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La vita e l’opera della poeta Indo-Caraibica Mahadai Das (1954-2003) offre un significativo ritratto della vita, dei corpi e delle storie delle donne migrate nel Nuovo Mondo. Nata nel 1954 a Eccles, in Guyana, Das si trasferisce negli Stati Uniti agli inizi degli anni Ottanta per completare i suoi studi di filosofia alla Columbia University, a New York. Non riuscirà poi a completare il suo dottorato di ricerca alla University of Chicago per motivi di salute e nel 1987 sarà costretta a ritornare in Guyana dove morirà prematuramente nel 2003.
Nelle sue raccolte di poesia, I Want to be a Poetess of My People (1977), My Finer Steel will Grow (1982), Bones (1988), e il postumo A Leaf in His Ear: Selected Poems (2010), Das scrive del suo corpo e su di esso incide parole dalla profonda valenza metaforica. I corpi fragili e malati descritti nella sua poesia colpiscono, come scrive Denise Decaires Narain, per il forte contrasto con le figure di donne robuste donne sullo sfondo di nature rigogliose, tradizionale topos delle letterature caraibiche. Nei corpi provati, spezzati di Das si legge la storia di un passato coloniale di rovina e sofferenza. Eppure, quegli stessi pezzi si trasformano nelle loro molteplici combinazioni in magiche composizioni, “mostri” di Mary-Shelliana memoria che conferiscono magia, mistero e forza alla poesia di Das e nuove prospettive alla letteratura caraibica.
Prendendo a prestito dalla cultura letteraria sudamericana e inglese, dalla mitologia Indiana e dall’iconografia amerindio, e mescolando tutto con i continui distacchi e sradicamenti che esilio, migrazione e assimilazione comprendono, la poesia di Das rifiuta con determinazione di accettare qualsiasi forma di alienazione e isolamento. Con il dono di una creatività magica incarnata da paesaggi vibranti fatti di frutti e corpi rigogliosi, la positività della poeta si fa carne, corpo in movimento, ripercorrendo i passi della sua stessa migrazione. Sulla pelle, e nelle ossa, porta un passato lontano, e offre un ritratto della poesia indo-caraibica intrisa di femminismi e senso di appartenenza.
Ho incontrato la poesia di Das nella voce di un’altra poeta Indiana Gujarati migrante anglofona, Sujata Bhatt la cui poesia sulle ossa “Cow’s Skull—Red, White and Blue” (Teschio di Vacca—Rosso, Bianco e Blu) e “Pelvis with Moon” (Ossa Pelviche con Luna), dal volume The Stinking Rose (Carcanet Press 1995) e i suoi paesaggi del Nuovo Messico in “The Light Teased Me” (La Luce che mi tentava), inspirate alle opere della mia compagna di scrittura ormai, Georgia O’Keeffe (1887-1986) sono state già oggetto di mio studio. Le narrazioni di Das e Bhatt e le loro letture del Nuovo Mondo regalano un originale punto di vista che nutre le identità complesse, le esperienze spesso violente e le voci di donne indiane e indo-caraibiche.
Quando gli Indiani arrivano ai Caraibi nel 1838, un numero esiguo, la maggior parte si stabilisce a Trinidad e in Guyana. L’esitazione nel processo di integrazione, la fatica ad accettare la creolizzazione già in atto sono i temi della poesia di Das in continuo equilibrio tra cultura afrocentrica e indocentrica nella cultura caraibica. Denise deCaires Narain ha approfondito il lavoro di Das nel suo libro Contemporary Caribbean Women’s Poetry: Making Style (2001) dove sottolinea il forte impegno della poeta a raccontare la storia delle donne indiane che, arrivate in poche (una donna ogni tre uomini), vennero subito reclutate per svolgere il lavoro nelle piantagioni di riso e canna da zucchero ricevendo due terzi del salario riservato agli uomini. Attivista in Guyana prima e poi nelle comunità guyanesi a New York e Chicago, Das è testimone e sostenitrice della condizione delle donne lavoratrici come della precaria vita domestica delle donne costrette a lasciare il lavoro per ritirarsi nelle case ad esaltare il prestigio delle loro famiglie, scrive (169). Come poeta e donna, Das si preoccupa del futuro della sua terra, e allo stesso tempo intuisce il destino globale dei più deboli e impotenti. La poesia quindi si anima per mobilitare le coscienze al riconoscimento delle molteplici sfumature che caratterizzano le società caraibiche indiane e africane per etnia, sessualità, classe e cultura. Questa intenzione è ben delineata nella prima raccolta di Das, I Want to Be a Poetess of My People (Voglio essere una poetessa della mia gente) del 1977 in cui la poeta ci mostra un autoritratto deciso che mette in piena luce la sua pluralità:
University student, teacher, beauty queen, Mahadai, up to October 1975, was a member of Guyana’s leading para-military force—The Guyana National Service. She served as a pioneer in the Service’s hinterland development and is intensely interested in music, drama and dance.
(Studente universitaria, insegnante, regina di bellezza, Mahadai, fino all’ottobre del 1975, fu attiva nelle forze para-militari guyanesi in servizio—il Guyana National Service. Prestò servizio come pioniera nella crescita e sviluppo del Servizio nell’entroterra del paese, e si dedicò con intensa passione alla musica, il teatro e la danza.)
Superando le limitazioni delle identità forgiate dale line etiche africane e Indiane, l’opera di Das cerca di cucire le due metà della sua gente nell’impaziente desiderio di mettere in atto le parole del motto guyanese del 1966: “One people, one nation, one destiny” (un popolo, una nazione, un destino). Das è fortemente intenzionata, seppure con la sua ingenuità, a respingere ogni filosofia apologetic di un destino sradicato (“Cast Aside Reminiscent Foreheads of Desolation”) per aprire l’orizzonte a nuovi significati e possibilità. Facendo appello alle donne indo-guyanesi, Das invita ad abbracciare l’audacia e il coraggio tipico dello spirito del corpo delle donne afro-caraibiche:
Cast aside your apologetic philosophy of uprooted destiny!
No bride regrets her entry
Into the arms of her husband.
Yet, she never ceases to love her father.
(Basta con la vostra filosofia apologetica di un destino sradicato!
Nessuna sposa rimpiange
l’abbraccio del marito.
Eppure, mai cessa l’amore per il padre.)
Das cuce insieme due modelli di donna nella figura della giovane animosa sposa a cui è chiesto di sposare una terra nuova, un marito, mentre ancora ama la madre patria, e il padre. Come per ogni cucitura, ogni punto penetra nella pelle di ambo le parti con sofferenza, e il risultato non è mai un’amalgama perfetta. Eppure il frutto rimane lo stesso, “frutto di frustrazione e dolore / E speranza” (“fruit of frustration and pain / And hope”— verso 11-12 della poesia “I Want to Be”). La poeta dipinge una terra (lo sposo) di “un verde vibrante, verde verdeggiante” (“vibrantly green, verdantly green”) e donne (le spose) che reciprocamente si regalano fertilità in una serie di immagini robuste e corpose che, ricorrenti nel lessico della poeta, costruiscono lo scheletro della sua opera attraverso un linguaggio fluido ma fermo in equilibrio tra il femmineo e il mascolino che rappresentano la sua femminilità di donna indiana e la sua anima militante.
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leaf’s tesxture- reticulum of veins in a leaf
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La scrittura e la voce di Das con il tempo si fa meno radicale e più mistica e satirica come nella sua raccolta Bones (1989) che—come dice deCaires—continua a mettere il corpo al centro della scena, ma è un corpo ridotto ormai all’essenziale, della sua struttura scheletrica (177). Leggendo Bones ritorna in mente la prospettiva storica di Derek Walcott in “The Muse of History” (1974), quando l’autore condivide con il lettore l’esperienza collettiva del Nuovo Mondo. Come Walcott, Das non rinuncia alla speranza, anzi alza la voce che è intonata bizzarramente da “flauti bianchi” (“Bones” 34), ossa cave che possono essere paragonate “a golden apple / from the Mexican border” (35-36), ovvero a una mela dorata dal confine messicano, un frutto delizioso quando irraggiungibile. Frutto, ovvero corpo, diventano il veicolo per abbracciare il tema dello spazio e delle continue dislocazioni.
Soffermandomi sul titolo dell’intera raccolta, Das descrive una serie di oggetti in un guardaroba, metafora popolare dello scheletro nell’armadio. L’incipit della poesia sembra presagire sinistre e negative immagini di oggetti dimenticati, nascosti nella loro decadenza e appesi in un remoto angolo della casa, la soffitta. Questi “grotesque jewels” (gioielli grotteschi) dell primo verso richiamano atmosphere gotiche e romantiche che evidenziano la passione di Das per la letteratura di Mary Shelley, Charlotte Brontë, e Jean Rhys. La soffitta si anima, prende corpo e respiro vivo abitata da gioielli, corpetti, vestiti da ballo della scuola, ballerine rosse. Come risvegliati dal torpore, stretti sottogonne e veline si fanno sentire come se avessero da dire qualcosa ancora (“they want a say, without a doubt”). Accanto alle scarpette rosse, la voce della poeta inciampa su un paio di stivali, forse a sottolineare la sua doppia identità, quella di regina di bellezza e della casa della donna indo-guyanese, e quella della donna Guyanese militante. La descrizione è grafica, costellata da aggettivi e nomi inaspettati, “grotesque,” “strange,” “gauntness,” “squeals,” and “bony blades,” nell’ordine, grotteschi, strani, magrezze estreme, stridii, e ossa come lame. La luce della luna che penetra dal lucernario invisibile del tetto aumenta il mistero della sinestetica ciecità di scarpette e stivali allo squittio dei sottogonne appesi a lato.
Mentre si chiude la prima parte della poesia, queste creature inanimate continuano a sperare di poter raccontare la loro storia (“they could tell a tale”). Forse è rimasto poca carne attaccata alle loro ossa, ancora una metafora che ci ricorda la tragica e difficile storia della Guyana, ma anche i riti cannibalistici praticati da i Caribi e dai racconti sui fantasmi delle loro vittime. My Bones and My Flutes (1955) di Edgar Mittelholzer e Palace of the Peacock (1960) di Wilson Harris hanno sicuramente contribuito a offrire a Das una visione antropologica della mitologia Amerindia. Ugualmente la designazione originale dei Caribi come “cannibali” data dai conquistatori spagnoli a pretesto dello spietato sterminio sono ben chiari nella mente di Das (deCaires 177). Anche questi due autori possono aiutarci a capire la filosofia storica di Walcott secondo la quale ci viene insegnato il passato, il progresso dalla causa all’effetto. Nel tempo, ogni evento diventa uno sforzo della memoria e spesso diventa così oggetto di invenzioni. Più ci si allontana dai fatti, più la storia si pietrifica il mito. Così, mentre noi invecchiamo come razza, ci rendiamo conto che la storia è scritta, è come una letteratuta senza moralità, e tutto dipende da che punto di vista scriviamo questa stessa storia, dalla parte dell’eroe o dalla parte della vittima. Quando le ossa dei nemici nella tradizione dei Caribi venivano trasformati in flauti, come scrive Harris (106), diventavano uno “strumento di confessione che seppur nel coinvolgimento, ripudiava con leggerezza, il malvagio pregiudizio della conquista che affliggeva l’umanità (“a confessional organ involved in, yet subtly repudiating, the evil bias of conquest that afflicted humanity”). Di conseguenza, quando Das decide di diventare lei stessa quell’osso nel breve componimento “Flute,” attua un profondo e intimo scambio interculturale:
my body’s a hallowed
stick of bone, a flute
through which you pipe
your melody.
(il mio corpo è uno scavato
bastone di osso, un flauto
da cui tu intoni
la tua melodia.)
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Das mette da parte magia e occulto, tipiche letture dell’antico uso delle ossa, e favorisce invece il loro potere di fare musica e armonia nella tradizione amerindia. Per quel poco ciò che di essi pur rimane, lo scheletro dei nostri oggetti (e affetti) ancora ha voce, “After all, it’s not that they dwindled / into dust altogether. Besides, / these bones could make more than music” (“Bones” 17-19), “Dopo tutto, non è che si siano ridotti a polvere in un sol colpo. Tra l’altro, queste ossa posso ancora produrre ben più che musica.” Come scrive Joy Mahabir (2010), le ossa che sono nascoste, o quasi consumate e cancellate, dovrebbero ancora avere una possibilità di parlare. Le ossa ancora scoperte possono essere lette come una allusione alle storie fatte tacere delle donne indo-caraibiche. La soffitta è uno spazio vivo che rappresenta lo spazio della sopravvivenza e della resistenza; gli oggetti rilocati, dislocati, appartati riprendono il loro umano desiderio di essere rivisti, risentiti e riportati al mondo a popolare nuovi tempi e nuove stagioni.
Nel ricco linguaggio metaforico di Das, le ossa fanno da ponte per riconnettere e ricucire l’antico io con il nuovo a venire. Il nuovo corpo può anche essere un “corpo-nel-dolore,” come nella poesia “Resurrection,” un corpo vulnerabile, come quello malato della poeta—ma ancora capace e affamato, “hungry” scrive al verso 23, tanto da fare ancora rumore e suoni. La fame può essere saziata dal lavoro duro delle contadini diligenti, “the diligent farmers” (29) che rivolteranno la terra con i loro aratri il giorno in cui il riposo dell’inverno sarà finito. La metafora non indica la fine, ma un nuovo inizio: la contadina incarna sia la donna indo-caraibica antica delle piantagioni che la militante nazionalista pronta a sposare la nuova terra, sua nuova compagna. Il sodalizio produrrà “golden seedlings,” (30) virgulti dorati, frutti di una terra che ancora offre amore ai suoi paradisi senza lodi o rimproveri (“offer / love to their heavens, / […] without praise or reprimand,” 31-33).
Benchè il corpo della donna nella terza e ultima raccolta sia ormai lontano dalla poeta rivoluzionaria e vigorosa delle prime opera, la figura femminile riappare in un giardino di rose e spine la cui bellezza sta nella loro fragilità e la loro forza nella penetrante abilità di narrare anche dopo la loro morte. Nelle tre raccolte, la poesia di Das si evolve da un lessico principalmente fatti di eventi storici e intimi in una grammatica, come un manuale attraverso il quale la poeta ha imparato a leggere lo spazio, i suoi passati (I Want to Be a Poetess of My People 1976), il presente (My Finer Steel Will Grow 1982), e il futuro (Bones 1989). Studiando la cultura delle cose, gli oggetti di Das vogliono raccontarsi andando oltre la loro intrinseca natura; diventano traduzioni delle esperienze personali e culturali. La loro conservazione negli anni è mirata a dare alle future generazioni un senso di apprezzamento e valore che deve evolvere e adattarsi ai nuovi tempi. Nelle parole di Edward Said, I linguaggi, le culture, le tradizioni non devono rimanere fisse e immutabili come vecchie giacche che si appendono e chiudono in un armadio (2001); devono essere sempre rimescolate. Gli oggetti e i loro nomi danno sostanza—dovrei dire, corpo—alla storia e alle memorie più personali, e aiutarci a sentire le voci urlanti che possiamo udire nelle crepe della storia stessa, come ha scritto Clorilde Barbarulli. (2010). Così facendo, gli oggetti si nutrono di esperienze a più strati specialmente quando rivivono nei racconti di chi le ha possedute, e diventano fotografie visive e corporee di uno spazio-tempo mobile che abita la soglia del passato e del presente, sempre al confine.
I stand between posterity’s horizon
And her history.
I, alone today, am alive,
Seeing beyond, looking ahead.
I do not forget the past that has moulded the present.
The present is a caterer for the future.
(Sto tra l’orizzonte della posterità
e la sua storia.
Io, sola oggi, sono viva,
a guardare oltre, guardando avanti.
Non dimentico il passato che ha foggiato il presente.
Il presente ci porta il futuro.)
(“They Came in Ships” 39-44)
Come nelle parole di Walcott, l’arrivo deve segnare un nuovo inizio, non la fine della storia caraibica. Per coloro i quali si ostinano a vedere solo il naufragio, il fallimento—o meglio il relitto della Nave, il Nuovo Mondo non può che rappresentare la disperazione. Chi pensa così crede nella responsabilità della tradizione e ciò di cui si stupiscono non è la tradizione stessa che è attenta, viva e contemporanea, ma la storia stessa (Walcott 7). Invece, “what seemed the loss of tradition was its renewal,” ovvero ciò che parve la Perdita della tradizione fu in realtà il suo rinnovamento. Le poesie di Das hanno lo specifico obiettivo di riconciliare quelle due metà della storia e la loro eredità. Le sue cuciture possono, è vero, assomigliare più a punti di sutura mostruose di un corpo imbarbarito e ormai irriconoscibile da diventare invisibile. Ma questo corpo ha imparati a rifiutare la rinuncia e si nutre ancora di quella mela che gli appare davanti, Una volta nutritosi, imparerà ancora ad intonare una canzone nuova::
I am the great learner.
I devour the apple but before that,
I halve, then quarter
and eighth it.
(Sono la grande allieva.
Divoro la mela ma prima,
la smezzo, la squarto
e la inghi-otto.)
(“Learner” 1-4)
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Mahadai Das……………………………………………....Bones– Peepal Tree Press Ltd 1989……………………. A leaf in his ear– Peepal Tree Press Ltd 2010
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FONTI
Barbarulli, Clotilde. Scrittrici migranti: la lingua, il caos, una stella. Pisa, Italy: Edizioni ETS, 2010.
Das, Mahadai. Bones. Leeds, UK: Peepal Tree Press. 1989. Fuori stampa.
Das, Mahadai. A Leaf in His Ear: Selected Poems. Leeds, UK: Peepal Tree Press. 2010.
deCaires Narain, Denise. Contemporary Caribbean Women’s Poetry: Making Style, Routledge, 2001.
Harris, Wilson. Palace of the Peacock. Faber & Faber, 2010.
Harris, Wilson. “The Schizophrenic Sea,” in A. Bundy Ed., Selected Essays of Wilson Harris: The Unfinished Genesis of the Imagination, London: Routledge, 1999.
Mahabir, Joy. “Poetics of Space in the Works of Mahadai Das and Adesh Samaroo,” Anthurium: A Caribbean Studies Journal, Vol. 7: Issue 1, 2010.
Mittelholzer, Edgar. My Bones and My Flute. UK: Peepal Tree Press, 2015.
Said, Edward. “Confini Incerti,” Corriere della Sera, September 30, 2011.
Walcott, Derek. “The Muse of History,” Is Massa Day Dead? Black Moods in the Caribbean. New York: Ed. Orde Coombs Anchor-Doubleday. 1974. 1-27.