei canoni poetici dà ancora più energia e impenetrabile coesione all’intera impalcatura che, però, non è una struttura fissa, bensì ondeggiante, fluttuante, capace di guizzare nella mente di chi legge, di far afferrare l’inafferrabile.

Paolo:- L’immagine del fiume che trascina, trasforma, fa sprofondare in meandri inaccessibili, è un ‘topos’ poetico a me fra i più cari. La prima immagine che si affaccia alla memoria è quello di Bonconte da Montefeltro, canto V del Purgatorio, e del suo corpo mai più ritrovato, trascinato dalla piena dell’Archiano nell’Arno, che custodisce per sempre le sue spoglie: “voltòmmi per le ripe e per lo fondo, poi di sua preda mi coperse e cinse”. Mi è cara la fine tragica e al tempo stesso delicata di Ofelia (“e lei, come una sirena, cantava spunti di melodie antiche, inconsapevole della sua sorte, o come creatura immersa nel suo naturale elemento”) e ho un legame di iniziazione alla poesia con il Tamigi di T.S. Eliot. Tra i poeti contemporanei Fernanda Ferraresso riprende il tema dell’acqua che al di là di ogni umana paura e pazienza, trasforma biologicamente l’essere accolto e lo ricollega al Tutto:” Non visti, per quasi duecento anni, rimanemmo immersi. Quando altri nello stesso quadro si tuffarono dal presente ci credettero un’altra specie. Microrganismi e pesci ci avevano eletto a loro dimora. Il chiarore delle ossa si era intinto della densità blu del profondo. Eravamo anche noi sassi, ossa del corpo del mare” (da “Nel vano delle parole”, 2018).
Il fiume è per Testori metafora del tempo che, indifferente alla distinzione e alla individuazione, fa crollare in sé ogni segno materiale del nostro mondo a cominciare dalla miriade degli uomini. È interessante allora che venga citata nei suoi versi proprio la Senna, che stabilisce una specie di legame tra il destino immutabile dei viventi, così come è sempre stato, e quello innescato dall’epoca moderna, dalla nascita della metropoli e dalla sua pullulazione interminabile:” Pensa che questa strage o accozzaglia terribile/ di chi va e viene, / sia ferma, anche se mobile, /per sempre/ o forse già passata/anche se esiste;”. La Senna ha preso su di sé il significato del transito acheronteo tra la vita e la morte e Parigi, capitale del XX secolo, è la città delle masse vive e morte evocate da Elias Canetti o con le parole di uno dei suoi ospiti più illustri, Walter Benjamin, la testimone dell’impossibilità del racconto dopo lo choc esistenziale della prima guerra mondiale, dove la morte miete indifferente, senza più nessuno senso o slancio epico, milioni di vittime. Resta però, sul fiume del mito, la testa di Orfeo che sulla sua lira continua a cantare e a produrre poesia in sfregio al destino e alla fine già sentenziata, per lui e per tutti.

Lavinia: Indubbiamente l’acqua è qui elemento essenziale: è un “divenire”, un flusso non solo, nella sua forma più arcaica, di vita, ma anche di morte, intesa non come fine del tutto ma come modifica del presente: un po’ come avviene nella natura dove tutto diviene qualcos’altro (Il frutto che cade diventa cibo per gli insetti, che diventano cibo per gli uccelli…e così via, all’infinito). È questo che affascina nella poetica di Testori: un continuum che rimanda al verso successivo e poi ancora a quello dopo, senza possibilità di interruzione. Una visione a tutto tondo, come se la poesia si potesse far diventare liquida e mescolare, così come un pittore mescola, su una tavolozza grezza, i colori tra loro, mantenendo però le varie sfumature ben evidenti. E più tutto è evidente e più è destabilizzante per chi legge: la sua poesia mi rimanda alla memoria la recitazione di Carmelo Bene o, nella pittura, le immagini di Francis Bacon ( a quest’ultimo Testori dedicò numerose poesie). Proiettili che raggiungono lo scopo di lacerare questa cortina grigia a cui la nostra mente è, ormai, avvezza. La simbologia usata dal poeta (La croce, l’angelo, le bestie sapienti, le fiamme) non credo debba essere interpretata nel senso, forse anche più immediato, della fede religiosa: piuttosto è utilizzata per narrare della fragilità umana, di un senso di comunanza che ci fa tutti Cristi a penzoloni della propria croce, in balia del proprio tempo. Andare “più giù” è forse il solo modo per arrivare alla verità: una introspezione che costa fatica, dolore, ma che libera e fa “uscire dal letargo“.

Paolo:- Il saper risalire a un giacimento di archetipi e quindi determinare un proprio repertorio di immagini simboliche, credo sia una delle mansioni principali a cui sia chiamato un poeta. Se l’operazione di messa a fuoco risulta chiara, il linguaggio della poesia risulta universale e nasce il miracolo del riconoscimento del lettore. I simboli di Testori sono forti e universali; non occorre scomodare gli studi di Jung o Bachelard per accreditarne il valore. La matrice cristiana di Testori ha intrapreso la strada di un umanesimo scandaloso e sofferto in cui la carne urla, senza mediazione, sia sua sorte il dolore o il piacere. Bacon ne è un perfetto contraltare pittorico, come nel passato figurativo, Caravaggio. Per quanto riguarda l’acqua e il suo duplice ruolo di annientatrice e purificatrice, sembra che i nostri tristi giorni ne stiano accentuando solo l’aspetto negativo e questa mancanza di equilibrio, questa prevalenza polare, ricade con le sue terribili conseguenze sulla vita degli uomini. Piove e tutto viene travolto e trascinato via, le cose e le persone. Il mare, male affrontato nel nome di un profitto schifoso, risucchia l’esistenza dei disperati che fuggono dalla guerra e dalla miseria. Davvero l’acqua sta diventando scura, torbida, criminosa e troppi sembrano voltare la testa di fronte a tutti questi diluvi quotidiani.

Lavinia:- Sull’osservazione relativa ai nostri giorni, vorrei ulteriormente soffermarmi. Mi sono domandata spesso quale sia la funzione del poeta: penso che non possa essere ridotta a mero narratore di emozioni, di sentimenti delicati, di mondi utopici in cui, chi legge, possa identificarsi e godere di una visione del reale quasi sempre molto lontana dal normale vivere. Deve invece far riflettere anche sulla sozzura del mondo, su quello che non si ritiene etico. Mi domando come si possa rimanere rintanati nel proprio microcosmo, senza parole per l’attualità, per coloro che, oggi, sono spinti dalla fame o dalla guerra, lontano dalle proprie terre e che, per questo, perdono la vita o si ritrovano confinati in campi di prigionia depredati dei più elementari diritti civili. Certo, è più semplice parlare di ciò che si conosce ma, ciò che non lo è, è proprio quello che necessita di essere detto. È pur vero che risulta più facile opporsi a un regime politico, qualunque esso sia (come, in passato, fecero, con la loro scrittura, Maldel’stam, Celan, Aleramo, Calamandrei e tanti altri) che ad un regime economico che non ha ideali, se non quello di aumentare e preservare la ricchezza dei più forti. È necessario essere la voce di chi è ammutolito e, oltre al proprio vissuto, parlare di noi esuli, di noi rifiutati, di noi violentati, di noi affogati a testa in giù, sulla riva di una spiaggia, nel tentativo di sfuggire alla guerra o alla miseria.

Paolo:-  È bello che nelle tue ultime righe la tua ‘compassione’ sia tanta forte e forte la tua esigenza di denuncia, da portarti all’identificazione con la massa di uomini e donne che subiscono sulla propria pelle i torti voluti da una fallace distribuzione della ricchezza e da una ragione di stato sempre meno aperta alle esigenze degli altri. Infatti, nel tuo slancio di umanesimo, dici “noi”, invece di “loro”. E ancora una volta questo T9, come gli altri che lo hanno preceduto, termina con l’esigenza per la poesia di non chiudere gli occhi di fronte all’attualità e di trovare parole necessarie di presa di coscienza e di denuncia. Testori alla fine del suo poema, scrive di “due labbra che s’ aprono”, ma a unire la prospettiva del dolore umano a quello della natura intera, aggiunge anche “il sussulto della terra quando sotto vi scorre il dorso viscido dei topi; il battito, a cuore e polso, di rane verdi, braccate;”. Certo, dal diluvio corrente si alza un urlo di protesta dell’intero Creato, stanco, sfinito. Labbra appena socchiuse, passi rapidi, pulsazioni. Sono segnali delicati, sos appena percepibili. L’orizzonte di speranza, l’Ararat  che sorgerà si ferma davanti all’interrogativo finale del dove e del come. Probabilmente sull’arca futura, se mai ci sarà, saliranno donne e uomini acefali, la cui ragione mozzata si agiterà ancora un po’ come una coda di lucertola, per far rinascere là sopra una nuova testa , non capo, non dominio, antenna capace di captare le onde fragili di ogni esistenza e di ogni destino già segnato, minuscolo, enorme, umano, animale, vegetale.

Paolo Gera

2 Comments

  1. Saggi, illuminanti e spronanti, vi ho letto con piacere. Molto contenta del testo proposto e delle vostre riflessioni. Invito voi e i vostri lettori, allora, a leggere la presentazione che, qui accanto, Antonella jacoli fa della poeta siriana Maram-al- Masri. Sorelle a voi e a Testori.

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