locandina invito Nel Giardino delle beghine
Nessuno nega che il nostro tempo di sempre più molteplici informazioni e contatti mediatici stia in realtà diventando un tempo di grandi isolamenti, di solitudine, di silenzio – se per silenzio si intende una parola che non è detta e che non è ascoltata, ma inviata e ricevuta senza corpo, disincarnata come l’apparenza che la contorna, suscettibile di più malformazioni che la parola in dialogo immediato, cioè da bocca a bocca. Non sembri che io stia negando l’importanza e le potenzialità dei nuovi modi del comunicare; solo mi preoccupa enormemente l’uso assoluto che ne viene fatto da troppi utenti; ricordo qui per tutti quegli eventi di violenza o di acquiescenza della violenza che se non addirittura motivati dalla prospettiva di apparire agli occhi di tanti, comunque sono stati proposti con un’indifferenza etica che fa paura. Mi preoccupa l’uso di controllo spionistico che ne fanno i grandi manovratori, per ragioni che – economiche o sociali o politiche o statistiche o chissà cos’altro – di fatto ci tolgono libertà e intimità e capacità di scelta consapevole. Più contatti, ben vengano, più velocità di dialogo, ben venga, più informazioni, certo è un bene, ma per far sì che gli uomini si incontrino meglio, interagiscano di più, diventino curiosi della differenza, attenti allo stare bene o male degli altri, in “compresenza”, avrebbe detto Capitini. Tanto, anche se non solo, fisicamente: con gli occhi negli occhi, il suono della parola dell’altro che vibra nel tuo orecchio e il fiato che porta la sua interiorità al tuo viso… tanta oralità, insomma, tanti gesti che smontano e ricostruiscono l’aria che sta intorno all’altro e a te, che a loro volta parlano come le parole: o almeno scrivere telefonare chattare ecc. col desiderio, però, di stare insieme sulla stessa molecola di terra, di fare insieme cose concrete del mondo, di toccare odorare gustare l’altro, piuttosto che limitarsi a immaginarlo.
Bene, a Matova, ci sono donne che si sono messe insieme per “promuovere iniziative mirate alla crescita delle donne attraverso la cura delle relazioni, momenti di condivisione, aggregazione, confronto e attività di scambio esperenziale”. Roba da non credere, d’altri tempi, roba da beghine. Proprio. Infatti non solo si tratta di “un giardino per incontrare, coltivare e custodire relazioni con donne di ieri e di oggi”, e di “una finestra per allargare lo sguardo sulla realtà dentro e fuori di noi”, ma anche di “un pozzo per attingere alle sorgenti che hanno dato vita alla libertà e alla sapienza beghinale”. Si sono date un nome bellissimo: NEL GIARDINO DELLE BEGHINE. Vedete? Non un’astrazione, ma proprio un invito ad un dentro, che è un preciso luogo di Mantova, da loro trovato, aggiustato, reso ospitale. Che è stato aperto/offerto il 27 ottobre 2018, in via Dugoni, 12. Mantova, naturalmente. Ora lascerò la parola direttamente a una di loro, Nella Roveri, ma vi prego di leggere anche tutte le importanti parole che le Beghine del Giardino hanno messo nel loro invito: parole, appunto, di invito, festa, incontro. Parole che spingono ad andare a fondo, cercare, informarsi, incontrarsi, provare a pensare un mondo diverso, provare a fare un mondo diverso. Io così intendo le parole di Ivana Ceresa (1942-2009), teologa mantovana, fondatrice dell’ordine della Sororità (di cui sarebbe bello parlare un’altra volta), citate nell’invito: “… essere beghine oggi è continuare la scelta di quelle donne, cioè vivere nel mondo senza essere del mondo.”, senza essere legati, intrappolati, manipolati, immobilizzati da un male del mondo che vorrebbe farsi credere immutabile.
Chi volesse più informazioni sull’associazione può rivolgersi
Dice Nella Roveri delle premesse di questo Giardino:
“L’idea di un luogo di Beghine a Mantova nasce tanto tempo fa dall’interesse che abbiamo coltivato per il mondo beghinale e l’idea di libertà che queste donne del Medioevo hanno saputo esprimere. Molte di noi (donne degli Horti, Sororità, donne comunque in sintonia con il pensiero della differenza …) hanno letto i testi che sono rimasti di alcune di loro (Margherita Porete, Hedewijch, Matilde di Macdeburgo…) e Monica Palma, per le tre che ho messo tra parentesi, ha scritto e agito un testo teatrale. Martina ha scritto la icona. Ci siamo trovate a più riprese a ragionare sull’attualità della loro esperienza, abbiamo partecipato a un convegno nel luglio 2016 a Gargnano, sul lago di Garda, presso il Centro Europeo Convento San Tommaso: Bizzocche e beghine in Italia: ieri e oggi. In questo convento vive con il marito Silvana Panciera che è l’autrice di Le beghine. Una storia di donne per la libertà. Con lei siamo in contatto da tempo e verrà anche dopo l’inaugurazione per un approfondimento su questo mondo che ha conosciuto in modo diretto, attraverso ricerche condotte sul campo, per aver vissuto molti anni in Belgio. Diverse di noi hanno effettuato due viaggi in Europa (Belgio, Olanda e Germania) alla ricerca dei nuovi beghinaggi e del lavoro delle beghine di oggi. A Mantova il convento delle suore di Teresa Fardella ha spazi molto ampi e vuoti e la nostra nuova associazione “Nel giardino delle Beghine” ha acquisito in commodato d’uso e restaurato due ampi locali con entrata indipendente, nell’idea di avere un luogo di incontro aperto alle donne. Martina Bugada ha generosamente messo a disposizione la somma necessaria per i restauri e l’arredamento. Inaugureremo la sede il giorno 27 ottobre e vorremmo che tutte le amiche con le quali siamo state in contatto in questi anni fossero presenti, per avviare uno scambio, alimentare proposte, costruire reti di collaborazione.”
E in occasione dell’inaugurazione, così ancora Nella Roveri:
“In una lettera recente, Silvana Panciera, che è qui e che, spero presto, ci parlerà ben più dettagliatamente di me dell’esperienza dei beghinaggi in Europa, descrive un suo soleggiato pomeriggio di settembre a Parigi, al quartiere Le Marais e sottolinea come nessun segno sia rimasto del beghinaggio che qui fu vivo tra il 1260 e il 1471. Poco più in là, continua Silvana, c’è la Place de l’Hotel de Ville che, nel 1310, si chiamava Place de Grève e fu il luogo del rogo su cui fu bruciata Margherita Porete. Resta lì un caffè d’angolo che si chiama “Marguerite”, ma nessuno sa se sia per ricordare la beghina Porete o per caso.
Anche qui, per noi, non è sempre immediato portare alla storia il nome “beghina”, più facilmente suona come epiteto per una figura di ligia osservante un po’ stupida, in disparte, chiusa in sé, poco avvezza ad aprirsi al mondo.
Da molti anni per noi questo nome ha altro significato: da quando abbiamo cominciato ad avvicinarci al pensiero della differenza, sono diventati famigliari nomi di donne antiche, molte definite “mistiche”, tante, tra cui le beghine con la loro scelta di vita e con i loro nomi: Hadewijch di Anversa, Matilde di Macdeburgo, Margherita Porete, Angela da Foligno e tante altre. Delle prime tre vedete qui le icone di Martina e qualcuna ricorderà le azioni teatrali di Monica Palma.
Sia pure in modi differenti, tutte hanno compiuto scelte che non stanno nel canone della vita religiosa, della monaca, e neppure nella “normalità” della vita di sposa e madre.
Hadewijch, fine poeta flandro-brabantina, forse di Anversa o forse di Bruxelles, di estrazione probabilmente aristocratica, certamente molto colta, come attestano le Lettere, le Poesie e le Visioni che ci ha lasciato nella lingua antica della sua terra, è a capo di una associazione di pie donne nella prima metà del XIII secolo. È uno di quei gruppi assiduamente controllati dai difensori dell’ortodossia del tempo, perché la caratteristica fondamentale di queste donne è che in ciò che esprimono non vi è nulla della savia trattatistica normativa del loro tempo, che pretende di mettere ordine e dettare regole in una realtà così segreta e sfuggente, così imprendibile e imprevedibile come l’amore, ogni amore, non ultimo l’amor di Dio. E tutto il movimento è senza regola, senza fondatrice, senza storiografia. Niente in Hadewijch rimanda a quella precettistica/casistica escogitata da innumerevoli maestri nel corso dei secoli; in Hadewijch l’amore è assoluto, in presa diretta, non teorizzato, ma vissuto in totale gratuità e sconcertante imprevedibilità e immediatezza, trepido e fiero, ineffabile, ma detto e ridetto con forza, insicuro, ma capace di coinvolgere con slancio e ardimento.
Amor giunge e conforta; vien meno, e atterra;
e perciò l’avventura ci duole.
Ahi, come Tutto con tutto si stringe.
Non lo sanno, codesto, i profani.
Matilde di Macdeburgo scrive:
Non posso e non voglio scriver nulla,
se non vedendolo con gli occhi della mia anima
e ascoltandolo con le orecchie
del mio spirito eterno.
Nasce intorno al 1210, da una famiglia agiata e colta della Sassonia. Lascia molto giovane la casa paterna per inserirsi in un beghinaggio di Macdeburgo, dove conduce per trent’anni una vita dedita alla preghiera e ai suoi straordinari incontri con Dio. Comincia con un’immersione fisica e topografica nella città; libera da convenzioni, da obblighi e dal controllo sociale molto presente nella realtà rurale, la coscienza raggiunge l’autonomia, fonte interiore e tangibile del comportamento personale. È questo che consente alle beghine di godere della loro sorprendente libertà.
Su richiesta del suo confessore, trascrive la sua esperienza spirituale, il suo frequente incontro con Dio, nel libro La luce fluente della divinità che le procurerà, accanto a molti ammiratori, anche una grande opposizione nell’alto clero. Queste critiche la costringono a lasciare il beghinaggio per ritirarsi, umiliata, lei che aveva rifiutato la comodità e la sclerosi del convento, nell’oasi cistercense di Hefta, dove muore nel 1282.
Margherita Porete è nota solo attraverso gli atti del processo che l’hanno portata al rogo. Gli atti non fanno il suo nome; ci è noto dai cronisti dell’epoca che parlano di una beghina Margherita, detta Porete, nata presumibilmente verso il 1255 e presentata come persona colta, letterata e fine teologa. È probabile che vivesse a Valenciennes, dove il beghinaggio si occupava dell’ospedale di Santa Elisabetta, poiché il suo libro, Lo specchio delle anime semplici, viene bruciato in quella città, senza che se ne sappia la maternità, e alla sua autrice viene impedita la divulgazione delle tesi in esso contenute. Evidentemente Margherita non si piega all’imposizione delle autorità ecclesiastiche e, dopo pochi anni, viene sottoposta a nuovo processo, finalizzato a cancellare ogni traccia del Mirouer. Questo libro circola comunque libero, nonostante i roghi, e viene letto come opera di un anonimo mistico francese del Trecento. In questi termini lo cita Simone Weil nei suoi Quaderni d’America e nei Taccuini di Londra, nel 1942 e nel 1943. Fino a quel tempo si era persa anche l’identità femminile dell’autrice, nonostante qualche passaggio autobiografico in cui essa esplicitamente si manifesta:
Ma cosa pensava colei che fece questo libro
e voleva che si trovasse Dio in lei,
per vivere esattamente
quello che lei avrebbe detto di Dio?
Sarà Romana Guarnieri, storica sapientissima e beghina della contemporaneità, a scoprire la vera autrice del testo. Dice: “… seguendo la pista brabantina di Ruusbroec e dei mistici eretici da lui combattuti, ebbi la ventura di poter identificare l’Autore, o meglio l’Autrice, di un’anonima versione latina del testo in questione, scoperta per caso in un negletto codicetto della Biblioteca Vaticana, dal titolo Speculum animarum simplicium in voluntate et in desiderio commorantium (Lo specchio delle anime semplici che dimorano nella volontà e nel desiderio). Ne diedi notizia sull’ “Osservatore Romano” del 16 giugno 1946”.
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In breve, molto in breve, tre storie esemplari che non definiscono i contorni di un movimento ampio nello spazio e di lunga durata nel tempo, un movimento in cui sono peculiari la determinazione a vivere senza le imposizioni che il periodo storico definiva: o sposa e madre o monaca al riparo dal mondo in un convento con precise regole.
Si tratta di una scelta terza, religiosa, dedita spesso a opere sociali rivolte alla parte più povera della società del tempo, di una vita ritirata in case singole o in luoghi in cui le case delle beghine si allineano con ordine, una accanto all’altra, intorno a un giardino: lo abbiamo visto nei beghinaggi di Gand, di Bruges, in altri ancora conservati in Francia, Belgio e Olanda e nelle foto che ci ha portato Raffaella dal beghinaggio di Bruxelles: piccoli interni domestici, con stufa, strumenti da ricamo, arredi semplici e confortevoli.
Ma non basta la nostra curiosità nei confronti delle storie di queste donne del passato.
Il 30 luglio del 2016, Silvana ha organizzato nella sua casa, che è il convento San Tommaso a Gargnano, un importante convegno in cui sono entrati i contributi di quanti studiano le beghine italiane e la loro storia; non solo, erano presenti anche le beghine di oggi che hanno raccontato la loro esperienza.
Nell’agosto 2017 poi si è tenuto a Breda, in Olanda, un convegno internazionale, dedicato alle beghine di ieri e di oggi. Diverse amiche presenti qui hanno partecipato incontrando donne che vivono oggi in beghinaggi. Già qualche anno fa alcune amiche avevano incontrato esperienze contemporanee. La conoscenza si è rafforzata in occasione del convegno.
Da queste esperienze e da questi incontri sono nate tante aperture, dall’evoluzione di una vita religiosa lontana dal convento e più attenta e coinvolta nei mutamenti sociali, all’idea più laica del cohausing, ma per me la questione di fondo è che queste donne, non a caso sepolte nella storia, dopo essere state bruciate, riemergono portatrici di una forza politica che vedo come unica a poter tener testa allo scempio della politica corrente. So bene che c’è un pezzo di utopia in questo, ma continuo a pensare che è lì che dobbiamo essere, lì a scovare quello che non ci è stato tramandato della presenza delle donne, lì totalmente voltate dalla parte delle donne.
Intanto bisogna resistere al discredito diffuso che colpisce le storie quando queste toccano questioni spirituali; è molto diffuso, ha saputo spaccare l’esperienza femminista. Poi bisogna affermare quell’idea per cui un gesto, piccolo, può rovesciare le convenzioni e aprire uno spiraglio alternativo: la donna, di cui racconta Luisa Muraro nel suo libro Al mercato della felicità, attingendo alla tradizione islamica, che si presenta al mercato degli schiavi per comprare il bellissimo e costosissimo giovane Giuseppe, con i pochi gomitoli di lana che ha raccolto nella sua povera casa, ne è l’esempio: dà quello che ha, prova a mettersi in gioco, non perde il contatto con se stessa e con il mondo perché è povera, parla la sua lingua materna, come le beghine, ha consapevolezza di essere nata in un ordine, l’ordine simbolico della madre, che non ha bisogno di titoli di potere, e lascia il segno della sua esperienza vivente con tutti i chiaroscuri che contiene.”
Milena Nicolini
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locandina inaugurazione
RIFERIMENTI IN RETE:
https://www.diocesidimantova.it/partecipa/appuntamenti/dettaglio/nel-giardino-delle-beghine/
https://www.diocesidimantova.it/conosci/organismi/dettaglio/ordine-della-sororita/